IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Enzo Fasano, maestro della tarsia

Enzo-fasano

Di Paolo Vincenti

Una pubblicazione del 2007 del catalogo della collezione d’arte moderna appartenente alla Camera di Commercio di Lecce , in cui sono presenti le sue opere e di cui mi omaggia Enzo Fasano, in occasione di una mia recente visita a casa sua, mi dà l’occasione di ritornare sulla bellezza e sull’originalità dell’arte di questo maestro parabitano della tarsia lignea, che ha ricevuto attestazioni di consenso dalla più titolata critica.

Nelle grandi sale della sede leccese dell’ente camerale, infatti, in Viale Gallipoli 39, sono presenti ben quattro opere di Enzo Fasano: Omaggio a Parabita( intarsio ligneo di cm 67,5 x 77,5 ), Japigia ( cm 110 x 75), Messapia ( cm 110 x 75) e soprattutto Salento (cm 300 x 550). Di quest’ultima macrotarsia, che campeggia sul grande scalone dell’ex ingresso della Camera di Commercio, scrive Donato Valli che essa rappresenta “ una sintesi organica, programmata, dell’itinerario artistico di Enzo Fasano” .

Nel mezzo di un argilloso paesaggio salentino, si alza un arco con incisi i misteriosi dipinti della Grotta dei Cervi di Porto Badisco; a destra del quadro, una stele dauna, simile ad un salentino menhir, un ceppo con alcune indecifrabili incisioni e contadini che, intenti nel lavoro quotidiano, portano un cesto pieno di frutta, l’uva appena raccolta, e un fascio di grano; nel mezzo, una trozzella messapica, un orciolo di terracotta ( lu ‘mbile) e, sullo sfondo, proprio al centro dell’arco-simbolo, si intravedono, di spalle ad un bellissimo tramonto, delle esili figure eteree che, come fantasime tornate da un remoto passato, ballano una danza della vita e della morte, una danza ancestrale nel mezzo di un campo di terrarossa.

Nell’uva e nel grano portati dagli umili zappaterra stanno i simboli stessi della nostra civiltà contadina del passato, emblematici della nostra economia rurale ma anche della nostra millenaria spiritualità, allegoria del pane e del vino dell’eucarestia cristiana. Sulla destra del pannello, sullo sfondo degli alberi di ulivo, una casetta- furneddhu, tipico esempio dell’architettura povera meridionale, dei fichi d’india e, in primo piano, delle contadine con dei panieri per la raccolta delle olive. Una di esse significativamente tiene sotto braccio un ombrello per ripararsi in caso pioggia.

Poi, cesti di vimini adagiati per terra e un cielo meraviglioso e intenso, tanto Fasano ha saputo rendere, con la policromia delle sue tessere lignee, le sue variegate sfumature di colore. Insomma, in questo mosaico, nella rappresentazione iconografica che Fasano ha fatto del nostro passato remoto e prossimo, riposa veramente l’epopea di un popolo, un universo di segni e simboli culturali racchiuso in un quadro.

Vale la pena fermarsi un momento ad ammirarlo, se ci capita di recarci per motivi di lavoro alla Camera di Commercio di Lecce, nel passare frettolosamente da un ufficio all’altro. Questa grande tarsia ci fa entrare nel mondo pittorico di Enzo Fasano, artista un po’schivo e appartato. Il suo è un mondo popolato dagli elementi più caratteristici del nostro paesaggio salentino, quali vecchie case scalcinate o le antiche curti e il dedalo delle strade e stradine dei centri storici dei nostri paesi, misti a simboli ancestrali come le iscrizioni messapiche o i pittogrammi di Porto Badisco, ad esseri esili e proteiformi che intrecciano danze tribali, a manufatti litici come specchie, dolmen e menhir, che si uniscono a zappe, rastrelli, scarponi, cesti di vimini e altri attrezzi del lavoro quotidiano dei contadini.

Un mondo popolato da cavamonti e cave di tufo, da campagne infinite e assolate, dove gli ‘ppoppiti salentini e le loro donne ricurve sui campi raccolgono le patate o le olive, insieme a stele daune e misteriose scritture dentro il ventre di grotte millenarie; e ancora, gli spaventapasseri, che si animano e attraversano le strade, simili a maschere tragiche o a Lari che sembrano aspettare il nostro passaggio sul limitare dei poderi o ai crocicchi delle strade, per metterci in guardia dal disastroso corso di progresso che ha intrapreso l’umanità e che, se non fermato o corretto in tempo, porterà questa società del consumismo alla distruzione finale. Colpiscono i volti dei contadini di Fasano, così rugosi ed espressivi, così segnati dalla fatica, da quel sangue che ogni giorno rendevano alla terra per avere in cambio la sopravvivenza e garantirla ai propri figli.

Questi contadini, a volte ritratti nel duro lavoro, altre volte colti in un momento di stanchezza, quando seduti su pietrefitte o per terra, spossati, vinti dalla fame o dal caldo, sembrano quasi meditare sul proprio destino con rassegnato fatalismo, nei solchi che corrono sui loro volti simili a contorti tronchi di alberi di ulivo, paiono i guardiani immobili di un tempo perduto. Enzo Fasano, classe 1944, da sempre si dedica all’arte antichissima della tarsia, che, fiorente dal Trecento al Seicento, ha poi subito uno scadimento ed un oblio, fino agli inizi del Novecento. Non so per quale motivo Enzo Fasano abbia deciso di abbracciare quest’arte. Sarà perché, come scrive Carlo Munari, “sin da quando mosse i primi passi nelle campagne di Parabita, egli abbia colto l’albero in una dimensione magica, come un prodigio della natura, e che successivamente sia stato sedotto dalle qualità intrinseche al legno.

Che insomma la sua ottica non sia stata strumentale ma estetica, al punto di cogliere il tronco dell’albero come pelle viva, pulsante di linfe e di umori. E che abbia gradualmente preso dimestichezza con i differenti sembianti in cui gli alberi, similmente a creature, andavano proponendosi, così che ciascun tipo di legno parlava alla sua fantasia con un proprio linguaggio” . Sarà che il suo estro gli abbia suggerito di scegliere un percorso diverso da quello degli altri artisti, una strada meno battuta, meno frequentata; o sarà per l’influenza che hanno avuto sulla sua formazione i suoi maestri, Salvatore Spedicato e soprattutto Ermanno Vanni. O ancora sarà perché, come ha osservato Romano Pieri, “il suo temperamento meditativo lo spingeva a tempi lunghi, così come gli amanuensi si applicavano ai codici perché nella miniatura trovavano il correlato al loro desiderio di meditazione” .

Comunque Fasano ha sicuramente innovato l’arte stessa dell’intarsio, come il suo repertorio dimostra, giungendo a creare della tarsie di dimensioni eccezionali (si pensi alla grande Crocifissione, di metri 3 x 2, che campeggia nell’atrio del suo palazzo- laboratorio nel centro storico di Parabita). Ecco, in questo laboratorio creativo, come l’officina del Dio dei fabbri Efesto, di mitologica memoria (Parabita è terra di maestri ferrai), mi piace immaginarlo, mentre demiurgicamente tira fuori dal legno le sue creazioni, come gli alchimisti del passato facevano i loro esperimenti per trasmutare i metalli in oro. Fasano non cerca la combinazione alchemica per creare la pietra filosofale ma dei legni pregiati per realizzare delle tessere musive, sulle quali dipingere i soggetti della sua trama pittorica.

Certo, ci vuole una pazienza certosina per applicarsi ad una tecnica come quella dell’intarsio. Proviamo a pensare a questo artista che rimane piegato sulle sue tavole per ore ed ore, per giorni e giorni, mentre fuori dalla sua bottega il mondo corre veloce, troppo veloce, e usa e getta pezzi di scambio di questa interattiva e tecnologicamente avanzata società. Chi di noi oggi lo farebbe? Chi saprebbe resistere alle tentazioni del “tutto e subito”, alle sollecitazioni del real time, per immergersi in una vita quasi cenobitica, lontano dalle voghe e dallo stress? Proviamo a pensare alla caparbietà con cui Fasano costruisce i suoi mosaici, sceglie i materiali, lavora le lamine di legno, le dipinge, le ritaglia e le incastra fra loro, alla luce fioca di una lampadina nell’ammezzato del suo palazzo, e a quanta devozione ci voglia, mentre dalla sua radiolina (quasi sempre accesa) arrivano e passano notizie del mondo fuori, che vive in una multimedialità esasperante, massificante, quella del moderno villaggio globale (per dirla con McLuhan).

Rifugge dalle mode, l’arte di Fasano “un artista moderno dal cuore antico”, come ha scritto Carlo Munari . Molte le rassegne collettive nazionali ed internazionali, a cui ha partecipato nel corso della carriera e le mostre personali tenute, sempre all’insegna di quella “archeologia lirica del maestro Fasano”, come l’ha definita Donato Valli . Quando penso che l’attività di Enzo Fasano rientra nell’ambito dell’artigianato artistico salentino (un vanto della nostra terra in Italia e all’estero), mi viene in mente quella bellissima frase di San Francesco D’Assisi che dice: “Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani, la sua testa ed il suo cuore è un artista.” Fasano è tutte e tre queste cose insieme. Oggi è considerato uno dei più importanti maestri viventi della tarsia al mondo. Fasano, “l’intarsiatore alla ricerca della felicità”, come lo ha definito Mario Marti , ci racconta nelle sue opere una storia antichissima.

Lontano da ogni idillismo, il paesaggio assolato e a volte spettrale del Sud si fa reale, anche troppo reale, sfiorando il tema della denuncia sociale in certe visioni di rinuncia e povertà dei nostri paesi e campagne, come in quell’orciolo, così abbandonato a se stesso, o negli scarponi sfondati, in quelle porte scardinate, in quelle finestre, in quelle crepe nei muri. Così pure, in quella civiltà georgica dipinta da Fasano, fra i suoi contadini che vangano la terra ed hanno nei loro volti rassegnati, nei gesti dimessi, un che di fatalistico, Fasano si fa aedo di un mondo in estinzione, compartecipe cantore. Sebbene la sua presenza a mostre ed eventi artistici si sia un po’ diradata negli ultimi tempi, la sua attività pittorica continua di buona lena; ed io spero che possano essere presentate quanto prima anche queste sue nuove incisioni, che ho avuto la fortuna di ammirare nel suo laboratorio atelier, in via De Jatta 20 a Parabita, in un bel palazzo gentilizio dalle linee pulite ed essenziali, sulla cui parete di ingresso non compare nessuna pregiata targa ad indicare lo studio del maestro, ma solo un semplice citofono con la scritta “Enzo Fasano”.

PAOLO VINCENTI

Pubblicato in “Nuovalba”, Parabita, luglio 2012 e in “Quaderni del Liceo Classico Capece”, Miscellanea di saggi e contenuti, Akademos, Collepasso, gennaio 2014.

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