“Ginevra Sforza”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello. Parte prima [continua]
Fino a qualche decennio fa, storici come Burckardt, Croce, Gramsci, non nutrivano molto interesse per la vita di corte delle signorie, dei ducati, dei principati dell’età rinascimentale, ritenendola scarsamente utile ai fini di una conoscenza degli accadimenti politici che stanno alla base del quadro storico di uno stato. Ciò che era proprio della corte come la vita quotidiana, le feste, i discorsi delle dame durante i ricevimenti, la presenza di artisti e letterati, potevano certamente suscitare qualche interesse per lo studioso, ma non si era disposti a riconoscere una qualche rilevanza sul piano politico.
E’ a partire dagli anni ottanta del secolo scorso che gli storici al contrario ritengono che quegli elementi abbiano sicuramente un rilievo politico non trascurabile. Si pensi per esempio alla rete di accordi, di consensi in chiave politica, costruita da donne intelligenti nel corso di cerimonie, riti, feste, discussioni nei salotti, ecc. Non c’era un principe, un marchese, un signore, che non attribuisse grande importanza alle relazioni familiari allo scopo di stabilire buoni rapporti politici mediante i matrimoni, che quasi sempre appunto erano frutto delle abili arti femminili.
Emblematico il caso di Ginevra Sforza che, appena dodicenne, viene promessa sposa al signore di Bologna, Sante Bentivoglio, molto più anziano di lei. Viene stipulato un contratto matrimoniale già nel 1452 perché la famiglia Bentivoglio, volendo rafforzare il potere sulla città e liberarsi progressivamente dalla autorità del papa, aspirava a una forte alleanza con gli Sforza.
Poco più che bambina, Ginevra passò dai giochi e dai passatempi infantili a una impegnativa vita coniugale, prima con Sante Bentivoglio, con il quale ebbe due figli, e poi, rimasta vedova ancora giovane e bella, con il cugino di Sante, Giovanni Bentivoglio al quale diede sedici figli.
Essere donna in quell’epoca, tra Quattrocento e Cinquecento, significava accettare con rassegnazione la volontà del padre, che quasi sempre stabiliva il rispetto delle tre regole di comportamento dalle quali la donna non poteva derogare: piangere, tessere e parlare. Nel caso di Ginevra, però, e di poche altre donne di nobile famiglia, le cose andarono diversamente. Il padre Alessandro Sforza, signore di Pesaro, aveva costruito la sua fortuna come eccellente condottiero nelle numerose e infinite guerre che si combattevano a seguito di alleanze, voltafaccia, infausti legami familiari, rivendicazioni territoriali e altro. Per questo motivo passava la maggior parte del suo tempo lontano dalla sua città. Ma ciò non gli impedì di prendere moglie e di avere due figli, Battista e Costanzo, con la moglie legittima e altri naturali come Ginevra.
La bella moglie Costanza Varano, donna intelligente e fine letterata, si assunse il compito della educazione della piccola Ginevra di appena quattro anni e in poco meno di tre anni diede al marito due figli. Morì giovanissima, lasciando i due figli non ancora svezzati. Rimasto vedovo, Alessandro sposò Sveva da Montefeltro, figlia del signore di Urbino. Il matrimonio non fu affatto felice; Sveva, non avendo figli, riversò tutto l’affetto e le attenzioni verso i tre figliastri. Ciò nonostante ebbe molte amarezze dalla vita familiare. Circondata da gravi sospetti di congiura contro il marito, fu costretta dopo dieci anni di matrimonio a ritirarsi nel convento delle clarisse con il nome di Suor Serafina. A trecento anni dalla sua morte, il papa Benedetto XIV la beatificò.
Ginevra visse giorni sereni come la maggior parte dei figli di nobili famiglie, anche se a volte noiosi, dominati da regole inflessibili di comportamento in occasione di cerimonie, di ricevimenti, di lunghe pose artistiche dinanzi a pittori che li ritraevano da soli o insieme ai familiari. In chiesa, dove la famiglia del signore di Pesaro aveva uno scanno riservato finemente intarsiato, si esigeva da loro un perfetto raccoglimento, uno sguardo e un atteggiamento particolarmente devoti: nessun movimento e nessuna parola estranei alla preghiera collettiva dovevano distrarre dalla cerimonia religiosa che il vescovo o un alto prelato officiava. Questi obblighi costituivano specie per Ginevra un fastidio non lieve, perché avrebbe voluto girare lo sguardo verso il pubblico, muovere le braccia e le gambe che reclamavano libertà, dire alla sorella qualche parola spiritosa per farla sorridere, come spesso accadeva a casa.
Quella mattina in chiesa le venne in mente all’improvviso il buffo episodio che era accaduto la sera prima. Costanzo, il fratello, che amava i giochi violenti e guerreschi, volendo imitare le gesta del padre in battaglia, si era messo in testa di essere un soldato vittorioso che incoraggiava i suoi mercenari a inseguire i nemici e, tenendo in mano un lungo bastone come una lancia, correva lungo il corridoio a piano terra vicino alle cucine. D’un tratto, la cuoca Matilde, uscendo da una porta laterale con un enorme vassoio sul quale erano poggiati vari piatti e una pentola di brodo per la cena, fu investita da quella furia selvaggia e rotolò a terra. Battista rivisse la scena alla quale aveva assistito insieme alla sorella, alzò gli occhi, fece un piccolo gesto con la mano, accennando a un sorriso che Ginevra ricambiò, facendole intendere che aveva capito quel che voleva dirle. Un severo sguardo di disapprovazione della matrigna bloccò immediatamente un comportamento irriverente che non poteva non sfuggire all’attenzione del pubblico e degli ecclesiastici. Naturalmente a casa subirono il rimprovero e l’immancabile punizione.
Una sera Ginevra, quando la dama che le aiutava a sbrigare la cura delle loro persone prima di mettersi a letto se ne fu andata, le disse: “ Smetti di piangere tanto lo sai che non è madre né a te, né a me e nemmeno a Costanzo. Vostra madre è morta, la mia forse è viva anche se non l’ho mai vista. Chissà se un giorno potrò incontrarla e abbracciarla! Tu devi accontentarti di pensarla e di pregare per lei. Non singhiozzare più, ti prego!” Le asciugò le lacrime con il suo bel fazzoletto ricamato, la baciò sulla fronte e le rimboccò la coperta.
Ginevra ebbe un pensiero fisso intorno a quella possibilità che le aveva fatto intravedere Battista. Al padre, quando tornava dalle sue imprese guerresche, non osava chiedere nulla. Era piuttosto molto attenta ai discorsi che qualche volta riusciva a sentire sui prodigi del padre come comandante di soldati e anche come vincitore di battaglie amorose con dame maritate. Erano soprattutto maggiordomi e personale di servizio presso la corte che di nascosto si scambiavano dicerie, malignità, espressioni di odi più o meno manifesti che circolavano tra le nobili famiglie della città. Ginevra aveva memorizzato i nomi di due donne: Mattea e Pacifica. Erano due nomi che ricorrevano con maggior frequenza in quei discorsi che Ginevra, ora con una scusa, ora con un’altra, era riuscita con apparente distrazione ad afferrare. Pertanto si era riproposta di conoscere quelle due donne.
L’occasione non tardò a venire. Fu dopo una cerimonia religiosa, all’uscita dalla chiesa che una donna vestita elegantemente le si avvicinò e facendole una carezza disse:” Ecco Ginevra, la figliola di Alessandro! Vieni Pacifica, cugina cara, guarda com’è cresciuta e come si è fatta bella!”
Non fu difficile per Ginevra intuire che quelle due donne fossero proprio Mattea e Pacifica. Ma la giovinetta restò delusa, perché non provò alcuna emozione né per l’una, né per l’altra; non trovò neanche un piccolo segno di rassomiglianza. Concluse perciò che nessuna delle due poteva essere sua madre.
In realtà l’intuizione di Ginevra era esatta. Le due cugine, Mattia e Pacifica Samperoli “felicemente maritate”, erano state licenziose amanti, ma da loro il signore di Pesaro non aveva avuto figli. Giravano voci in città che Alessandro, al ritorno da ogni spedizione militare, si recasse da un ricco mercante ebreo, al quale commissionava tutto il necessario (armi, gambali, corazza, finimenti di cuoio per il cavallo e altro) che gli occorreva per essere sempre pronto per qualsiasi ingaggio militare vantaggioso. Ora quel mercante aveva una figlia bellissima che cominciò a corteggiare sin dal primo incontro. La giovane assecondò con piacere la passione dell’uomo più potente della città e presto si trovò incinta e partorì una bambina.
-“Non hai nulla da temere, disse il baldo signore alla sua amante, la bambina avrà nella mia famiglia tutte le cure per una eccellente educazione e porterà il prestigioso nome degli Sforza. Naturalmente tu godrai di una adeguata ricompensa che ti consentirà di vivere una esistenza più che dignitosa”.
Era una offerta generosa che la ragazza non poteva rifiutare. L’offerta era condizionata al rispetto dell’ordine di non tentare in alcun modo di rivelarsi alla fanciulla neanche in futuro.
Ginevra, a quattordici anni fu pronta ad andare sposa, secondo il contratto già stipulato, al signore di Bologna, Sante Bentivoglio. In occasione dei preparativi del matrimonio che si annunciava particolarmente prestigioso per le famiglie di appartenenza degli sposi, Ginevra se da un lato era profondamente rattristata perché doveva separarsi da Battista, dall’altro era pervasa da una frenesia, da una carica di gioia, di curiosità per le novità che si approntavano. Correva da una stanza all’altra del palazzo, chiedendo alla sorella di aiutarla a sistemare oggetti, vestiti, scarpette, in uno dei tanti bauli che si andavano riempiendo.
Fu proprio in quei giorni tumultuosi che Ginevra fece un incontro che lasciò nel suo animo un’impronta indelebile.
Miriam, una donna ebrea, venuta al palazzo con due giovani aiutanti, le mostrava alcune bellissime stoffe di seta che il padre le aveva affidato. Ne descriveva la provenienza, i colori, la preziosità e rarità. E mentre la futura sposa provava su di sé le stoffe, Miriam fece un sorriso e sfiorò la sua spalla. Lo sguardo di Ginevra per un attimo incontrò quello di Miriam e tanto bastò perché la ragazza provasse improvvisamente un turbamento che la lasciò a lungo avvolta in un velo che le impediva di vedere con chiarezza attorno a sé.
Il signore di Pesaro aveva un buon numero di spie in città che riferivano su ogni movimento delle famiglie nemiche, su probabili congiure che potevano abbattere il potere degli Sforza. Fu così che anche se assente da casa per doveri militari, la notizia della visita di quella donna ebrea giunse ad Alessandro, il quale incaricò un suo fedele servitore di portare al mercante ebreo e a sua figlia l’ordine di lasciare immediatamente la città e di trasferire altrove i loro commerci. Da quel giorno mai nulla si seppe di quegli ebrei.
Dopo l’incontro con Miriam, Ginevra fu presa da una sensazione di abbandono, di solitudine, che le procurava una grande tristezza. Affacciata alla finestra della sua camera si abbandonava al sogno. Il suo sguardo correva lungo il filo dell’orizzonte, ogni tanto interrotto dal volo di un uccello. Poi si fermava su un casolare circondato da un boschetto. Non giungeva a vedere alcun particolare, ma era ben visibile il bianco sentiero che serpeggiando giungeva fin là. Avrebbe voluto essere libera di andare e raggiungere quel casolare e parlare con quella gente. Nei campi attorno al palazzo, un pastorello sorvegliava il gregge e suonava lo zufolo. Le piaceva ascoltare quel suono. L’odore della terra e dell’erba calpestata dalle pecore, le dava una specie di vertigine, uno strano desiderio di fuga, una sottile ansia di futuro. Poi non comprendendo bene il motivo di una assenza, scoppiava in un pianto dirotto. Le lacrime le rigavano il volto e restava a lungo distesa supina sul letto a pensare allo sconosciuto, cui il padre l’aveva già maritata. Sapeva soltanto che era il signore di Bologna e che avrebbe potuto godere di immensi privilegi. Il suo nome era Sante: lei appena quattordicenne, lui un uomo di trentasei anni. Di più non sapeva se non quanto dicevano coloro che lo avevano conosciuto che era di bello aspetto.
Sante, figlio naturale di Ercole Bentivoglio, era cresciuto in Toscana presso la corte medicea dove aveva potuto godere della raffinatezza di quella società. Chiamato al governo di Bologna, dimostrò ottime qualità politiche; molto diplomatico riuscì in pochi mesi a rasserenare il clima politico della città, frenando gli odi tra le famiglie più in vista e ponendo fine alle ribellioni e alle stragi che frequentemente insanguinavano la città. In breve, si meritò il rispetto e la simpatia dei bolognesi. Le nobildonne lo adoravano e ciascuna sperava di poterlo avere come sposo, non tanto per amore, quanto per l’ambizione di condividere il potere principesco. Ma Sante aveva buon intuito, sapeva dominare i suoi sentimenti e non aveva difficoltà ad allontanare da sé le donne invadenti e altere, anche se aristocratiche e altolocate. Tuttavia riteneva giusto che le cure del governo non dovessero assorbire completamente la sua vita. A Poppi, dove era nato e vissuto fino alla prima giovinezza, destinato a diventare un bravo lanaiolo, aveva la possibilità di dare libero sfogo ai suoi sentimenti, alle prime gioie amorose. Ora a Bologna, nel suo altissimo compito di signore della città, impegnato in mille problemi cittadini, in difficili relazioni diplomatiche con altri principi, duchi, governatori, non gli restavano che pochi frammenti di tempo. Ciò nonostante non passò che qualche mese dal suo ingresso trionfale a Bologna per incontrare la donna che lo fece innamorare perdutamente: Nicolosa Castellari, bellissima, giovane e purtroppo maritata con il ricco aristocratico Nicolò Sanuti, un uomo anziano e malaticcio, fedele alla causa dei Bentivoglio.
Quando Ginevra arrivò a Bologna, quel rapporto amoroso durava già da qualche anno, nonostante il severo rimprovero del patriarca della famiglia Bentivoglio. Il vecchio Ludovico, infatti, lo metteva in guardia dal perseverare in quello che si rivelava un vero errore politico, sia perché l’amante Nicolosa era moglie di un amico fedele, sia perché i bolognesi non avrebbero visto di buon occhio un comportamento immorale così esplicito. “Ma al cuore non si comanda” gli rispondeva Sante, non essendo assolutamente disposto a rinunciare al suo amore.
Per continuare a vedere la donna amata, Sante aveva acquistato segretamente e fatta arredare una modesta casa nel quartiere popolare. Durante uno degli ultimi incontri, Nicolosa, avvicinatasi alla finestra, si fermò a guardare il sole che tramontava dietro le alte torri e la luce rossastra che si stampava sui muri delle case attorno. “Che cosa fai là dietro i vetri, vieni qui accanto a me; abbiamo così poco tempo per stare insieme”, diceva Sante. E poiché la donna non si muoveva e non rispondeva, si alzò dal letto e le si avvicinò alle spalle, abbracciandola. Solo allora si accorse che piangeva. “Perché piangi? Che ti succede?”
Con un filo di voce gli disse: “Ho saputo che ti sei sposato per procura con la figlia del signore di Pesaro. Perché non me l’hai detto? Tutte le donne di Bologna ora ne parlano. Non fanno altro che compiangermi e dicono che è prossima la fine della nostra storia di amore”.
-“Se piangi per questa ragione, puoi licenziare la tua tristezza, mia dolce Nicolosa. Ho firmato un contratto di matrimonio con una bambina che ha solo dodici anni e nemmeno conosco. Tu sai che ho degli obblighi politici. Questo matrimonio mi aiuta a rafforzare il mio potere e a tenere a freno le ambizioni della famiglia Malvezzi che mi è particolarmente ostile. La fanciulla, Ginevra Sforza, è nipote del duca di Milano Francesco Sforza. Il matrimonio mi consente di avere dunque una alleanza formidabile anche contro le continue pressioni che ricevo dal papa Niccolò V, sempre pronto ad approfittare di qualche debolezza per riprendersi le sue terre. I sicari del suo predecessore Eugenio IV, come ben sai, hanno eliminato mio cugino Annibale solo qualche anno fa. Ci sono spie e nemici pronti a congiurare, per cui ho un estremo bisogno di circondarmi di alleati forti e fidati. Il nostro amore è fuori della politica. E quando la fanciulla sarà cresciuta e verrà qui a Bologna, stai tranquilla perché non cambierà nulla. Continuerò sempre ad amarti.”
[continua]