Dal Carnevale alla Pasqua. I Riti della Settimana Santa a Gallipoli
Di Paolo Vincenti
Il lungo periodo che va dal Carnevale alla Pasqua nella città di Gallipoli è caratterizzato da una ininterrotta serie di riti in cui più che altrove il sacro si mischia col profano, in una straordinaria sintesi che dimostra quanto sia stato operante nel passato il fenomeno che gli studiosi chiamano sincretismo.
Non si può parlare delle manifestazioni di culto a Gallipoli senza fare un raffronto fra il passato ed il presente perché la modernità ha trasformato molto, in certi casi tutto, di quel complesso di rituali e tradizioni che costituiscono il patrimonio demo etno antropologico della terra salentina. Una volta, il tempo di Carnevale a Gallipoli iniziava esattamente il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, detto “Sant’Antoni de lu focu”, quando si accendevano tantissime “focareddhe” e si bruciavano per la città enormi cataste di gramaglie d’ulivo, dando così l’avvio alla festa con canti e balli per le strade ed i vicoli[1].
Era il suono della pizzica pizzica ad allietare i festivi ritrovi mentre il fuoco scoppiettava alzando nel cielo le sue scintille. Una tradizione, questa, che affonda le radici in un passato pagano quando la funzione apotropaica del fuoco veniva esaltata dai riti di purificazione. Il periodo di festa dunque iniziava significativamente con un battesimo di fuoco, nell’evento di Sant’Antonio Abate – al quale il rito, una volta cristianizzato, fu dedicato -, e terminava con un funerale, quello di Teodoro, la maschera popolare del carnevale gallipolino, la cui morte segnava l’avvio del periodo di mestizia consona alla Quaresima.
Teodoro, il protagonista del carnevale gallipolino d’antan, viene chiamato confidenzialmente “lu Titoru”. Come riferisce lo studioso Elio Pindinelli, la leggenda vuole che il giovane soldato, trattenuto lontano dalla sua terra, desiderasse ardentemente tornare in patria almeno per il Carnevale, nel periodo, cioè, in cui tutti potevano godere dell’abbondanza del cibo e divertirsi, prima dell’avvento della Quaresima. Anche la madre di Teodoro, la “Caremma”, in pena per il figlio, pregava perché Dio potesse concedere qualche giorno di proroga del Carnevale, e le sue suppliche furono ascoltate. Si allungò così la festa di due giorni (detti “li giurni de la vecchia”) e Teodoro poté arrivare a Gallipoli in tempo per i festeggiamenti. Era un martedì e Teodoro, per recuperare il tempo perduto, si diede a gozzovigliare partecipando della crapula insieme ai suoi compaesani e mangiando quintali di salsicce e polpette di maiale, tanto da rimanerne strozzato. Così, la festa si trasformava in funerale perché con Teodoro moriva anche il Carnevale, nella disperazione della madre e fra le urla di dolore delle vicine e comari[2].
[1] Elio Pindinelli, Le focareddhe, in «Almanacco gallipolino 1995»,Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1995, p. 6.
[2] Idem, Lu Titoru – La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995»,cit., p. 10 e p. 14.
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