Dal Salento, antichi ricordi fiorentini
di Rocco Boccadamo
Quando le memorie si riverberano dall’animo, sono destinate a preservarsi per sempre fanciulle.
Dopo aver iniziato a lavorare, il primo gennaio 1961, presso la filiale di Taranto del Banco di Roma, nell’aprile 1964 mi ero sposato, mettendo su casa, in un appartamentino preso in affitto, ovviamente nella medesima Città dei due mari, e, nel giugno dell’anno successivo, era poi venuto al mondo il mio primogenito Pier Paolo.
Appena trascorsa quella stagione estiva, precisamente nell’ottobre 1965, la Direzione Centrale della banca, avendo verosimilmente in evidenza la mia disponibilità, in precedenza data, a eventuali trasferimenti sia in Italia sia all’estero, dispose la mia assegnazione, a scopo addestrativo, per la durata di un semestre, presso la filiale di Firenze.
Non mi colse di sorpresa, né mi turbo, la notizia, la accolsi, anzi, con piacere e interesse, contento, fra l’altro, di aver finalmente modo di conoscere personalmente lo splendido capoluogo toscano, decantato in tutto il mondo per i suoi immensi tesori artistici.
Quanto ai miei cari, moglie e figlioletto, premesso che il pediatra aveva sconsigliato il trasferimento del piccolo, ero, in fondo, tranquillo, giacché si sarebbero temporaneamente spostati dalla nostra abitazione a quella, vicina, dei miei suoceri.
Sarei, dunque, partito da solo e avrei preso le debite misure, sotto il profilo economico finanziario, attingendo, con parsimonia, alla mia ordinaria retribuzione (circa centoventimila lire mensili) e alla “diaria” aggiuntiva di quattromila lire il giorno, quindi pressappoco un secondo stipendio, riconosciutami dall’azienda a fronte delle necessità e spese extra, primariamente per alloggio e vitto, fuori sede.
Mi misi immediatamente in moto e, in breve, grazie alla collaborazione di una collega di Taranto e tramite alcuni suoi amici da qualche tempo residenti a Firenze, nel quartiere di Careggi (il capofamiglia lavorava presso le Officine Galileo), trovai una coppia di anziani, dimoranti nel medesimo stabile dei predetti, d’accordo a ospitarmi nella loro casa, con una stanza tutta per me, dove, la sera, avrei potuto anche usufruire di un frugale pasto.
Pattuii, mi pare, una pigione di quarantamila lire il mese.
Rincuorato dalla circostanza di essermi sistemato sotto l’aspetto logistico, in una fine settimana, forse, esattamente, il 16-17 ottobre 1965, abbracciai Annunziata e il piccolo Pier Paolo e montai in treno per raggiungere la nuova sede di lavoro.
Il lunedì mattino, con perfetta puntualità, mi presentai al Capo del personale della sede fiorentina, il quale mi accolse con un sorriso di benvenuto e parole di sprone; quindi, una “graduata” sua collaboratrice mi accompagnò nell’ampio locale, al piano terra dell’edificio, dove si trovava ubicato il Servizio Portafoglio Estero, affidandomi al funzionario responsabile, signor Giovannoni, che, pure, mi ricevette di buon grado e mi condusse a compiere un rapido giro, inframmezzato da strette di mano, fra gli elementi dell’ufficio, una quindicina, taluni all’incirca miei coetanei e/o, comunque, giovani.
Nettamente positiva la prima impressione tratta dall’ambiente di lavoro in cui mi accingevo a inserirmi, in particolare, si creò subito un clima di confidenza con il mio compagno di scrivania, Giuliano Grandi, romano, classe 1943, da poco arrivato a Firenze e addetto a quel Servizio.
Era solo pure lui, perciò trascorrevamo insieme qualche ora anche fuori dall’ufficio, e, analogamente, consumavamo la colazione delle 13.00, in una trattoria nei pressi della banca, locale, dopo un poco, sostituito, per ragioni di conto, con la mensa universitaria.
Una notazione, riguardo a quest’ultimo sito. All’epoca, era letteralmente affollato da studenti, ragazzi e ragazze, provenienti dall’Iran dello Scià, i quali, nell’Ateneo fiorentino, frequentavano specialmente la rinomata Facoltà di Architettura.
Tanti giovani provenienti dal Medio Oriente, dunque, al punto che erano di nazionalità persiana addirittura alcuni studenti anziani delegati a concordare il menù con la società che gestiva la mensa, a vigilare, di conseguenza, sulla qualità delle vivande e a sorvegliare in merito alla regolarità di svolgimento del servizio ristorazione.
Tenevo assiduamente i contatti con mia moglie, scrivendole tutti i giorni e, circa una volta la settimana, ponendo in atto una telefonata prenotata e preavvisata: io, da Firenze, servendomi di un Punto pubblico dell’unico gestore telefonico in centro città, lei, a Taranto, portandosi, invece, dall’abitazione dei suoi sino a Piazza Vittoria, dove attendeva d’essere chiamata a sollevare la cornetta, in un’analoga determinata cabina a uso degli utenti.
A scandire il tempo con ritmo ravvicinato e a colmare o attenuare la distanza geografica dal mio nucleo famigliare, erano, però, soprattutto gli scambi epistolari via posta. In proposito, mi piace dare atto che il relativo servizio, allora, funzionava benissimo, le buste facevano su e giù da Firenze a Taranto e viceversa di solito in ventiquattro ore, al massimo nel giro di due giorni.
Succedeva, finanche, che io, di sabato, mi recassi presso un ufficio di smistamento della corrispondenza situato in Piazza della Repubblica e chiedessi a qualche addetto di gentilmente cercare di rintracciarmi, proprio così, una lettera a me diretta, recante l’indirizzo della mia “pensione” famigliare in zona Careggi: potrebbe sembrare un miracolo, ma, generalmente, a distanza di pochi minuti, l’impiegato mi consegnava la busta spedita da mia moglie, con notizie freschissime, sue e del nostro bambino.
Mi vengono in mente, con nostalgia e rimpianto, anche le lettere “speciali” che inviavo a mia madre, che lottava contro una grave malattia (nel luglio 1966, le toccò, purtroppo, di lasciarci), il cui spirito, se non il contenuto, mi ha segnato ed è ininterrottamente rimasto impresso dentro di me, fino ad oggi.
Pur dedicandomi a mantenere vivi gli anzidetti rapporti di sangue e affettivi, a Firenze, dopo l’orario di lavoro, mi residuava molto tempo libero, la sera e soprattutto il sabato e la domenica, il che mi dava agio di visitare la città, per zone e a rotazione, specialmente nelle aree storiche, con i suoi monumenti insigni, le sue chiese e le altre opere d’arte e, anche, di assistere a specifici eventi, di cui avevo notizia dando una scorsa ai giornali o attraverso la radio.
Ore e ore, spesso in solitudine ma con piacere, interesse o curiosità, a girare e soffermarmi, ad esempio, all’interno di Palazzo Vecchio e/o dei tre luoghi sacri più rinomati, Santa Maria in Fiore con il contermine magico Battistero e lo svettante campanile di Giotto, Santa Maria Novella e Santa Croce; oppure, visitando Palazzo Pitti, il Ponte Vecchio, il Giardino di Boboli.
Al di fuori degli ambienti d’arte pura o di fascino naturale, di tanto in tanto mi concedevo anche puntate alla stazione ferroviaria, per fantasticare al cospetto degli arrivi e partenze dei vari convogli che, idealmente e simbolicamente, mi riconducevano e/o riavvicinavano alle mie persone care. Talora, mi accostavo al vagone che eseguiva la funzione di trasporto postale e affidavo al ferroviere di servizio la lettera indirizzata a mia moglie, auspicando, in tal modo, d’accelerarne l’arrivo a destinazione.
Circa gli eventi, restai preso, davvero in modo unico, dalla partecipazione, il 14 novembre 1965, nel Duomo di Santa Maria in Fiore, alla solenne Messa Pontificale che vedeva la presenza di oltre cinquecento Padri conciliari del Vaticano II, nelle sue ultime tre sessioni indette da Papa Paolo VI, invitati a Firenze dal locale arcivescovo, il Cardinale Ermenegildo Florit, nella ricorrenza del VII Centenario dalla nascita di Dante Alighieri, con l’intento di dare lustro al sommo poeta italiano, davanti a una platea di estrazione universale.
Uno spettacolo, ai miei occhi di ragazzo proveniente da un paesino del Basso Salento, proprio eccezionale.
Comprendeva, l’abitazione degli anziani coniugi che mi ospitavano, un piccolo cortile giardinetto sul retro, abbellito da un paio di alberelli, fra cui un melograno. Io vi accedevo per stendere, ai fili tesi fra una pianta e l’altra, qualche mio capo di biancheria o una camicia, in modo che si asciugassero all’aria aperta o, se e quando c’era, sotto il sole.
A poca distanza, correvano i binari ferroviari di una tratta secondaria, ma, a onore del vero, il saltuario passaggio dei convogli non disturbava il mio riposo notturno.
Dirimpetto al fronte stradale della mia temporanea dimora, si ergeva, invece, un edificio, recante l’insegna “Casa del popolo”, dove, durante il giorno, ma specialmente la sera e nei fine settimana, convenivano numerosi iscritti o simpatizzanti di un partito della sinistra. Non mi è dato di sapere se, adesso, con gli usi, i costumi, i gusti e gli orientamenti politico – ideologici completamente mutati quando non stravolti, di siffatte sedi o istituzioni ne esistano ancora, né di che cosa si occupino.
Sempre nei paraggi, si apriva Piazza Dalmazia, uno dei luoghi del quartiere maggiormente frequentati e lì si affacciava uno storico cinematografo, che esiste anche adesso, il “Flora”. Unica esperienza del genere durante il mio soggiorno fiorentino, un pomeriggio decisi di recarmi in detto locale e assistetti a una pellicola, uscita esattamente nel 1965, dal titolo “Il tormento e l’estasi”, avente per soggetto la vita e le opere di Michelangelo Buonarroti: spettacolari scene in technicolor su uno schermo panoramico mi lasciarono appagato e soddisfatto.
Nel Servizio Portafoglio Estero della banca lavorava, fra gli altri, un collega, tale Salvetti, intorno alla quarantina e, mi sembra di ricordare, scapolo, originario della provincia. Alla vigilia di un week end, il già menzionato mi accennò che, nella giornata del sabato, avrebbe compiuto un giro con la sua Fiat 1100, per alcuni contatti o commissioni nel paese natio, e mi propose di accompagnarlo; senza pensarci un attimo, accettai, grato, la sua offerta. L’autovettura correva a moderata andatura, all’epoca il traffico non era intenso come al presente e il guidatore collega poteva tranquillamente parlarmi, raccontarmi e descrivermi i luoghi e i posti che attraversavamo, con una serie di relative storie e notizie.
Tratteggiò, fra il resto, una, a suo dire, strana coincidenza: da un lato, il suo cognome, Salvetti, e il suo luogo di nascita, Colle di Val d’Elsa, facendo un abbinamento, quindi, “Salvetti da Colle”; dall’altro, l’esistenza, in zona, di una località, reale, denominata, guarda caso, Collesalvetti.
Prima tappa del tour, Pontedera, per un caffè insieme e, in aggiunta, per l’acquisto da parte mia, di un ombrello, atteso che a Firenze pioveva spesso ed io ne ero sprovvisto, col vantaggio di un prezzo conveniente, essendo la località piena di fabbriche di tale utile accessorio.
Di seguito, il passaggio e una breve sosta in una zona caratterizzata da ampie pinete in prossimità del Mar Tirreno, in provincia di Livorno, e l’arrivo a Colle di Val d’Elsa, con saluti ai parenti del mio collega e il pasto in una trattoria.
A inizio pomeriggio, la via del ritorno con un’ultima fermata a San Gimignano, dalle caratteristiche numerose torri; infine, mentre iniziava a far buio, il rientro a Firenze.
Accanto a quelle, prima ricordate, di Giuliano Grand e di Salvetti da Colle, serbo vivida memoria di un’altra collega del Portafoglio Estero, Gaia Calefati, una ragazza minuta con gli occhiali, capelli corti, di carattere discreto ma egualmente simpatica, svelta nel lavoro, una sorta di trottolina.
Attigua allo stanzone dell’ufficio, si dischiudeva un’ampia anticamera, attrezzata con bancone/sportello, dove si svolgeva il “Servizio Forestieri”, nel senso che la sala era adibita all’accoglienza degli ospiti, turisti o operatori economici, provenienti da paesi esteri.
Era il posto lavorativo di Nicolino Barbarisi e Giovanni Beneduci., anche loro entrambi giovani, di carattere estroverso, promananti empatia, con ottima conoscenza, naturalmente, di diverse lingue straniere.
Nel corso dei decenni successivi alla mia breve esperienza bancaria nel capoluogo toscano, ebbi modo di seguire a distanza la progressione di carriera del secondo, Giovanni Beneduci, fino all’incarico di direttore della nostra filiale a New York.
Come dire, buon sangue non mente o chi ben comincia è a metà dell’opera.
Al vertice della sede fiorentina, invece, ricordo il direttore Mazzari – dopo qualche tempo fu trasferito a quella di Milano -, il condirettore Gatteschi e due vicedirettori, Bracone e Trombi: a quest’ultimo, in seguito, fu affidata la guida della filiale di Bergamo, da dove spiccò il volo verso un’altra banca, il Credito Bergamasco, nel ruolo di direttore generale. Qui, mi piace, però, fare rievocazione non soltanto di figure, diciamo così, apicali, ma anche di un collega addetto a servizi umili, una persona comune quindi, tuttavia, ai miei occhi, speciale, Paolo Meattini.
Un ragazzone oltre il metro e ottanta, aveva un solo braccio, non so precisare come avesse perduto il secondo arto, ma, ciononostante, non appariva minimamente condizionato, se la sbrigava ugualmente in tutto e per tutto, tanto nel lavoro quanto nella quotidianità a trecentosessanta gradi.
Da rimarcare, ad esempio che, pur con tale pesante handicap, egli faceva parte della squadra di calcio della filiale, partecipando, anche con trasferte fuori Firenze, al campionato “Trofeo Nazionale Lupa Capitolina” che il Banco di Roma organizzò e sostenne per molte stagioni.
Seduto e/o appoggiato al tavolo da lavoro che condividevo con Giuliano Grandi, appresi un’ampia serie di procedure e operazioni bancarie connesse con gli scambi con l’estero. Presi dimestichezza, specialmente, con le numerose pratiche relative ad attività di esportazione nei comparti della moda e della pelletteria, particolarmente in auge nel territorio di Firenze.
È, del resto, risaputo che la città gigliata rappresenta una vera e propria eccellenza in tali settori e, di ciò, si acquisisce facilmente percezione concreta anche semplicemente andando in giro: l’eleganza, la ricercatezza e determinate carinerie, in particolar modo nell’abbigliamento delle donne, si notano molto più diffusamente che in qualsiasi altra località.
Intorno a metà dicembre, ebbe termine il mio percorso al Servizio Portafoglio estero e, secondo il programma addestrativo, fui spostato all’Ufficio Merci, in seno al quale si svolgeva una parimenti importante, anzi, talvolta, più articolata e complessa, operatività. Guidava il comparto, il procuratore Mario Pagliai. (negli anni Ottanta, mentre io dirigevo la filiale di Monza, lo avrei nuovamente incontrato in veste di Ispettore centrale), che mi fece sistemare accanto a due, anche in questo caso, giovani colleghi, Sandro Materassi e Maurizio Benzi. Mi sorprese, subito, l’eloquio forbito del primo, che, dopo qualche giorno, intendendo dire, come solitamente capita di ascoltare, “ma così” o “ma in questo modo”, ebbe invece a culminare nella frasetta “Ma in cotal guisa”.
Insomma, la classe del modo di esprimersi fiorentino non è acqua.
Si approssimava, nel frattempo, il Natale è il ragazzo di ieri, che allora contava ventiquattro anni, era sposato da meno di due e papà da pochi mesi, attendeva la festività con ansia accesa, primariamente, è ovvio, perché sarebbe ritornato per qualche giorno in Puglia, con possibilità quindi, di riabbracciare non soltanto la moglie e il figlioletto, ma anche la mamma gravemente ammalata.
Tramite il CRAL della filiale, che a quei tempi, con il contributo dei vertici aziendali, organizzava la Befana per tutti i figli, in età tenera e/o scolare, dei dipendenti, scelsi e acquistai i regali che avrei recato al mio Pier Paolo: un cavalluccio a dondolo – nei decenni a venire, tra i vari traslochi, andato, ahimè, perduto -, un simpatico gnomo di gomma e una tavoletta lignea con l’effige della Madonna, oggetti, al contrario, ancora conservati dal mio primogenito.
A conclusione del viaggio notturno in treno, l’indomani mattina mi accolse a Taranto, in stazione, mia moglie Annunziata, cui affidai lo scatolone contenente i regali per il nostro bambino (a lei, per quel Natale, donai una medaglietta d’oro).
La parentesi natalizia si esaurì presto e dovetti far ritorno a Firenze.
Per impiegare utilmente il tempo che mi restava libero dopo l’orario di lavoro, da un po’ mi ero iscritto a un corso serale d’inglese, presso l’Accademia internazionale di lingue, con sede nella centrale via Bufalini (ho scoperto che tale istituzione è stata attiva fino al 1994).
Insieme con me, frequentavano quel turno di lezioni pressappoco venti persone, in maggioranza di età giovane, verosimilmente interessate ad approfondire la conoscenza dell’idioma anglosassone con riferimento a esperienze in corso o prospettive di lavoro.
La nostra insegnante era una giovane e graziosa ragazza inglese, di nome Annabelle, la quale era scesa nel nostro Paese per imparare o perfezionare l’italiano e, frattanto, si manteneva dando lezioni della propria lingua madre.
Gradualmente, stabilii con lei un rapporto cordiale, se non proprio confidenziale, quasi tra pari e amichevole; accompagnandola, una sera, a casa, mi aveva fatto conoscere l’ubicazione della sua pensione fiorentina, presso una famiglia, in Piazza del Carmine, in prossimità dell’omonima chiesa, contenente – com’è noto – pregevoli capolavori artistici del Masaccio, che io avevo più volte visitato.
Ammetto che arrivai a provare attrazione per Annabelle, una volta mi capitò anche d’incontrarla in banca, allo Sportello dei Forestieri, dove era venuta per riscuotere un bonifico inviatole dai genitori.
Provai pure a invitarla, senza esito, a una gita domenicale a Siena e, però, tranne il rapporto insegnante/allievo nell’ambito dell’Accademia, non successe nulla. Mi rimane, a ogni modo, il ricordo di una piccola confezione di cioccolatini che lasciai, per lei, alla sua padrona di casa di Piazza del Carmine.
Non trascorsero completamente, i sei mesi originariamente stabiliti per il mio iter addestrativo a Firenze, giacche, verso metà gennaio, da Roma, fu, improvvisamente e imprevedibilmente, deciso il mio trasferimento alla filiale di Messina.
Alla luce di ciò, non mi restò che accomiatarmi dai bravi e cari colleghi toscani e, con rammarico, attenuato dal fugace scambio di due giovani sorrisi, anche dalla” professoressa” Annabelle.
Infine, informati della novità i miei ospiti e preparata celermente la valigia, il 15 o il 22 gennaio 1966, presi il treno per il momentaneo rientro a casa, a Taranto, da dove avrei proseguito per la Sicilia.
Era una mattinata grigia e piovigginosa, del resto analoghe condizioni climatiche avevano caratterizzato la gran parte della mia permanenza a Firenze. Se ci penso, a così tanta distanza temporale, niente, invero, a che fare, ovviamente, con la tragedia meteorologica che, nel volgere di pochi mesi, ossia a dire il successivo 4 novembre, si sarebbe verificata a Firenze, sotto forma di una devastante alluvione, che causò ben trentacinque vittime e ingentissimi danni.
P.S. Dopo oltre quattro lustri dalle ultime occasioni d’incontro a Roma dove prestavamo servizio, sono riuscito a rintracciare e sentire al telefono Giuliano Grandi: è stata, per entrambi, una breve ma intensa parentesi rievocativa di una fase dei comuni vent’anni. Ci siamo ripromessi di tenerci, per il tempo a venire, in più frequente contatto.