IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Follia” un racconto di Vincenzo Fiaschitello

La Follia

La Follia

A poco più di venticinque anni, Federico riteneva di aver raggiunto un obiettivo importante della sua vita. Superato brillantemente un non facile concorso nazionale, si accingeva a ricoprire la cattedra di Filosofia e Storia in un liceo statale della vicina città di T. a una trentina di chilometri dalla sua abitazione.

Su una collinetta, alle porte della città, prima di un antico sepolcro romano vagamente somigliante alla tomba di Cecilia Metella, tra numerose cave di travertino, sorgeva un complesso di cupi edifici circondati da una lunga cancellata che per un centinaio di metri correva lungo la strada provinciale.

Al centro si apriva un grande cancello con una lucida targa metallica che, colpita dal sole al mattino, mandava un curioso bagliore, quasi come specchio tenuto da un bimbo per fare la gibigianna. Più che i tetri edifici, fu quel bagliore che attirò la sua attenzione e una mattina svoltò per la via sterrata che

conduceva all’ingresso. Fermò la vettura e scese. E, avvicinandosi, finalmente poté leggere: Clinica psichiatrica.

Dunque tutta quella struttura non era altro che un manicomio.

Risalì in macchina e si avviò verso il paese. Durante il breve

tragitto che lo separava dalla scuola, ebbe modo di porsi delle

domande sulla follia. Non erano forse folli coloro che, usciti

dalla mitica caverna di Platone, avevano potuto guardare la

realtà alla luce del sole? Non erano folli coloro che

pronunciavano poche smozzicate parole, per lo più

incomprensibili e misteriose, che nel mondo antico venivano

collocate nella sfera del sacro e considerate messaggi dall’alto e

pertanto degne di timore e riverenza? E gli stessi fanciulli, i

buffoni delle corti medievali, e certi personaggi come don

Chisciotte che scambiava mulini per giganti, baldracche per

principesse, o come Orlando, il cui senno era volato fin sulla

luna? E che dire dell’accostamento della follia alla genialità? Il

pensiero correva alla figura nobilissima e infelice del Tasso

sulle pendici del Gianicolo, alle considerazioni profonde di un

uomo del Rinascimento come Marsilio Ficino che, riprendendo

un concetto di Aristotile secondo cui i melanconici hanno più

spirito degli altri, affermava che il melanconico meglio degli

altri sa cogliere la profondità di tutte le cose.

Quelle riflessioni e il desiderio di approfondire il tema della

follia lo portarono ad allargare le sue conoscenze ricorrendo

alla vasta bibliografia che andava via via consultando. Si

entusiasmò al punto che gli venne in mente di sottoporre

all’attenzione degli studenti dell’ultimo anno di liceo quelle

problematiche, mediante la predisposizione di un progetto

educativo, che per la fine dell’anno scolastico prevedeva

l’effettuazione di una visita scolastica presso la clinica con la

partecipazione degli studenti.

Gli sembrò dunque indispensabile cominciare con qualche

contatto informale con i pazienti.

Federico aveva notato che dal lato della strada provinciale si

vedeva spesso un ricoverato che si accostava alla cancellata e

restava a lungo a guardare, immobile, le macchine che

sfrecciavano. Quel giorno, giovedì, aveva soltanto tre ore di

lezione. Si sentiva particolarmente soddisfatto perché riteneva

di aver ben introdotto il pensiero kantiano, partendo dalla

critica allo scetticismo e promuovendo la possibilità di una

conoscenza valida per tutti, grazie a quelle forme mentali, in

primo luogo “spazio e tempo”, che sono originari, cioè a priori,

e non un prodotto dell’esperienza.

Ora, avvicinandosi alla inferriata, si trovava faccia a faccia

curiosamente con un uomo che non sembrava possedere nulla

di razionale. Lo aveva salutato e gli aveva sorriso, ma

prudentemente si era tenuto a distanza di sicurezza.

Aveva un viso molle e cascante, guance ricoperte di macchie

grigie, naso attraversato da venuzze blu; indossava un pantalone

a righe nere, un camicione bianco gli scendeva fin sotto le

ginocchia. Per qualche minuto se ne stette in silenzio, con la

testa piegata su un lato, poi all’improvviso alzò gli occhi, lo

guardò fisso e, con le braccia protese fuori dall’inferriata, gli

disse: “Non aver paura, io non sono matto. I matti sono quei

due laggiù”. E indicava due pazienti che camminavano

velocemente su e giù, non affiancati, ma uno di fronte all’altro.

E quando arrivavano a un muretto distante circa cinquanta

metri, tornavano indietro, sempre uno di fronte all’altro.

-“Avvicinati! Ce l’hai una sigaretta?” continuò, guardandolo

negli occhi.

Dopo un attimo di esitazione, Federico tirò fuori dalla tasca il

pacchetto di sigarette, gliene offrì una; poi ci ripensò e gli offrì

tutto il pacchetto. Quello si infilò la sigaretta nella narice per

circa metà, si nascose il pacchetto nella tasca dei pantaloni e

senza dir nulla si allontanò.

Era la prima volta che Federico aveva a che fare con una

persona che la scienza medica ufficialmente riconosceva

“matto” e che pertanto andava relegata in una struttura, quale

dispositivo di sicurezza voluto dalla società moderna. Il sapere

positivo, i lumi della ragione, non si erano fatto scrupolo di

porre in atto non solo la pratica dell’internamento, ma una serie

di violenze, da cui erano scaturite inaccettabili notti di follia,

silenzi e rigide separazioni tra uomo di ragione e uomo di follia.

Federico continuò quella esperienza per diversi giorni e ogni

volta aveva qualcosa da offrirgli: un dolce, una sigaretta, un

taccuino, finché un pomeriggio quell’uomo, sempre poco

disponibile a parlare, gli apparve lucido e tranquillo, come

poteva leggere nel suo volto disteso e nei suoi movimenti ben

coordinati.

-“Mi sono accorto, cominciò a dire, che tu non sei come gli

altri, come i miei carcerieri, capisco che mi sei amico e per

questo voglio parlarti di me, della mia mente. Nei momenti in

cui la follia non mi visita, io mi sento come tutti voi che vivete

al di fuori di questo recinto, la mia memoria si sveglia, i miei

pensieri tornano, e io soffro nel vedermi qui rinchiuso, separato

dal mondo amaro e dolce. Torna la memoria e con essa il dolore

crudele di aver perso di vista i volti delle persone che ho

amato”.

I suoi occhi divennero lucidi, poi abbassò la testa e stette in

silenzio un po’. Subito dopo la rialzò e sbottò in una sonora

risata. -“Ecco, disse ancora ridendo, questo è il mio umore; non

c’è distanza tra tristezza e euforia. I dottori dicono che è tutta

colpa del talamo del mio cervello. Che sarà poi questo talamo,

non so! Ma, pensandoci bene, a me tutto sommato non dispiace

avere una mente altalenante. Forse è per questo che quando

sono sospinto da certi picchi di euforia, mi sembra di volare, di

antivedere il futuro imminente. Ecco, mi viene in mente il fatto

che segnò per sempre il mio destino. Fu Giovanni, il mio vicino

di casa, che un giorno si accorse che la mia capacità di intuito

poteva essergli di grande aiuto per i suoi scopi. Egli, infatti, era

un giocatore incallito che sistematicamente, perdendo al gioco,

sperperava il patrimonio che gli aveva lasciato il padre. Un

giorno mi disse che mi avrebbe portato in vacanza con lui per

alcuni giorni. Andammo a Sanremo. Dopo cena, tutte le sere

eravamo al casinò. Lui seduto al tavolo della roulette, io alle

sue spalle in piedi. Il mio compito era quello di “antivedere”

dove la pallina si sarebbe fermata e quindi di suggerirgli a un

orecchio la puntata. Non sbagliavo un colpo. Le fiches si

accumulavano a vista d’occhio, gli altri giocatori sbalorditi

guardavano con invidia. I croupiers cominciavano a mostrare

un certo nervosismo, ma con voce professionale continuavano a

dire: Rien ne va plus!”

Da due ore il mio vicino di casa vinceva e aveva dinanzi a sé

una vera montagna di fiches. La voce si era sparsa nella grande

sala e in quelle attigue più piccole. Molti giocatori avevano

sospeso il loro gioco per venire a vedere quello straordinario

spettacolo. Intorno alla mezzanotte, il mio amico Giovanni,

ormai ebbro e sicuro di sé, decise di puntare tutto: una fortuna!

Attendeva il mio suggerimento come le altre volte. Ma io d’un

tratto sentii che il mio cervello si era come annebbiato e quella

euforia scatenata più del solito dalla presenza e dai commenti di

meraviglia di tutta quella gente che assisteva, si era

improvvisamente cambiata in tristezza e noia e in un desiderio

di solitudine. Quello non era affatto il momento giusto, ma

evidentemente il mio talamo non poteva saperlo. Caddi in una

specie di stato di indifferenza, di prostrazione, e mi limitai a

dire automaticamente all’orecchio un numero qualsiasi. I

croupiers fecero finalmente un sospiro di sollievo e ritirarono in

un colpo solo tutte le fiches del mio amico. Non mi rendevo

conto del disastro e con un sorriso guardavo la gente che

lentamente si allontanava dal tavolo. Mi svegliai un po’ dal

torpore, quando Giovanni con gli occhi sbarrati e pieni di odio

mi diede una spinta così forte e improvvisa che mi fece

ruzzolare a terra. Qualcuno mi aiutò a rialzarmi e mi

accompagnò fino all’uscita. Il mio vicino di casa se ne era

andato con la sua macchina e io non sapevo come fare per

raggiungere l’albergo, di cui non ricordavo neppure il nome.

Con nemmeno un soldo in tasca, pensai di cercarmi una

panchina sulla quale poter passare il resto della notte.

Dimenticai tutto, chi ero, perché stavo lì, solo e disteso, che

cosa facevo in quel luogo a me sconosciuto. Ricordo che non

dormii e che i miei occhi, rivolti verso il cielo stellato,

contarono ad una ad una tutte le nubi che salpavano verso la

luna splendente. Così, quando ai primi chiarori dell’alba, un

vigile rudemente mi scrollò e mi domandò perché stessi lì e

perché non avessi osservato il divieto di vagabondaggio che la

città aveva disposto, risposi così confusamente che in breve

tempo dalle sue mani passai a quelle dei poliziotti e da costoro,

che si erano accorti della nebbia che aveva invaso il mio

cervello, a quelle dei medici che, a loro volta, con giudizio

affrettato e ingiusto, rilevarono l’intarsio della follia nella mia

anima, solo perché continuavo a ripetere che la luna mi aveva

stregato, la luna tonda e splendente.

Sono trascorsi ormai dieci anni da quel triste giorno in cui

vacillò la mia mente e vidi scendere un velo sulla mia vita”.

E così dicendo, il matto, quasi pentito per avermi fatto

conoscere quegli eventi che lo avevano estromesso dal vivere

civile, sconsolato e come parlando a se stesso, aggiunse a voce

bassa: “Ma tu, amico, non puoi far nulla per me! Anzi no”. E

alzando la voce, disse: ”Ce l’hai una sigaretta?”

-“Certo, eccoti un pacchetto. Ma sappi che qualcosa farò per te.

Chiederò un colloquio al direttore. Non mi hai ancora detto il

tuo nome!”

-“Mi chiamo Ettore”, disse. Mi volse le spalle e si allontanò.

Federico aveva pensato di farsi ricevere dal direttore per

esporgli il suo progetto educativo e ottenere l’autorizzazione

alla visita della clinica da parte dei suoi studenti. Sperava nel

contempo di avere alcune informazioni sulle condizioni di

salute di Ettore, visto che quella lunga confessione lo aveva

particolarmente colpito.

Il direttore, vedovo e senza parenti, aveva un piccolo

appartamento al piano terra di una casetta a un piano, distante

una decina di metri dall’edificio centrale della clinica. Vicino

alla sessantina, il professore Fabio Sinalunga era un uomo alto e

magro, con capelli grigi e lucenti che gli scendevano sulle

spalle, baffetti sottili e occhi fortemente miopi protetti da spesse

lenti, mani bianche e dita affusolate come quelle di un pianista.

La sua figura incuteva rispetto e timore, ma la sua voce calma e

gradevole, i suoi modi cordiali, mettevano l’interlocutore a suo

agio, pronto a sostenere una conversazione amichevole. Così fu

infatti per Federico, che non dovette per nulla insistere per

ottenere l’autorizzazione alla visita degli studenti. Quanto a

Ettore, il prof. Sinalunga volle conoscere ogni particolare della

amicizia nata fra i due e, dopo avere ascoltata la storia del

malato, lo rassicurò dicendogli che avrebbe approfondito il caso

e che ne avrebbero potuto parlare la settimana seguente.

Lungo un paio di corridoi su cui si aprivano da entrambi i lati le

porte delle stanze dalle quali provenivano a tratti lamenti, urla e

sguaiate risate, Federico era accompagnato da un uomo che gli

camminava avanti di un passo e ogni tanto si girava per

accertarsi che il visitatore non si fermasse. Grasso e tarchiato,

con il capo completamente rasato, trascinava rumorosamente gli

zoccoli di legno.

Quando giunsero all’uscita, Federico gli domandò se anche lui

fosse un paziente del prof. Sinalunga. Quello lo guardò e senza

dire una parola gli fece segno di seguirlo nell’ampio prato dove

vagavano i ricoverati. Qualcuno stava ritto in piedi, fermo come

una statua, un altro teneva le braccia alzate e le gambe

divaricate; uno trottava attorno a un albero, altri stavano distesi

sull’erba, canticchiando e fischiando. Uno se ne stava seduto in

un angolo con gli occhi dritti nel vuoto e fingeva di fumare una

sigaretta: di tanto in tanto alzava il capo e soffiava il fumo

verso l’alto e poi ricominciava. Un altro gridava: “Ecco, si

avvicina, si avvicina sempre più! Ecco è entrata nella mia testa

la luna. E’ tutta mia! E’ tutta mia!”

Federico un po’ guardingo e timoroso, attraversò il vasto prato,

finché il suo accompagnatore si fermò dinanzi a un edificio

abbandonato. L’uomo aprì una porta e gli mostrò una enorme

stanza piena di vecchi arredi: sedie, tavoli, scale di legno,

imposte divelte, attrezzi da cucina, ogni tipo di ciarpame

ammonticchiato e ricoperto di polvere e ragnatele.

-“La mia mente, disse all’improvviso l’accompagnatore, è

proprio come questo magazzino. Io l’ho detto al professore e

l’ho pregato di sistemarla. –Ma non si può, non si può! –

continua a dirmi. Eppure sono sicuro che se facesse mettere in

ordine il magazzino, anche la mia mente andrebbe a posto!”

Federico era entrato e guardava e toccava tutto quel mondo

abbandonato e gli si stringeva il cuore. Gli capitava sempre

quando entrava in una casa in rovina. Il suo pensiero fuggiva

lontano nel tempo passato, toccando gli oggetti, le mura, e

avvertiva una strana sensazione come se ancora conservassero il

calore di corpi scomparsi. Ora pensava come quell’edificio,

sorto sulla pianta del sogno di un architetto, aveva tenuto

rinchiusi nel suo interno tanti esseri che vagavano come ombre,

che facevano gesti assurdi, che articolavano frasi confuse,

parole che nessuno raccoglieva. Erano come arbusti, per metà

combusti, che sprigionavano fumi dai loro cervelli rimescolati

disordinatamente da una ossessione, da un’angoscia nascosta,

da una idea fissa, da una visione indicibile.

La settimana successiva, Federico puntualmente si presentò

all’ingresso della clinica. Gli venne ad aprire lo stesso

personaggio della volta precedente che evidentemente era

incaricato di vigilare all’ingresso.

Invece del professore Sinalunga, gli venne incontro un medico

in camice bianco che si presentò come il vicedirettore.

-“Il professore mi ha informato che lei oggi sarebbe venuto per

un colloquio, ma si scusa perché ieri è dovuto partire per

Bologna per partecipare a un convegno di psichiatria e farà

ritorno fra qualche giorno”.

-“Non importa, disse Federico, vuol dire che tornerò un altro

giorno”. E stava per salutarlo, quando quello, quasi per far

valere la sua autonomia professionale, gli propose di fare una

visita ai reparti e di illustrargli qualche particolare situazione

con il commento sul tipo di malattia mentale.

Il vicedirettore, che si faceva accompagnare da due robusti

infermieri, era un uomo piccolo di statura, ancora giovane, con

capelli e pizzetto rossicci, con guance lentigginose, un po’

obeso. Pienamente consapevole del ruolo importante che

ricopriva, si accarezzava spesso la barba, parlava e si muoveva

a scatti nervosamente.

-“So che lei ha chiesto al professore, disse il dottor Remo

Sigona, notizie sullo stato di salute del paziente Ettore Crocetti.

Ho fatto una verifica su suo incarico. Ebbene nella sua cartella

clinica non ho trovato nessun cenno alla storia che le ha

raccontato. Naturalmente penso che sia tutta una invenzione del

paziente”.

Federico si azzardò ad osservare che “Se anche in quella storia

non c’è un briciolo di verità, non le sembra, dottore, che una

persona capace di costruire un evento così verosimile e carico

di dolore meriti una qualche attenzione, se non altro come spia

di un’anima che soffre e che desidera liberarsi da incubi e

nebbie che ottundono l’intelligenza e quel che noi chiamiamo

razionalità?”

-“Caro signore, si affrettò a rispondere il dottore, da come parla

mi pare di capire che lei, come il professore che è andato a

illustrare certe sue idee balzane al convegno, sia dalla parte di

coloro che vedono ancora la persona nel malato di mente. Non

c’è più la persona, i matti non hanno più la ragione, sono

distanti anni luce da me, da lei, dalle persone normali”. E

indicandogli molti di quei malati nelle stanze in cui entravano

mentre parlavano, alzando la voce disse: “Animali sono, che,

come vede, si aggirano senza meta, animali raggomitolati a

terra, distesi sul pavimento a dondolare il capo, con gli occhi

sbarrati nel vuoto, animali che hanno improvvise scoppiettanti

urla che macchiano l’aria di inaudita violenza. Per fortuna che

io sono prudente e mi faccio accompagnare dai miei fidati

infermieri. Mi spiace deluderla, ma io ho ancora fiducia nei

trattamenti tradizionali. Mi creda, camicia di forza, costrizione

con legamento al letto, restrizione dei movimenti e della libertà,

e poi elettroshock e psicofarmaci, sono davvero indispensabili”.

-“ Mi scusi se la interrompo, disse Federico, ma quel che lei

sostiene è ingiusto, inumano. Considerare il folle alla stessa

stregua di un animale, assimilarlo a una bestia, credere a una

impossibilità di recupero, secondo me, è il trionfo dei

pregiudizi. Perché non considerarli persone? Perché non

studiare quali fattori abbiano prodotto la passività, la

dissoluzione, la frammentazione della mente e aiutarle a fare

emergere una energia progettuale capace di riportarle ad un

protagonismo attivo della propria esistenza? Non le sembra che

i balbettii, le parole monche, smozzicate, apparentemente senza

senso, che provengono dalla loro storia sconosciuta, possano

avere un valore di rivelazione? E’ un errore annientare queste

voci, ridurle al silenzio e al non-senso”.

-“Sì lo so, queste opinioni vengono sostenute da coloro che

vedono nel mormorio ostinato, ossessivo, di un linguaggio

ravvolto su se stesso, sprofondato nello squilibrio mentale, un

lirismo che vorrebbe essere un tentativo di riannodare le fila di

un dialogo respinto e interrotto tra l’uomo di follia e l’uomo di

ragione. Ma, caro amico, questa è letteratura, è pura fantasia!”

-“Sarà pure letteratura come dice lei, ma io credo che l’errore

maggiore del sapere, del mondo della scienza, sia stato quello

di aver tracciato una linea netta tra ragione e sragione, tra sano

e malato, tra non-follia e follia. Il folle non è sempre folle.

Quando l’idea ossessiva dell’eresia che riteneva presente nel

suo capolavoro della Gerusalemme liberata non lo visitava, il

Tasso, con il volto scavato, seduto sotto una quercia, non si

stancava di leggere e scrivere lettere, di riflettere , come

qualsiasi altra persona che viveva fuori del suo ricovero nel

convento di S.Onofrio a Roma. E così tanti altri artisti e persone

comuni che alternavano follia e lucidità. Il problema lo crea la

scienza che appunto, parlando attraverso l’universalità astratta

della malattia, coglie ogni segnale anche minimo che si discosta

dalla esigenza di conformità, dalle regole della razionalità. La

società non fa altro che accettare il linguaggio della medicina e

provvede alla grande separazione, mediante l’internamento del

folle in strutture dalle quali difficilmente potrà uscire perché

non potrà mai guarire. Qui il folle percorrerà verso il basso

l’intera scala dei sentimenti e cadrà nell’abiezione più profonda,

non avrà più diritti, non sarà più una persona. Medicina,

psichiatria, psicologia, faranno di lui il malato che ha perso il

senno, volato via per sempre sulla luna. Questo ha fatto sì che

in passato ci fosse più fiducia che un lebbroso uscisse guarito

dal lebbrosario, che un pazzo lasciasse il manicomio”.

Queste ultime parole di Federico furono accompagnate da

altissime urla che provenivano da un padiglione poco discosto.

Subito il dottore e i due infermieri si avvicinarono a una delle

grandi finestre per rendersi conto di quel che accadeva dentro.

Federico li seguì e vide che un malato in mezzo a un’altra

trentina di malati urlava e si dibatteva furiosamente. I due

infermieri di guardia, aiutati anche dagli altri due che

accompagnavano il dottore, trascinarono fuori dallo stanzone il

malato e, scambiata un’occhiata di intesa con il medico, lo

portarono via.

-“Ecco, disse il dottor Sigona, in queste situazioni non abbiamo

altra scelta. Dobbiamo essere grati all’ingegnere Ugo Cerletti

che negli anni trenta mise a punto il trattamento

dell’elettroshock. Lei mi dirà che non è giusto procedere senza

il consenso dell’interessato o dei familiari. Ma mi dica lei come

si fa a riconoscere il diritto della persona in circostanze simili.

D’altra parte ormai il trattamento Cerletti non è affatto

pericoloso ed è stato riconosciuto valido in tutto il mondo.”

-“Sì, è vero questo. Ma il problema è quello di valutare se un

intervento di quel genere o il ricorso massiccio agli

psicofarmaci senza migliorare l’ambiente possano aprire una

prospettiva di guarigione. Guardi se questo locale, dove si

aggirano come allucinati per ore e ore senza far nulla, tutta

questa povera gente possa avere un clima favorevole per la loro

salute mentale”.

In quel momento il dottor Sigona venne chiamato d’urgenza.

Ebbe appena il tempo di dirgli: “Venga a trovarmi quando

vuole e continueremo il nostro dibattito”.

Federico diede un ultimo sguardo di pietà a quei malati che si

muovevano come animali in gabbia e si avviò verso l’uscita.

Passarono alcuni giorni prima che Federico potesse tornare in

visita alla clinica. Questa volta sperava di trovare il professore.

Sin dall’arrivo ebbe la sensazione di qualche novità. C’erano

due operai intenti a sistemare una doppia rete attorno al recinto

del prato, dove di solito si aggiravano i malati; la vetrata

dell’ingresso era chiusa con una catena e due sorveglianti la

aprirono al suo arrivo. In fondo al corridoio vide il dottor

Sigona che gli veniva incontro con un fare cerimonioso e

ansioso. Ancora prima di raggiungerlo, il dottore gli fece un

cenno con la mano e gli disse: “Venga da questa parte, andiamo

nel mio ufficio”. Tirò fuori dalla tasca una chiave e aprì la porta

su cui si leggeva: Prof. Fabio Sinalunga.

Il dottor Sigona, guardandosi attorno con compiacimento, andò

a sedersi sulla poltrona del professore e invitò Federico ad

accomodarsi.

-“Caro amico, disse il dottore assumendo un’aria falsamente

triste, ho da riferirle delle brutte notizie. E’ successo quel che

da tempo temevo. Più volte avevo detto al professore di non

esporsi così apertamente con certe sue idee di avanguardia e,

purtroppo, non mi ha ascoltato. Al convegno ha chiesto la

parola e ha cominciato col dire che i manicomi, così come oggi

sono organizzati, non assolvono la loro funzione di cura dei

malati e che pertanto andrebbero aboliti: via inferriate, via i

trattamenti di cura della tradizione, niente forzature, niente

restrizioni. I malati di mente, insomma, andrebbero liberati e

reinseriti nella famiglia e nella società. Più volte interrotto dai

presenti e contestato duramente, è stato alla fine trattato come

un folle, un visionario che aveva abbandonato la via della

scienza e della razionalità. Per fargliela breve, amico, il

professore è stato rinchiuso in un vicino ospedale psichiatrico.

Ora all’improvviso è caduta sulle mie spalle una grande

responsabilità. Proprio ieri, infatti, mi è pervenuta la lettera di

nomina a direttore della clinica in sostituzione del professore”.

Federico lesse sul volto del dottor Sigona tutta la soddisfazione

per l’insperato quanto rapido raggiungimento di un obiettivo,

cui in cuor suo sicuramente teneva moltissimo. Gli fece i suoi

rallegramenti e si dispiacque per quel che era capitato al

professore.

-“Non si preoccupi, caro amico, sono sicuro che lì lo cureranno

in maniera adeguata e che magari presto lo potremo trasferire

nel nostro istituto”.

Quest’ultima eventualità parve a Federico davvero drammatica

e si augurò che non si avverasse.

A quel punto Federico stava per alzarsi e andarsene, quando il

dottor Sigona con fare mellifluo gli fece capire che lui poteva

tranquillamente portare avanti il suo progetto educativo e che

ora poteva approfondire la conoscenza dell’ospedale visitando

il reparto femminile.

Raggiunsero un’ala della struttura che si trovava dalla parte

opposta alla strada provinciale, affacciata verso la collina, che

fino ad allora era sfuggita all’attenzione di Federico.

-“Qui, disse il dottore, abbiamo una cinquantina di pazienti,

donne di diversa età. Cinque si trovano in un padiglione

separato, sorvegliato da personale femminile, sono le

“pericolose”, cioè quelle che tentano la fuga, hanno tendenza

alla violenza, si denudano continuamente”.

Nel salone più grande, Federico ebbe l’opportunità di osservare

quella infelice umanità. Alcune erano distese sul letto intente a

guardare il soffitto, altre passeggiavano su e giù e,

incontrandosi, si salutavano. Qualcuna faceva anche un inchino

sollevando leggermente il lungo camicione. Altre fingevano di

pettinarsi e di specchiarsi, facendo delle smorfie buffe. Federico

fu attratto da due di loro che si comportavano in modo diverso.

La prima, una giovane dall’apparente età di trent’anni, stava al

centro del salone e come se avesse dinanzi una orchestra,

seguiva un ritmo sollevando e abbassando un braccio, poi

battendo lievemente il piede sul pavimento e subito dopo per

qualche minuto restava immobile e il suo viso sembrava soffrire

di un dolore misto a piacere. Era come se la sua testa

immaginasse non so che flauti e violini che suonassero arie

senza suono all’amore eterno.

La seconda era più giovane, molto bella pur se vestita con lo

stesso camicione chiaro che indossavano le altre, senza ombra

di trucco, con i capelli cortissimi. Quando si accorse dei

visitatori, subito si avvicinò, fece un sorriso e alzò i suoi occhi

azzurri. Gli alti zigomi davano l’impressione di trovarsi dinanzi

a una figura di corporatura robusta; invece era magra, esile

come lo stelo di un fiore. Aveva una carnagione chiara

d’alabastro di Volterra. Dinanzi a quella bellezza Federico restò

senza fiato e provò una stretta al cuore.

-“Chi sono? E perché stanno qui?”

-“Per la prima posso dirle che conosco bene il caso. Si tratta di

una signora appartenente a una famiglia di musicisti. Erano

musicisti i nonni, i genitori e lo stesso marito. Lei suonava

molto bene il violino e componeva musica. Tutti la

consideravano un “genio” della musica e lei stessa si aspettava

il successo che però purtroppo tardava ad arrivare. Di qui

l’inizio della frustrazione, di una forte depressione per giungere

a uno squilibrio mentale, a disturbi psichici che non le

consentivano più una vita normale. L’abbiamo più volte

sottoposta al trattamento Cerletti con buoni risultati.

Per la seconda paziente, che era seguita dal professore, non

posso dirle molto, se non che si tratta di una donna abbandonata

dal marito e che ama scrivere poesie. Se lo desidera, posso

eccezionalmente darle il permesso di venire a trovarla per

conoscere meglio la sua storia, dal momento che ho visto il suo

interesse quando si è avvicinata”.

-“La ringrazio, dottor Sigona, per la sua disponibilità; verrò

volentieri la prossima settimana”.

Una decina di giorni dopo, Federico dedicò il suo giorno libero

dall’insegnamento alla visita all’ospedale psichiatrico. Un po’

emozionato si presentò all’infermiera che vigilava sul gruppo di

pazienti nel quale era compresa la donna che aveva conosciuto.

Questa, quando lo vide, lo riconobbe e subito si avvicinò.

L’infermiera, che era stata informata di quella visita, disse a

Federico che poteva condurre la paziente nella saletta dei

visitatori, dove i familiari si incontravano con i malati. Federico

con un sorriso fece cenno alla donna di accomodarsi su una

delle poltrone e quella, docile, senza dire una parola, si sedette e

restò in silenzio, guardando il viale alberato che si intravedeva

attraverso l’ampia vetrata.

-“Il dottor Sigona mi ha detto che lei ama la poesia e si diletta a

scrivere versi. Mi piacerebbe ascoltare una sua poesia. Ma, mi

scusi, non ci siamo ancora presentati. Io mi chiamo Federico. E

lei?”

Nessuna risposta. La donna continuava a guardare lontano e

sembrava ignorare la presenza di Federico. Questi, alquanto

imbarazzato, non aveva ancora sentito la voce della donna e

pensava che lei non gradisse la sua presenza. Stava proprio per

alzarsi e riaffidarla all’infermiera, quando ad un tratto,

guardandolo con occhi sereni disse: “Mi chiamo Irene e non so

perché sono qui. Nessuno ha saputo spiegarmelo. Quando mi

portarono qui, io ridevo, ricordo, e dicevo a quell’ombra che mi

stava sempre accanto: E tu non piangere, mia amica! Avremo

per noi tutto il tempo ogni mattino per bere il rosso vino

dell’alba. Poi ricordo che smaniavo e urlavo contro coloro che

mi trattenevano con forza e mi stringevano fino a farmi male: Io

lo grido dal profondo del cuore, non sono matta, credetemi, vi

prego! Ma il dottore malvagio mi legò al letto, mi mise in testa

qualcosa, sentii un dolore intenso, poi più nulla. E tutte le volte

che io protestavo, che volevo fare ciò che desideravo:

camminare lungo il viale, alzarmi la notte a guardare le stelle,

mi picchiavano e mi incatenavano. Tu, tu, Federico –hai detto

che ti chiami Federico?- tu sei buono, mi ascolti, mi guardi e

comprendi quel che voglio dirti. Dammi la tua mano, la tua

mano”.

Irene gli afferrò la mano e la tenne stretta sulle ginocchia.

Rimase così a lungo e Federico la sentiva tremare. Poi continuò

a parlare: “Lui non voleva un figlio. Io lo pregavo; un giorno,

perfino mi inginocchiai ai suoi piedi. E lui, niente! Ti basta la

tua poesia e mi respingeva. Fu allora che nella mia anima scese

una nebbia che, sparsa sul mio temperamento melanconico, fece

vacillare la mia mente. Svanì ogni speranza dalla mia vita, tutto

si ritirò alle mie spalle; la goccia di rugiada che solo poco prima

indugiava sui rami dell’albero, ora è caduta, inghiottita dalla

terra”.

Si calmò un poco, poi frugò sotto il camicione e tirò fuori due

pezzetti di carta arrotolati e legati insieme da un nastrino

azzurro e gli disse: “Li affido a te!”

Federico vide che dalle palpebre dei suoi azzurri occhi

pendevano due lacrime. Le promise che sarebbe tornato ancora

a parlare con lei e quella portò la mano di Federico sulla bocca

e la baciò. Federico si sentiva confuso e impotente dinanzi a

quel dolore così devastante. La affidò alla infermiera, che la

spinse leggermente, ma con indifferenza, verso le altre donne.

Quella fu l’ultima volta che la vide!

Uscì in fretta dall’ospedale e, salito in macchina, si affrettò a

srotolare quei due foglietti di carta e lesse:

Vedo nel tuo essere un’assenza Poesia, mia ultima dea,

una non presenza che spacca t’hanno messa in catene

il mio cuore e lo inabissa a soffrire le mie stesse pene.

nel profondo baratro del tempo Oh mia sera, tappeto di stelle,

che continui a rubarmi. dove il pensiero si perde

Ma legittima le tue parole straniere, e ondeggiando si culla.

pure se l’estranea forse sono io Meglio il mio amabile occhio

dal basso della mia follia. che indugia e diserta il nulla

Cercami prima di ogni ragione dell’infinito spazio. Ti bacio,

e guarda alla strana mia anima ombra del mio cuore,

con l’umanità di chi vuole che passi ancora sotto

ascoltare e non ridurre tutto questa finestra di dolore.

al silenzio e all’oblio.

La mia voce, la mia flebile voce,

lancio oltre queste ferrose grate

perché corra libera

di siepe in siepe per i roridi campi.

Federico lesse e rilesse più volte quei versi. Più di qualsiasi

fruscio di gonna di fanciulla, quei due foglietti di carta

commossero il suo cuore fino alle lacrime!

Fu allora che a Federico tornò in mente l’Elogio della follia di

Erasmo da Rotterdam. Se i doni della follia sono questi, come

non dare ragione al grande filosofo umanista che sosteneva che

è la follia a rendere sopportabile la vita, meno triste, meno

insipida e in fondo piacevole, in linea con quanto dicevano gli

antichi e cioè che la vita si illanguidisce quanto più ci si

allontana dalla follia. Sofocle, più esplicitamente, dichiarava

che dolcissima è la vita nella completa assenza di senno. E

rafforzando il suo pensiero, Erasmo non aveva tentennamenti

nell’ammettere che le idee migliori non vengono dalla ragione,

ma da una lucida, visionaria follia.

Passarono alcune settimane, durante le quali Federico si trovò

assorbito da impegni scolastici gravosi: valutazione degli

studenti, riunioni, collegi dei docenti, assemblee studentesche,

stesura di relazioni.

Tornò in visita alla clinica, dopo quasi un mese. Appena

entrato, gli venne incontro il dottor Sigona, che gli riferì subito

le novità.

-“Caro amico, è da tempo che non viene. Mi preme dirle, per

primo, che il professore Sinalunga è stato trasferito nel nostro

ospedale, dove come può immaginare lo tratteremo con ogni

riguardo e lo cureremo con il massimo impegno. E poi le dovrei

parlare della triste vicenda della paziente che amava la poesia”.

-“Vuole dire la signora Irene? Che cosa le è accaduto?”

-“Purtroppo, dopo la sua ultima visita, la paziente cadde in uno

stato di prostrazione tale che rifiutò persino il cibo per alcuni

giorni. Poi l’idea ossessiva della maternità cominciò a

tormentarla al punto da credere di essere incinta e andava su e

giù nel salone tra le altre ricoverate, tenendo un cuscino sotto il

camicione e dicendo: Cresce la luna, la luna cresce ogni sera!

Era un caso evidente di pseudociesi, cioè di gravidanza isterica.

Non è un fenomeno raro, ma il suo caso si manifestò in forma

così grave che una mattina non voleva alzarsi dal letto e

strillava, dicendo di avere le doglie del parto. Naturalmente

nulla di tutto questo. Ordinai la somministrazione di

psicofarmaci e, quando la sera comparve anche la febbre, di

antibiotici. Fu tutto inutile. Due giorni dopo, la mattina la

trovarono irrigidita e fredda. Pace alla sua anima, ha finito di

soffrire! Non è d’accordo, caro amico?”

Non rispose Federico. Aveva un nodo alla gola e non riusciva

ad articolare parola.

-“Se lo desidera, aggiunse il dottor Sigona, può incontrare il

professore. Non so se la riconoscerà!” E gli indicò il padiglione

dove era ricoverato.

Federico, sconvolto dalla triste notizia della morte di Irene e del

modo frettoloso e freddo con cui il dottore gliela aveva

comunicata, si avviò verso il padiglione che gli era stato

indicato. Dal finestrone intravide l’alta figura del professore che

camminava in mezzo a quelli che un tempo erano stati i suoi

pazienti. Si fece aprire la vetrata da uno degli inservienti

presenti ed entrò. Il professore lo riconobbe, si staccò dal

gruppo e gli andò incontro.

-“Professore, disse Federico, non è per me un piacere rivederla

qui e per giunta con la “divisa” del malato di mente. Ma

perché? Almeno quella avrebbe potuto evitargliela il suo

collega dottore!”

-“No, non si preoccupi! Le regole sono le regole, non si può

derogare da certi comportamenti istituzionalizzati. La divisa è il

minimo… Ora posso constatare direttamente come il malato sia

una “cosa” e non una persona, senza diritti, senza opinioni,

senza libertà. Come lei saprà, ho fatto del mio meglio, mi sono

battuto come un leone, ma ecco infine il risultato!”

-“Io sto con lei, professore, disse Federico. Sono

profondamente addolorato, ma stia certo che le sue idee, che

sono anche le mie, trionferanno. La società che vuole la

separazione tra ragione e follia non è ancora matura per

realizzare il sogno della abolizione di questi luoghi disumani.

Ma vedrà che non passerà molto tempo e la medicina smetterà

di pensare che i diversi, i contestatori, gli innovatori, gli

omosessuali e comunque gli storti e i difettati, vadano

scrupolosamente tenuti separati dagli uomini razionali e

rinchiusi, non tenendo affatto conte che storti e difettati per

qualche motivo in un momento della vita possiamo essere

tutti”.

Il professore scosse la testa e approvò benevolmente. Poi gli

strinse la mano, lo salutò con un sorriso triste, si tolse gli

occhiali e andò a sedersi sul letto. Il suo pensiero ardente di

umanità gli brillava in fronte e il suo sorriso perduto nel vuoto,

creavano l’immagine di un uomo che navigava nelle acque

della speranza e della sofferenza.

Federico capì che quella era l’ultima visita alla clinica, non

sarebbe più tornato, nemmeno con i suoi studenti. Il progetto

educativo andava ridimensionato. Al posto della visita avrebbe

offerto ai suoi studenti la storia di quei personaggi e

l’incrollabile idea della lotta nella prospettiva della chiusura

definitiva di tali prigioni. Era arrivato a quella conclusione in

seguito a ciò che era accaduto nella sua scuola. Da tempo

Federico si era accorto che i colleghi lo guardavano in modo

strano. Si era diffusa la voce che lui frequentasse la clinica

psichiatrica e che avesse relazioni con i folli che vi erano

rinchiusi. Qualche genitore aveva esposto al preside tutte le sue

perplessità circa il progetto educativo di Federico. Molte

madri avevano manifestato la loro avversione e preoccupazione

riguardo alla previsione di far entrare le loro figlie entro il

manicomio, fra i pazzi.

Il preside lo aveva convocato e in un tempestoso colloquio

erano volato frasi anche dure e offensive nei suoi confronti.

-“Lei, prof. Federico Carlini, ha riempito la testa ai suoi

studenti con termini come manie paranoie, schizofrenia,

sindrome bipolare, delirio megalomane, sindrome ossessiva e

via di questo passo. I genitori sono stufi del suo progetto, della

sua storia della follia, della sua intenzione di accompagnare gli

studenti in visita al manicomio. Lei è un sessantottino esaltato,

anche il suo aspetto, il suo abbigliamento, non sono consoni al

ruolo che lei ricopre. La invito a rivedere il suo progetto e a

percorrere itinerari didattici condivisibili”.

-“Ho l’impressione che lei soffra di una forma di infermità

mentale borghese. Che cosa c’entra la mia cravatta o il colore

della camicia? Io sono per l’amore e per la giustizia, signor

preside, non c’è bisogno di essere sessantottino per amare i più

deboli e, come si dice, gli scarti della società, i folli. Bisogna

tendere l’orecchio e chinarsi verso il loro borbottio, anziché

punirli con l’isolamento! Non sopporto prepotenze, non c’è

giustizia se non si riconoscano persone e non cose anche i pazzi

e non si rispettino i loro diritti.

Avrà presto la mia domanda di trasferimento ad altra scuola”.

Era appena uscito, quando nel corridoio vide il collega

Massimo Imperatore, noto nemico del preside. Aveva tutta

l’aria di avere ascoltato l’alterco tra lui e il preside. E infatti con

un sorriso di soddisfazione disse:” Bravo, collega, gliel’hai

cantata bene a quel borghesuccio di poco conto. Però, mi

dispiace se tu molli proprio ora. Nella misura in cui la lotta si fa

dura, dobbiamo restare uniti. Sarà lui che dovrà sloggiare. Tu

sei dei nostri!”

-“Senti, caro collega, io non mi ritengo affatto dei “vostri”, né

dei “loro”. Non accetto alcuna etichetta. per difendere coloro

che soffrono, i deboli, i folli, i diversi, non è necessario

sbandierare una appartenenza, basta soltanto conoscere e

amare”.

-“Mi sono sbagliato, disse quello, tu non sei disciplinato, non

sei capace di allinearti. Non conosci il libretto rosso di Mao.

Vai pure via dal nostro istituto, non sarà una grande perdita!”

E Federico se ne andò, senza neppure replicare come avrebbe

voluto, risparmiando al collega una offesa ben meritata: “Quel

che ci divide non è il libretto rosso di Mao, ma sono le migliaia

di pagine che io ho letto e tu no !”


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