“Effemeridi. Taccuino tripartito” l’ultimo lavoro editoriale di Paolo Vincenti. Premessa dell’autore e prefazione di Giuseppe Resta
“Scartafacci, fogli extra vagantes, brogliacci, appunti di viaggio, bozze, lacerti…”
Oppure come altro vogliamo definire questo “Taccuino tripartito”?
Un vocabolo che, per altro, mi fa pensare a quell’antica e bella abitudine da viaggiatore romantico di annotare, vergando, e non potrei usare altro verbo, con il lapis, su un quadernetto dalla copertina rigida chiusa con un fiocco, a ribadire preziosità, ogni impressione, le soste, gli incontri. Oppure a qualche bozzetto, uno schizzo, tirato giù rapidamente a matita, fissando sulle pagine gialle, come fossero foto istantanee, tutto quanto si incontrava in un viaggio. Una piccola antologia di ricordi e sensazioni, emozioni e interessi. Brani sparsi di vita e sguardi sul mondo.
Una volta, una raccolta così, tra i letterati si sarebbe definita più propriamente “zibaldone”.
Non male neanche questo vocabolo. Perché, come in questo “Taccuino”, lo stile letterario dello zibaldone permette una grande libertà espressiva, concedendo di scrivere liberamente senza dover seguire una trama o una struttura formale. Questo concede di esprimere appunto ricordi ed emozioni, riflessioni personali, offrendo così al lettore un’intima finestra sulla mente e sull’anima dell’autore.
Altro pregio dello zibaldone, che ritroviamo puntuale in questa raccolta di scritti, è l’eclettismo. Si manifesta incorporando spesso idee e influenze attinte da una vasta gamma di discipline, come filosofia, letteratura, scienza, storia, politica e arte. E, in questo nostro caso, soprattutto musica.
Gli autori di zibaldoni annotano sempre dettagliate osservazioni sulla vita quotidiana, sulla natura, sulla società e su eventi di cronaca, prima che diventino storici. Queste osservazioni, a distanza di tempo – e con l’attuale l’accelerazione storica basta veramente poco per finire nel passato -, possono diventare preziose testimonianze culturali. E Paolo Vincenti allega alcuni scritti di questo tipo, a memoria di tempi recenti ma già passati, come pagine appena scritte e già voltate.
Il più famoso esempio di zibaldone nella letteratura è senz’altro lo Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, un’opera composta da migliaia di annotazioni, pensieri e riflessioni, che riesce a raccontare il grande e amato autore italiano meglio di qualsiasi sua poesia o altro componimento. Anche Paolo Vincenti scrivendo si racconta, quasi impudicamente.
Per curiosità, va detto che il termine “zibaldone” è di origine gastronomica, derivando dall’antica voce verbale italiana “zibaldare,” che significa mescolare o confondere una vasta gamma di alimenti. Stesso etimo, dicono, di “zabaione”. Per estensione dalla culinaria si è arrivati a definire una miscellanea di argomenti, aforismi, appunti trattati in modo non lineare.
E se ci riferiamo alla gastronomia, questo “Taccuino” ricorda un ottimo spumante italiano millesimato: prosa e citazioni spumeggianti e frizzanti, dal perlage persistente, fresche, leggermente acidule, rinfrescanti e di pronta beva. Ottenuto miscelando “arborianamente” l’Alto e il Basso, in perfetto connubio di pop e colto. E il “pop” ci porta ai classici. Ma anche il pop, in fondo, ha i suoi classici.
Nella cultura, il concetto di “alto” e “basso” può assumere diversi significati e si sviluppa in diversi paradigmi e su svariati registri, basati generalmente su di un’improbabile dicotomia tra “Alta cultura” vs. “Bassa cultura”.
Per “Alta cultura”, usualmente, si fa riferimento ad espressioni culturali e artistiche considerate sofisticate, complesse, accademiche. Invece, ci si riferisce alla “Bassa cultura” di fronte a forme culturali più popolari e accessibili, spesso considerate meno sofisticate o meno accademiche. Spesso si dimentica, purtroppo, che la Cultura e la Civilizzazione – quest’ultimo è un francesismo che personalmente adoro -, sono date da entrambi gli aspetti. Gran parte della cultura popolare è divenuta Cultura accademica.
Pensiamo alle musiche popolari, tramutate in musica classica. Un esempio per tutti, il compositore Antonín Dvořák, che nella sua musica ha incorporato melodie folkloristiche slave. Ma anche Béla Bartók e Zoltán Kodály hanno attinto alla musica popolare slava. E Bizet all’Habanera, ritmo cubano diventato famoso nella musica classica grazie all’opera Carmen.
Così come il ritmo e la passione del Flamenco sono stati introdotti in alcune composizioni di musicisti classici spagnoli, come Isaac Albéniz e Manuel de Falla. E il Tango argentino ha influenzato, fuso con la musica classica contemporanea, diversi compositori, tra cui Astor Piazzolla.
E, in un percorso inverso, la stessa musica classica è stata assorbita dal rock e orchestrata in “elettrico”.
Basti pensare all’album Contaminazione del “gruppo” Rovescio Della Medaglia, che, nel 1973, rifaceva in orchestrazione rock il “Clavicembalo ben temperato” di Bach.
O al basilare Pictures at an Exhibition, terzo album del gruppo progressive rock britannico Emerson, Lake & Palmer, pubblicato nel 1971. L’album, registrato dal vivo, consisteva nella rielaborazione in chiave rock di alcuni brani dall’omonima composizione pianistica di Modest Petrovič Musorgskij del 1874.
In letteratura, nella commistione “Alto” e “Basso”, troviamo i poemi classici ritornati a essere teatro dei burattini o testi di cantastorie. Le epopee epiche come l’Iliade e l’Odissea di Omero, il Ramayana indiano o il Beowulf anglosassone sono spesso soggetti a trasformazioni da parte dei cantastorie. Questi narratori itineranti possono estrarre episodi chiave oppure raccontare le storie in forma di canzoni o narrazioni per un pubblico più ampio. Opere letterarie classiche come quelle di Shakespeare, Alighieri o Cervantes possono essere reinterpretate dai cantastorie che le rendono più accessibili e divertenti, trasformando dialoghi complessi in canzoni o semplificando la trama per adattarla a un pubblico popolare.
Insomma, chi voglia associare a questa surrettizia dicotomia la valorizzazione della modestia e della semplicità (basso) rispetto all’ostentazione e all’eccesso (alto) sbaglia ancora: non esiste vera cultura senza umiltà e capacità di divulgazione. Il “parrucconismo” è cosa barbosa di élite accademiche complessate. Anche quando si addentra in raffinati giochi etimologici, Paolo Vincenti non cade nel peccato, ma vola leggiadro di fiore in fiore con sapiente profonda leggerezza.
La passione per l’etimologia, tra l’altro, mi accomuna molto con l’autore del “Taccuino”. Anch’io mi trovo affascinato dalla ricerca delle origini e nello studio delle radici linguistiche delle parole, sempre interessato a comprenderne l’evoluzione storica, identificando la loro origine, le influenze linguistiche e culturali che hanno contribuito a plasmare il loro significato e la loro forma. L’etimologia è un’attività affascinante, poiché consente di scoprire come le lingue si sono intersecate e come le parole hanno viaggiato attraverso i secoli, portando con sé fasi culturali e storiche. Forse come altre poche cose ci narrano delle miscele con cui siamo fatti. Rappresentano il DNA culturale di un’ibridazione lunga millenni.
Per corroborare in chiave “alta” questa mia convinzione di fusione tra Alto e Basso, che dalla musica spazia in tutte le arti, mi faccio forte del pensiero di Marcel Proust, tratto da Éloge de la mauvaise musique: “Non disprezzate la musica popolare. Siccome essa si suona e si canta molto più appassionatamente di quella “colta” a poco a poco essa si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini. Per questo vi sia rispettabile. Il suo posto è immenso nella storia sentimentale della società. Il ritornello che un orecchio fine ed educato rifiuterebbe di ascoltare, ha ricevuto il tesoro di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite di cui fu la ispirazione, la consolazione sempre pronta, la grazia e l’idea.”
Trovai questa citazione stampata su di un foglietto inserito nell’Elleppì (Long Playing, così si chiamavano prima di diventare “Album”) di Antonello Venditti. Quello, a mio parere, migliore di tutti i suoi: Le cose della vita, del 1973. Quello che conteneva, sempre a mio parere, una delle più belle frasi della poesia italiana del ‘900 inserita dentro al pezzo che dava il titolo all’album: “Le cose della vita fanno piangere i poeti/ma se non le fermi subito diventano segreti”. Mi colpì molto, questa citazione di Proust, oltre il verso di Venditti, tanto che provvidi a fissare con delle puntine da disegno il foglietto sul mobile dov’era il mio impianto stereo. E lì è rimasto per anni e anni. Così ne ho assimilato il concetto e ne ho fatto faro.
Se io, in quegli anni, liceale, o appena universitario, tutto preso dai cantautori, eleggendoli a vati letterari, a maestri di pensiero, a lettori e interpreti delle mie pulsioni, delusioni e aspirazioni, avessi letto questo scritto di Paolo Vincenti nelle parti, cospicue, che riguardano la musica italiana, sarei stato felicissimo, appagato e compiaciuto dall’aver trovato risposta a tanti miei percome e tanti miei perché. Lo avrei eletto come Bibbia del cantautorato italiano, e non solo. L’avrei elevato ad analisi scientifica della musica d’autore italiana, anche di quegli interpreti che sono stati fugaci come meteore. E solo la mente aguzza di Paolo può ricordare e sistematizzare, con maestria e rigore quasi tassonomico.
Anche il viaggio attraverso i cantautori ci narra un’Italia che cambia sentire, cambia politica, cambia mode e modi, di dire fare e baciare. Testi scritti animati da un furore interiore mai domo, mai negli argini del politicamente corretto e nemmeno del banale politicamente scorretto per far proseliti verso quella direzione ostinatamente contraria. Ostinata contrarietà dogmatica che spesso porta a infrangersi contro i muri della omologazione alternativa, dell’originalità a tutti i costi che, se esagerata, porta a diventare così monotoni e scontati. Paolo non corre questo rischio.
La poetica dei cantautori italiani è un argomento complesso e affascinante che riflette l’evoluzione della musica e della poesia nel contesto italiano. Sono artisti che compongono e interpretano le proprie canzoni, spesso con un forte focus sulle parole e sulla narrazione, contribuendo in modo significativo alla cultura musicale italiana e alla scena poetica del paese.
Perché tanto amore, sia mio che di Paolo, per le canzoni d’autore?
Le canzoni d’autore possono svolgere un ruolo formativo significativo nell’educazione dei giovani, l’ho provato direttamente, poiché offrono una varietà di benefici, esprimendo pensieri in modo creativo, ma addirittura maieutico, attraverso la musica e i testi. Questa espressione emotiva può aiutare i giovani a sviluppare una migliore comprensione di se stessi e delle proprie emozioni. Inoltre può aiutare a imparare e riconoscere la poesia nei testi delle canzoni e l’arte nella composizione musicale, arricchendo la loro sensibilità artistica. Le canzoni d’autore, spesso, presentando testi lirici e poetici, contribuiscono allo sviluppo delle competenze linguistiche e letterarie, migliorando la loro comprensione della lingua e della letteratura.
Queste canzoni, spesso, affrontano temi sociali, politici e culturali importanti. Ascoltarle e discuterle può incoraggiare l’analisi sui problemi del mondo e stimolare il pensiero critico. Molte canzoni d’autore fanno riferimento a eventi storici, offrendo un’opportunità per riflettere sulla storia e la cultura del proprio paese e del mondo. Possono ancora fungere da ponte e tramite tra le generazioni, quello che sembra oggi così compromesso, introducendo i giovani a eventi e storie passate.
Ascoltarle può aiutare a sviluppare empatia e una migliore comprensione delle esperienze degli altri. E poi aiutano e stimolano le abilità musicali dei giovani, portandoli a imparare a suonare uno strumento o a cantare, e questo costituisce certamente una forma di educazione musicale preziosa.
Alcuni cantautori italiani, come Fabrizio De André o Francesco Guccini, sono noti per aver tratto ispirazione direttamente dalle ballate tradizionali italiane, reinterpretandole o scrivendo canzoni originali che seguono lo stesso stile narrativo, creando un ponte tra il passato e il presente.
Va anche sottolineato che i cantautori, con la loro abilità nella scrittura di testi poetici e narrativi, hanno esercitato un notevole influsso sulla letteratura contemporanea, specialmente in contesti culturali dove la musica popolare ha una forte presenza e risonanza. I letterati spesso hanno apprezzato e si sono ispirati a questa capacità dei cantautori di raccontare storie e catturare emozioni attraverso le parole, con una vasta gamma di esplorazione di temi umani, spesso parallela a quella degli scrittori.
Alcuni cantautori si sono avventurati in sperimentazioni linguistiche e stilistiche che hanno sfidato le convenzioni, stimolando gli scrittori a cercare di esplorare nuove modalità di espressione. In molti casi ci sono spazi di convergenza tra il mondo della musica e quello della letteratura.
Alcuni cantautori hanno avuto un impatto significativo sulla letteratura mondiale. Ricordiamo Bob Dylan (che è stato insignito del Nobel per la letteratura), Leonard Cohen, Tom Waits e Patti Smith. Inoltre, in paesi come l’Italia, molti cantautori sono considerati autori letterari a tutti gli effetti e le loro canzoni sono state studiate e discusse in contesti scolastici e accademici.
Oltre all’impegno e alla letteratura, anche poetica, non bisogna scordare l’ironia, elemento comune nelle canzoni di tanti cantautori italiani. Gli artisti italiani hanno una lunga tradizione di utilizzo di questo registro, usato nelle loro canzoni per riflettere sulla società, esprimere opinioni politiche o sociali, semplicemente per divertire il pubblico. Le composizioni graffianti spesso forniscono un commento sulla società contemporanea, evidenziando contraddizioni o situazioni assurde, utilizzando l’ironia per criticare aspetti della cultura popolare o dei media di massa. Questa forma di critica può rivelare gli stereotipi o le superficialità presenti nella società. E l’ironia è un registro utilizzato a piene mani dal nostro Paolo Vincenti.
Troviamo un buon uso di ironia in Fabrizio De André, in Rino Gaetano, in Giorgio Gaber, famoso per le sue canzoni satiriche incentrate sulle contraddizioni della vita moderna. Più recentemente, in Caparezza e in Frankie hi-nrg mc, cantautori della scena rap contemporanea, e su tutti, Elio e le Storie Tese, band di musicisti epigoni del genio di Frank Zappa. Spesso certe canzoni sono amate per la loro capacità di far riflettere e ridere allo stesso tempo, veicolando facilmente dei messaggi complessi.
Paolo Vincenti approfondisce tutto questo con leggerezza e sarcasmo.
E da tanti pezzi intriganti del suo Taccuino estraggo due chicche.
Una è riferita a Renzo Zenobi: “Chi intraprende la carriera artistica, infatti, o è dotato di una buona dose di narcisismo, oppure resta ai margini, se non sgomita per apparire, se non fa carte false pur di arrivare.” E questo, invero, è stato il limite di tanti pur valenti autori e interessanti musicisti che consideriamo di “Seconda” o “Terza” Fascia. E anche il confine di molti artisti delle province, lontani da certi “giri” che fanno “girare”.
L’altra: «Siccome essi definiscono invariabilmente boomer me, quelli della mia generazione, e in generale tutti gli over “anta”, ho pensato che Cosa posta il boomer, fosse un titolo appropriato per raccogliere insieme questi deliri neuropercettivi».
Ecco. Ci hai preso, Paolo! Sono boomer anch’io. Perciò, evidentemente, ho trovato tanto tra questi deliziosi “deliri” che mi ha dilettato.
Giuseppe Resta