DAI CECAMARITI UN ELOGIO DELL’ADULTERIO di Paolo Vincenti
I cecamariti sono una nota specialità salentina, propria della cucina contadina del passato ma oggi riproposta da sagre paesane e ristoranti tipici in tutto il Salento in una grande operazione di revival anche culinario che continua a richiamare da tutto il mondo torme di turisti affetti da “salentitudine”. Sono delle frittelle salate che le nostre mamme e nonne erano bravissime a preparare e che non potevano mai mancare sulle parche mense del tempo che fu. Si tratta di un piatto povero, che oggi funge da antipasto o contorno, ma che una volta poteva costituire anche l’intero pranzo.
La ricetta è molto semplice: farina, olio, zucchina, pomodori, peperoncino, olive nere, cipolla, capperi, uova e sale e c’è chi aggiunge le acciughe. Perché sono chiamati così? La spiegazione più diffusa è la seguente: le massaie preparavano queste specialità fritte per i mariti che tornavano affamati dal duro lavoro dei campi, utilizzando spesso anche gli avanzi della settimana e facendo, per così dire, di necessità virtù. Il sapore delle frittelle era talmente buono che con simili leccornie le mogli “accecavano” i propri uomini dal piacere. Rossella Barletta mi suggerisce come molto probabile che, essendo i cecamariti un piatto povero, che più povero non si può, l’accecamento dei mariti fosse dovuto alla rabbia o alla delusione di non aver trovato niente di meglio, cioè un piatto caldo, come tutti gli altri giorni.
Ma pare più convincente la prima versione, perché non credo che alcuno potesse resistere alla bontà di questi mangiarini. Vi è poi un’altra versione sull’origine della ricetta che è legata alla motivazione secondo cui le cuoche intendevano farsi perdonare dai mariti qualche mancanza oppure qualche marachella e insomma “imbonirli per ottenere qualcosa […] Una versione più maliziosa dell’origine di questo piatto e del suo appellativo, invece, sostiene che fosse un modo per far credere ai mariti di essere state tutto il giorno in casa a cucinarementre in realtà si era fatto altro per poi preparare all’ultimo momento i cecamariti con gli avanzi. In tutti questi casi il pizzico di astuzia della donna c’è sempre e i cecamariti rimangono, ancora oggi, un piatto veloce, buono e nutriente”[1].
Massimo Vaglio, che li chiama Futtimariti, scrive: “usando lo stesso impasto delle pittule le donne di Acquarica del Capo facevano i futti mariti, ossia pittule impastate con pezzetti di pomodoro o con pezzetti di acciughe salate, capperi e olive nere. Il sapore di queste speciali frittelle futtìa (ovvero prendeva in giro) il marito perché non si accorgeva che la moglie quel giorno non aveva cucinato, ma si era limitata a impastare un po’ di farina in fretta e furia”[2]. Insomma i manicaretti diventavano il motivo per farsi perdonare qualche scappatella, se non una vera avventura extra coniugale.
Questo ci porta ad un tema interessante quanto spinoso: quello dell’adulterio. Nella società patriarcale di qualche decennio fa questa parola destava scandalo e la si pronunciava a bassa voce, diveniva oggetto di allusioni, doppi sensi, battute triviali, di pesante ironia da parte di amici e parenti nei confronti del presunto “becco”. La percezione dell’adulterio femminile nell’immaginario collettivo era nel passato molto diversa da come appare oggi. In una società bacchettona e fondamentalmente maschilista, quale onta doveva essere per un uomo sapersi tradito e “cornuto”? Per cogliere il valore sociale dell’adulterio occorre tenere presente la posizione delle donne, lo statuto del matrimonio e il dettato della legge che lo disciplinava, tutti fattori che si sono profondamente evoluti nei decenni[3].
Chiaro che il diritto deve adeguarsi ai tempi. In questo senso, più che giusto che l’adulterio, che nel codice penale del 1930 era un reato esclusivamente femminile, fosse allargato ad abbracciare anche la responsabilità maschile, e soprattutto che nel 1968 fosse depenalizzato, dichiarando l’illegittimità costituzionale di quell’articolo per il suo contenuto discriminatorio nei confronti della donna. Ma nella società dei nostri nonni, più che al codice civile e penale, si faceva riferimento alle Sacre Scritture, alla Bibbia, che giungeva ai poveracci attraverso l’intermediazione dei preti e dei monaci. Nel passato tutto ruotava intorno alla religione di cui la coscienza dei nostri antenati era impastata. Nell’Antico Testamento, l’adulterio viene considerato gravissimo peccato. Nel Levitico è scritto: “Non avrai relazioni carnali con la moglie del tuo prossimo per contaminarti con lei”. E più avanti: “Non avrai con maschio relazioni che si hanno con donna, è abominio. Non ti abbrutirai con alcuna bestia, è una perversione. Non vi contaminerete con nessuna di tali nefandezze, poiché con tutte queste cose si sono contaminate le nazioni che io sto per scacciare davanti a voi”[4].
Questa infrazione è considerata tanto grave da meritare la morte. “Perché quanti commetteranno alcuna di queste pratiche abominevoli saranno eliminati dal loro popolo”. Anche nel Deuteronomio si parla di adulterio e fornicazione: “Quando un uomo verrà colto in fallo con una donna maritata, tutti e due dovranno morire, l’uomo che ha peccato con la donna, e la donna. Così toglierai il male da Israele”[5]. E ancora: “quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo, trovandola in città, pecca con lei, condurrete tutti e due alla porta della città e li lapiderete così che muoiano: la fanciulla perché essendo in città non ha gridato, e l’uomo perché ha disonorato la donna del suo prossimo. Così toglierai il male da te”. Poi è intervenuto Gesù Cristo a mitigare i dettami della legge mosaica. Pensiamo al noto episodio dell’adultera, che il Nazareno sottrae alla lapidazione pronunciando la famosa massima: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”[6], che a tanti incalliti fornicatori ha fornito un valido pretesto per commettere i loro peccati con la coscienza preventivamente assolta.
La legge mosaica, al pari dell’islamismo, era feroce nei confronti di chi fornicava al di fuori della relazione coniugale e i puttanieri d’antan rischiavano la pelle, così come le fedifraghe che, se colte in costanza di reato, potevano essere eliminate per strangolamento. “Ma se l’uomo trova per i campi la fanciulla fidanzata e facendole violenza pecca con lei, allora dovrà morire soltanto l’uomo, ma non farai nulla alla fanciulla”[7].
Come scrollarsi di dosso secoli e secoli di oscurantismo per un Paese la cui cultura viene dalla tradizione ebraico cristiana? Come lavare l’onta dell’infedeltà coniugale in tanto bigottume e moralismo? Ci ha provato la legge. Oggi l’adulterio non è più considerato un reato, ma solo una motivazione nelle cause di separazione legale e poi di divorzio. Il legislatore ha pensato bene di affrancare l’Italia da quel retaggio troppo pericoloso, anche a costo di sferrare un calcio definitivo alla famiglia tradizionale nucleare su cui la società italiana si basava. Oggi infatti, in tempi di relativismo e di chiese vuote, l’adulterio non è più una no fly zone, ha del tutto perso quel portato di trasgressione, ribellione personale, violazione di tabù, che costringeva le donne del passato a trincerarsi nel silenzio, a portare con sé nella tomba quell’inviolabile segreto e a volte a macerare nei sensi di colpa. Pur non essendovi un nesso di causalità diretta fra il provvedimento legislativo 6 maggio 2015 n.55 e la crisi che vive oggi la famiglia, non possiamo non accarezzare il sospetto che la straordinaria impennata di separazioni e divorzi registrata negli ultimi anni possa essere attribuita alla facilità con cui ci si sposa e ci si lascia. Se più facile oggi è diventato coniugarsi – vedi la trasmissione televisiva Matrimoni al buio, su Real time, in cui sei single si incontrano e devono decidere se sposare seduta stante un perfetto sconosciuto -, altrettanto facile è mollarsi a cuor leggero.
Ma se muore la famiglia tradizionale, muore anche quel sottile piacere di trasgredire i suoi codici morali, il perverso gusto di minare le sue fondamenta, di scardinare il solido basamento fatto di metodo, regole e principi, insomma quella fascistissima triade – Dio patria famiglia-, su cui si poggiava la retrograda società del passato, quando appunto le donne preparavano li cecamariti. Muore anche l’adulterio in poche parole, ed oggi una scopata extra coniugale non serba per le nuove generazioni quel piacere del proibito, il gusto dolceamaro dell’avventura e della clandestinità che conservava in passato. Se non c’è matrimonio, non c’è adulterio. Se non c’è routine, a che serve la trasgressione? Senza l’eccezione, a che vale la regola? Non così una volta. Già, una volta, quando c’era anche il servizio militare obbligatorio e in tempo di guerra gli uomini venivano strappati a forza alle proprie famiglie, al lavoro e agli affetti per andare al fronte. Oggi, c’è l’esercito dei professionisti.
Ma un tempo, quando i nostri antenati partivano per la guerra, quanti involontari tradimenti si consumavano allorché le loro donne, logorate dalla protratta assenza e incapaci di sostenere una crudele astinenza sessuale, si concedevano alle attenzioni e alle voglie di giovani amanti che mitigavano la loro pena per i mariti al fronte? Alcune poi, quelle che lo facevano senza neanche darsi pensiero del coniuge che rischiava la vita in trincea, pareva avessero quasi il diavolo in corpo, come nel romanzo di Radiguet[8].
Come scrive Maria Roccasalva in Elogio dell’adulterio[9], sapida e provocatoria difesa del tradimento: “La colpa è del Progresso: si è cominciato con l’uccidere il chiaro di luna e si è finito col far morire l’adulterio. Del caro estinto è stata estinta infatti la sua linfa vitale: il Reato”. A cosa serve citare Filippo Tommaso Marinetti: “Il matrimonio è un’istituzione contro natura, per fortuna mitigata dall’adulterio”? Il matrimonio rappresentava per le generazioni del passato e soprattutto per le donne l’approdo più naturale di una vita che altrimenti sarebbe parsa inutile, sprecata, se non votata alla famiglia e alla continuazione della specie. Quel desiderio di annullamento selvaggio, allora, l’ansia, le palpitazioni, il gioco sottile della dissimulazione, quel fuoco lavico della passione, il piacere della clandestinità: tutto ciò aveva ed ha un senso se è in vita il suo opposto, il matrimonio. La somma trasgressione per l’italiano medio, che consiste nelle relazioni extra coniugali, perde di valore se il matrimonio non c’è più o si può cassare con un colpo di mouse: niente coniugio, niente extra. Così anche per le donne. “Viene da piangere se si pensa come il progresso abbia alacremente e protervamente lavorato a privare i cittadini di sesso femminile del diritto all’unico atto di eroismo concesso loro attraverso i millenni…”, scrive Maria Roccasalva.
“L’adulterio era l’unica libertà di cui la donna si fosse potuta appropriare, una libertà nascosta, invisibile, che osava affermarsi solo nel chiuso di una stanza, e per questo infinitamente più conturbante di qualsiasi rivendicazione gridata in faccia. Era il peccato per antonomasia, la somma trasgressione, sensuosa, struggente, erotica ed eretica. La donna che si riappropriava del suo ruolo demiurgico e creativo, fonte inesausta di lancinante godimento e incessante generatrice di carne; la donna che incedeva a testa alta e occhi bassi, col suo segreto celato dietro la veletta. Quanto è stato perso con la liberazione sessuale e la parità dei diritti!”. Ovviamente si tratta di una provocazione, ma se si vuol rimanere sul filo della stessa provocazione, «la donna, all’epoca dell’adulterio-reato, era un essere intangibile e lontano: totalmente presente, non avrebbe aizzato il desiderio di possesso del maschio. Era l’interdetto, cioè il sacro, condizione necessaria e sufficiente a far di lei una divinità spietata sul cui altare immolare vite e fortune.
Tutto cominciava con la danza propiziatoria del maschio intorno al frutto proibito, con il linguaggio furtivo dello sguardo, al quale essa rispondeva con verecondo pudore, arrossiva, si schermiva… spesso non era necessario accendere i sensi col fuoco delle parole, bastava il contatto lieve della mano a scatenare la deflagrazione del desiderio… e nell’attimo in cui gli sguardi si incrociano, ecco scoccare l’irreparabile. “Sono perduta!” … Questa tentazione condivisa aveva il nome tripudiante di concupiscenza, un insieme di febbre e desiderio selvaggio, di annullamento nella lava ardente e liquida della passione e al contempo un situarsi fuori di se stessi e guardarsi annegare…». Quando le donne nell’antica società preparavano i cecamariti, il matrimonio era un sacramento e la voglia non dichiarata di infrangere un tabù lo rinfocolava. “Ma il legislatore, spinto paradossalmente proprio dalle donne, vietando il divieto, ha privato l’adulterio del suo carattere religioso più profondo. Un adulterio laico, come una religione laica, è un ossimoro. E così i profani tempi attuali, che non riconoscono altro se non la secolarità più conformista, hanno defraudato gli esseri umani di ogni divina scintilla creativa che non sia il gesto clamoroso quanto gratuito…
Abolita dunque l’Eternità, l’assoluto che apparteneva a Dio, all’arte, all’epos, non rimane che la relativa durata, nella quale ci accontentiamo di vivacchiare, apatici e annoiati, a consumare le nostre stanche scopate. In questo senso, l’adulterio condivide lo stesso destino dell’arte. Come senza Dio non può esserci arte, così non può esserci adulterio”. Insomma, l’auspicato e civilissimo divorzio, concedendo una importante libertà, ne ha depotenziato un’altra, ossia l’esercizio della fantasia. L’orgoglio misto a terrore della donna del passato consapevole del proprio “peccato” sembra ormai destinato a scomparire. Se tutto è consentito ed anzi è meglio non sposarsi per non incorrere in seccanti procedure burocratiche, viene meno per la donna (ma anche per l’uomo) il piacere delle “scappatelle”.
Una volta l’adulterio diventava un efficace antidoto contro la monotonia della vita coniugale, un potentissimo contravveleno che rendeva quella sorta di carcere volontario che è il matrimonio una dolce prigione nella quale il carcerato finiva per tornare ad amare il carceriere, come nella sindrome di Stoccolma. Niente meglio di una serie di avventure extra matrimoniali poteva migliorare il rapporto a due. Perché avere altri uomini o altre donne non significava necessariamente essere insoddisfatti del mènage o frustrati da una inappagante vita sessuale, ma voleva dire riaffermare con forza il proprio diritto alla felicità. “E più si è felici, più il matrimonio va a gonfie vele”.
Oggi, la donna “multitasking” riesce ad organizzare il tempo programmando scientificamente le proprie giornate e anche l’incontro con l’amante o con più di uno. E se la sua tresca viene scoperta dal marito/compagno, niente drammi. Ci si separa oppure ci si trova un altro marito, oppure ancora un altro amante. Se poi non si è sposati, tanto di guadagnato, ognuno per la propria strada e chi s’è visto s’è visto. «In un passato non poi tanto remoto la donna fedifraga era vittima del cosiddetto “delitto d’onore”; oggi il peggio che possa accadere alla malcapitata è un divorzio economicamente svantaggioso». Non c’è scandalo, nessuna sorpresa: “munnu era e munnu ete”, dice un adagio popolare, ma questo “mondo” un tempo stava nascosto, mentre oggi è del tutto in luce.
È il gusto del proibito che scema, quello che ha prodotto alcune fra le più belle pagine di storia della letteratura (Emma Bovary, La signora delle Camelie, Anna Karenina, solo per citarne alcune). Il processo di secolarizzazione in atto della Chiesa, a cui, diciamolo, sta dando un forte contributo Papa Bergoglio, finisce per togliere ai cedimenti della carne quel di più, lo stigma che da sempre si porta appresso la fornicazione, quella puzza di inquisizione, che ne raddoppia la libidinosità. Ogni sanzione è uno stimolo alla violazione della norma, ogni divieto un incoraggiamento a superarlo. Non premia forse la nostra eccitazione la secolare memoria di roghi, indici, ghigliottine, di anatemi, di prediche e moralismo pretesco? E, a voler fare spicciola speculazione filosofica, esisterebbe l’etica senza l’estetica? È vero, Kierkegaard potrebbe risponderci che il piacere dei sensi è solo un gradino, quello più basso, per giungere ad una contemplazione più profonda, ad una consapevolezza più piena della vita che è quella della spiritualità, dell’abbandono a Dio. Ma le allegre massaie concupite (le “casalingue”, titolo di un famoso film porno degli anni Settanta citato anche in Fantozzi) non credo che conoscessero il triste danese. Il piacere dell’attimo, quel fascino diabolico della trasgressione, la ricerca del piacere per il piacere, ciò può ben sorreggere una vita ordinata e formalizzata.
L’uomo vive per quel momento di passione che rinfranca, anche se sa che a quella tentazione ne seguiranno altre e che a tutte cederà, che la passione brucia e non sazia. Ma il puttaniere e la fedifraga continueranno a rincorrere il piacere, di letto in letto, di avventura in avventura, fino alla fine, schiavi contenti della loro febbre di vita. Il conquistatore, il Dongiovanni (interessante la distinzione fra Dongiovanni e Casanova condotta in una analisi dettagliata da Franco Cuomo in Elogio del libertino[10]), affina una pratica che gli riesce a meraviglia, e infatti non si stacca dalla moglie, anzi continua a godere del calore famigliare per tutta la vita. Di relazione in relazione, la impressionante sequela di amori e amorazzi dell’adultero terminerà solo quando la moglie ne scoprirà i tradimenti e chiederà il divorzio.
O magari, il che è più letterario, quando il Don Giovanni si pentirà ed entrerà in convento oppure scenderà all’inferno. “Amarne una”, dice il seduttore nel Don Giovanni di Mozart-Da Ponte, “è far torto alle altre”. E tornando a Kierkegaard, nel Diario del seduttore[11], che è parte dell’opera più vasta Aut Aut, egli si dibatte fra i piaceri della carne e la contemplazione spirituale, fra il desiderio sensuale, l’estetica insomma, e l’etica. La sua, comunque, è una seduzione più che altro intellettuale, però coglie la seduzione sensuale in tutte le cose e, per esempio, nella musica di Mozart, nel Don Giovanni, come intitola un’altra parte di Aut Aut. E Thomas Mann, nel suo Doctor Faustus[12] fa in modo che il suo protagonista, Adrian Leverkuhn, sia colto dal diavolo proprio mentre sta leggendo le pagine di Kierkegaard sul Don Giovanni. Tutte queste suggestioni letterarie oggi naufragano nel mare della superficialità e ogni cosa perde colore nel “liberi tutti” di una moderna e forse inevitabile società liquida in cui tutto è permesso e niente è peccato. Il peccato, che le massaie salentine nascondevano dietro un semplice frittella salata con cui “accecavano” i mariti becchi.
[1] https://www.salentoterradagustare.it/ricette-della-tradizione-salentina-cecamariti/ Cfr. Massimo Vaglio, La cucina del Salento, Nardò, Besa Editrice, 1999.
[2] Massimo Vaglio, I Piatti delle Feste. Santi, Pittule e Cazzateddhre, I libri di Qui Salento, Guitar Edizioni, Lecce, 2002, p. 50. Rosa Bianca Gaballo, in Cucina barocca. Viaggio nella memoria gastronomica della terra salentina, in «Spicilegia Sallentina», n. 3, giugno 2008, pp. 29-30, invece dei cecamariti indica erroneamente la ricetta della scurdijata.
[3] Cfr. Maurice Daumas, Adulteri e cornuti. Storia della sessualità maschile tra Medioevo e Modernità, Bari, Dedalo edizioni,2008, p. 39.
[4] La Sacra Bibbia, Levitico 18:20.
[5] Ivi, Deuteronomio, 22:22.
[6] Ivi, Giovanni, 8:5, 8:7.
[7] Ivi, Deuteronomio, 22:25.
[8] Raymond Radiguet, Il diavolo in corpo, Traduzione di Maurizio Enoch, Roma, Newton Compton, 1993.
[9] Maria Roccasalva, Elogio dell’adulterio, Napoli, Pironti Editore, 2010, passim.
[10] Franco Cuomo, Elogio del libertino, Roma, Newton Compton, 1993.
[11] Soren Kierkegaard, Diario del seduttore. Edizione integrale, Introduzione di Angelo G. Sabatini, Roma, Newton Compton, 2014.
[12] Thomas Mann, Doctor Faustus, Traduzione di Luca Crescenzi, Milano, Oscar Mondadori, 2017.