Da Gallipoli a Micene di Maurizio Nocera
Mi capita spesso di recarmi sotto le mura di Gallipoli, dalle parti del porto di san Giorgio. Lì, poco prima di arrivare al Circolo della Vela, imboccando quel tratto del Lungomare Marconi che forma un piccolo ponte, c’è una porticina che immette sul versante del mare. Da quel punto inizia il mio percorso, che si protrae poi lungo le mura fino al seno della Purità. Sotto gli occhi mi capita subito il primo torrione, ne ammiro la grandiosità sperando, un giorno, di accedere al suo interno per scoprire com’è fatto. Ma lì, immerso nei miei pensieri rivolti alla grandiosità dell’opera umana, mi capita pure di pensare a ciò che l’uomo è riuscito a costruire su questo nostro pianeta in altre parti del mondo. E penso alla Grecia, a Micene, dove mi capita spesso di recarmi assieme all’editore Lorenzo Capone di Cavallino.
Forse oggi a Micene, antica città nell’Argolide del Peloponneso, non ci sarà più nulla di archeologicamente antico da scoprire, perché tutto è cominciato ad essere scoperto già al tempo (XIX sec.) di Heinrich Schliemann. Ovviamente, però, non si può mai dire mai, perché, chissà come e quando, potranno uscire fuori da quella terra altre meraviglie, soprattutto qualche altra tavoletta impressa dalla scrittura cosiddetta Lineare B. Tuttavia, andare a visitare quel sito è sempre una grande sorpresa, sempre una grande emozione.
Non so perché Robert Payne (1911-1983), uno tra i biografi inglesi di grandi personaggi storici e sicuramente uno tra i più attenti biografi di Heinrich Schliemann, abbia scritto di Micene il seguente passo:
«Ai tempi di Schliemann, chi andava a Micene d’estate vedeva la piana di Argo tutta gialla e bianca di stoppie e polvere, e della città, che era stata una volta una fortezza, non trovava che pietre su quel versante della collina, che si affaccia su un passo montano a circa 850 metri. Quelle tristi e brulle montagne hanno qualcosa di minaccioso, tanto sono massicce, aspre e incombenti. Oggi quei luoghi conservano ancora il loro aspetto minaccioso e i lupi ululano ancora fra le montagne, ma molte cose sono cambiate. La piana è tutta coltivata a frutteti, a tabacco e a cotone, mentre sui pendii si coltiva l’orzo. Tuttavia Micene incute ancora paura, nascosta all’ombra di quei neri colli, inavvicinabile» (vd. R. Payne, L’oro di Troia. La storia di Heinrich Schliemann e delle città sepolte dell’Antica Grecia, Odoya edizione, Bologna, febbraio 2016, p. 169. Prima edizione R. Payne 1958; prima italiana: Feltrinelli 1960).
Micene è la mitica città degli Atridi, al disopra della valle dell’Inachos e al riparo fra i due monti Haghios (Sant’) Elias e Zara, protetta dal grande burrone del Chaos. Quando sono al suo interno, nulla di quello che ha descritto Payne nel suo passo citato mi è sembrato minaccioso, nulla mi ha fatto sentire a disagio. Al contrario, davanti alle rovine della città antica, mi sono sentito proiettato nella vita di quegli uomini e quelle donne, di quei vecchi e bambini, che un tempo, il tempo epico e leggendario narrato da Omero (o dagli omeridi) nell’Iliade, trascorrevano in quel luogo la vita di tutti i giorni: di notte, dopo avere chiuso le porte di legno della Porta dei Leoni, andavano a dormire come potevano farlo gli uomini e le donne di quel tempo. Chi aveva trascorso una giornata di fatica nei campi o chi aveva sistemato le faccende di casa, sognava un giorno felice per l’indomani; chi aveva il compito di governare la città ugualmente se la passava la notte come se la doveva passare, pensando al da farsi. E chi aveva dolori per i malanni della vecchiaia o per altro ancora, cercava di farseli passare con qualche rimedio officinale, mentre chi assaporava le gioie del letto coniugale se la spassava a fare l’amore. Ecco, non impaurito né deluso mi sono sentito davanti a quelle grandi vestigia, col pensiero rivolto a Heinrich Schliemann, a quell’incredibile uomo, la cui sfacciata fortuna lo portò a scavare Troia e le antiche città greche Micene, Tirinto, altre ancora.
Personalmente mi interessa poco l’aspetto affaristico dell’uomo Schliemann, teso alla dannata ricerca di diventare ricco a tutti i costi. L’unica giustificazione che trovo per comprenderlo su questo suo versante mercantile è quella legata al suo determinato obiettivo di diventare tale per poi intraprendere gli scavi necessari a scoprire il mondo antico e sepolto, narrato da Omero (o omeridi). Anche in questo caso però, oso scriverlo ma sotto voce, sappiamo che quello che più gli interessava di tali scavi era trovare i tesori tanto decantati negli stessi poemi. Tuttavia la mia ammirazione per Schliemann sta nel fatto che egli riuscì a portare alla luce quel mitico mondo, fosse o non fosse strettamente legato alle indicazioni dei poemi, ci azzeccasse o meno con le date, i luoghi e i personaggi storici, quasi tutti sbagliati. Almeno per me, come curioso conoscitore del mondo antico, quello che mi interessa dello scienziato tedesco non è tanto la precisione storica quanto l’idea che egli ha avuto di osare leggere i testi antichi con la convinzione che essi corrispondessero a certe verità. Oggi l’archeologia moderna ha dimostrato che non poche attestazioni di Schliemann sono fuori luogo e che egli confuse luoghi, date e personaggi, tuttavia, almeno questo vale per chi qui scrive, questo non inficia minimamente la sua grandezza e la sua passione di scienziato e di archeologo ante litteram. C’è poi un altro motivo della mia ammirazione: Schliemann volle (un po’ come l’Alfieri del “volli e sempre volli”), diventare scrittore, scienziato ed archeologo. Cosa che comunque, aldilà dei risultati, riuscì a fare a differenza di tanti suoi contemporanei (spesso accademici) che si trastullarono a leggere le storie omeriche e a scrivere recensioni o riassuntini di quanto i grandi autori greci avevano già descritto. Se non fosse stato per quella sua accanita determinazione, Troia e le mitiche città greche sarebbero ancora sotto cumuli di terra. Per questo, e tuttavia non solo per questo, Schliemann va ricordato nel grande libro della Storia dell’Umanità come benefattore, pur non dimenticando che per diventare ricco non si fece scrupoli a sfruttare migliaia e migliaia di onesti lavoratori.
Schliemann, dunque, è lo scopritore di Micene. Non dimentico la mia prima visita alla cittadella fortificata: quando mi sono trovato davanti alla Porta dei Leoni, non ho potuto evitare d’abbracciare i grandi massi che la delimitano. E poi l’odore della pietra, la maestosità architettonica dell’ingresso alla città, la volta del cielo che si piega a coniugare l’architrave, è tutto questo complesso architettonico che, ancora oggi, mi spinge ad estraniarmi dal mondo dal quale provengo e permettermi così di entrare in una dimensione altra, in un tempo in cui vedo i micenei muoversi e vivere dentro la loro città.
Di essa, Pierre Lévêque scrive:
«I resti più tangibili di questi reami achei [si riferisce ai potentati territoriali degli antichi Perseidi] sono i castelli fortificati in cui i capi concentravano la loro potenza. Nessuno è più impressionante di quello di Micene: un vero nido d’aquila su di un’acropoli grosso modo triangolare, alta alla sommità di 278 metri e delimitata, salvo che da un lato, da burroni scoscesi. Cime aride e rocciose dominano questo sperone circondato da gole deserte, nascosto, inaccessibile, invisibile dal mare, da cui dista tuttavia solo 15 chilometri. Un luogo sinistro, in perfetto accordo con le oscure leggende che i Greci vi ambientarono» (vd. La civiltà greca, Einaudi 1970 e 2002, p. 43).
Dal suo punto di vista, invece, Payne scrive:
«Micene sorge in una posizione ideale che domina la pianura di Argo e la baia di Nauplia […] Sembra sia stata abitata fin dall’epoca preistorica: qui, intorno al 1700 a. C., un potente re costruì giganteschi bastioni intorno a una primitiva città dell’Età del Bronzo ed eresse una nuova reggia. […] Conduceva in città una strada dal fondo di pietre, fiancheggiata da due bastioni. Profonda nei bastioni c’era una porta, detta Porta dei Leoni, massiccia e imponente, chiusa, una volta, da una doppia porta di legno, con un enorme architrave sormontato da due leonesse che si guardavano. Oltrepassata la Porta dei Leoni e le mura larghe 5 metri e mezzo, si giungeva su una terrazza circolare./ Al tempo di Schliemann, questa era coperta di pietre e detriti; aldilà c’erano le rovine dei palazzi, consumate dal tempo e coperte di licheni» (vd. Op. cit., pp. 169-170).
E Friedrich Matz (1890-1974), archeologo e storico amburghese, scrive:
«Micene si trova “nell’angolo di Argo che nutre i cavalli”. Il golfo argivo, aperto verso sud, si prolunga verso nord in una pianura cinta da monti. Al limite settentrionale della pianura, dove sboccano le strade provenienti dall’Istmo di Corinto, si eleva alla distanza di oltre 15 km dal mare il monte della rocca (278 m d’altezza). […] La vista della rocca stessa era però nascosta da un’antistante catena di alture. Soltanto dopo aver oltrepassato un’apertura, essa appare d’un tratto a una distanza di poche centinaia di metri, sopravanzata dalla possente piramide dell’Haghios Elias, alta 807 metri. […] Il posto era straordinariamente fortificato dalla natura» (vd. Matz, Op. cit., p. 133).
Chi, tra i grandi autori della nostra epoca, non ha scritto di Micene? Chi di loro, almeno per una volta nella vita, non l’ha visitata. Tutte le volte che è capitato a me, le gambe hanno cominciano a tremarmi sin dal posteggio dell’auto. E lì che sempre comincio a sentire la forza del prodigio umano, l’infinità del Tempo, l’enormità dello Spazio. Poi il percorso della strada lastricata di cemento, che sale verso la porta, la faccio con lo sguardo rivolto alle grandi mura che delimitano il dromos. Sulla mia sinistra, su un banco di roccia lungo, compatto ed enorme, la grande muraglia si erge per ben otto livelli. Si tratta di un centinaio di grandi massi. Così è pure la muraglia che sta sulla mia destra. Poi, davanti mi si para la Porta con i grandi massi del frontespizio, che comincio a contare: escluso il trilite, il grande marmo con i leoni e la colonna che la sormontano, in tutto conto 33 grandi massi squadrati di dimensioni uno diverso dall’altro. Oltrepasso il tunnel della Porta e, sul di dietro, mi ritrovo a contare il muraglione che fa da bastione su di un lato: si tratta di una quindicina di grandi massi anch’essi tutti ben squadrati. Ecco, poi, sulla mia destra, il grande cerchio funerario con le pietre dolmeniche che lo delimitano. È impossibile non fermarsi e ammirarlo. Payne scrive che Schliemann:
«aveva trovato le lapidi nel grande spazio circolare oltre la Porta dei Leoni, e qui continuò a scavare sempre più perplesso per ciò che trovava. Tutt’intorno al cerchio aveva trovato lastre di pietra disposte in modo da formare un anello continuo di sedili. Doveva trattarsi di un luogo pubblico d’incontro, dove i notabili venivano convocati dagli araldi per ascoltare i bandi; e può darsi servisse per i balli e per la lettura pubblica dei poemi che celebravano le gesta dei re. Qui parlavano gli oratori, si davano le ricompense e si mostravano periodicamente al popolo i simboli del potere./ Questi luoghi erano sacri e, solitamente, erano prossimi ai tumuli degli eroi: a volte si trovavano sotto quelle pietre tombe di re. Quel luogo era chiamato agorà e, sebbene sacro, era usato anche come mercato. […] Schliemann si convinse perciò che dentro quell’anello di panche di pietra avrebbe trovato le tombe degli eroi» (vd. Op. cit., pp. 176-177).
E così fu, perché fu proprio nelle tombe a fossa scavate in quel cerchio che il grande archeologo tedesco trovò il tesoro di Micene (le cinque maschere di lamina d’oro a sbalzo sui teschi di nove cadaveri maschili, e poi diademi, collane, orecchini, scudi, spade, pugnali, bottoni, fibule, trottole, e quant’altro). Si tratta delle tombe (oggi l’archeologia moderna lo ha accertato) non di Agamennone e altri suoi contemporanei, ma di altri re, principi e principesse. Ma aldilà dei personaggi storici (si tratta di un periodo precedente di più di 4 secoli a quello descritto da Omero o omeridi) che in quel posto erano state tumulate, non riesco a evitare di guardare l’ipogeo a cielo aperto del cerchio funerario pensando alla spaventosa tragedia che comunque si consumò in quel luogo. Eschilo, Sofocle ed Euripide hanno scritto che Agamennone, di ritorno dalla guerra di Troia, venne ucciso dalla moglie Clitemnestra e dal suo amante Egisto, cugino dello stesso re. E poi, a loro volta, questi ultimi furono uccisi dai figli (Oreste e Ifigenia) di Agamennone e della stessa regina.
Il grande cerchio funerario fa riflettere. Vedo lo stretto corridoio in alcuni tratti ancora integro. I lastroni sono stati sistemati al loro posto e il colore della pietra, antico e ancestrale, incute rispetto. Mi sposto in alto per vedere il cerchio nella sua dimensione più ampia. È nella sua parte più interna che vedo le tombe a fossa. Enormi, soprattutto quella che si dice abbia contenuto le spoglie di un re, di dimensioni straordinarie. Incredibile e bellissimo il muretto a secco eretto come contenimento della terra del cerchio, le pietre, tutte di dimensioni piccole, sono impilate le une sulle altre con maestria architettonica. Da lontano sgorgo le grandi tombe degli Atridi, che sono al di fuori delle mura della città, la tomba cosiddetta del Tesoro di Atreo, quella di Clitemnestra, quella di Egisto. Le visiterò dopo, quello che ora m’interessa è la città. Salgo ancora un po’ più su, verso la cima dell’acropoli, e lì vedo il palazzo dei perseidi e dei micenei che governarono per secoli la comunità. Ai miei occhi non sembra un grande palazzo, eppure quella è stata la reggia decantata anche da Omero. Di quel palazzo, oggi, restano solo le mura perimetrali.
Matz scrive:
«la dimora principesca occupa la sommità del colle della rocca, di circa 35 metri più alta della Porta dei Leoni. […] Arrivati in cima, si entra, attraverso un atrio, anzitutto in una piccola stanza di circa 6 metri di lato, presso la cui parete è riconoscibile il posto per un trono. Nel suo lato orientale si estende il cortile quasi quadrato del Palazzo di circa 12 x 12 che, cinto da costruzioni a più piani, aveva un pavimento di cemento. Con il fronte verso ovest si apre su di esso il megaron [grande sala per le riunioni]. Esso ha un portico con due colonne fra due ante, donde attraverso una porta nella parete settentrionale si potevano raggiungere i rimanenti ambienti del Palazzo. […] Nell’interno della sala sono riconoscibili ancora il focolare piatto e rotondo nel mezzo, nonché le quattro basi delle colonne che sostenevano lo sfogatoio, fatto a guisa di lucernaio. Dal pavimento e del rivestimento di stucco dipinto del focolare come pure delle pitture murali furono trovati bei resti. Il focolare ha evidente carattere cultuale. […] Benché il megaron a Micene sia notevolmente più piccolo di quello di Troia, la sua ampiezza, come spazio, supera sensibilmente tutti gli altri ambienti del Palazzo» (vd. F. Matz, Creta, Micene, Troia, Editrice Primato, Roma 1958, pp. 135-137).
Ma di tutta la città, in particolare dell’acropoli, ciò che più mi ha sempre attratto è la cisterna. L’acqua è sempre stata l’elemento fondamentale di ogni forma di vita. Per cui, il sapere come i micenei si approvvigionasse d’acqua potabile era fondamentale per me. Il luogo della cisterna è alle spalle del Palazzo, nei pressi della seconda porta della città, quella segreta, che serviva in caso di fuga. Lo spiazzo che le sta davanti è circondato da tutti i lati da grandi massi delle mura e su strapiombi a quota 278 m. l. m. In tutta Micene non ci sono sufficienti cisterne domestiche, per cui l’approvvigionamento dipendeva unicamente dalla grande cisterna riempita dalle acque della Fonte Perseia. La sorgente dista 360 metri fuori le mura e a 13 metri più in alto dell’acropoli così che, per caduta, è possibile trasferire l’acqua dalla sorgente alla cisterna sotterranea.
Di essa, una delle più esaurienti descrizioni l’ha fatta l’archeologo Leonard Cottrell (1913-1974), che scrive:
a Micene «l’acqua non mancava. La cisterna segreta, a cui la guarnigione di Micene attingeva le sue scorte è ancora là e, dopo la Porta dei Leoni, quella riserva sotterranea lascia una maggior impressione di qualunque altra cosa nella fortezza di Agamennone. Vi trovai l’accesso sul lato nord, non lontano dalla porta secondaria, un accesso molto più piccolo della Porta dei Leoni, usato probabilmente come “porta di sortita”. Su questo lato, dove le sentinelle passeggiando sulle mura potevano guardare verso nord fino al passo di Corinto, mi trovai davanti a un arco dalla volta triangolare, da cui una ripida fila di scalini cominciava a scendere entro la terra. Gli scalini passavano prima obliquamente attraverso la muraglia ciclopica, fino a raggiungere un punto sotterraneo fuori le mura; poi, ad angolo retto a ovest e scendeva per un’altra ventina di gradini, quindi, trasformandosi in una spirale sempre più stretta, sprofondava quasi verticalmente nelle viscere della terra. Era buio fitto e molto umido, mentre scendevo a tentoni contando i gradini (erano più di sessanta). Presso il fondo, accesi un mucchio di erbe secche e di sterpi e mentre le fiamme rugghiavano alte potei vedere le pareti scintillanti, arcuate del corridoio e proprio ai miei piedi un pozzo di pietra, quadrato, pieno fino all’orlo d’acqua limpida./ Questa cisterna, profonda un sette metri circa, rappresentava la scorta segreta di acqua potabile della guarnigione, utilizzabile in tempo di assedio. L’acqua vi è addotta mediante tubature di terracotta dalla stessa fonte Perseia che il viaggiatore greco Pausania vide 1700 anni or sono; ma la cisterna e il corridoio per scendervi, secondo la stima del professor Wace[1879-1957], erano già vecchi di almeno 1500 anni quando Pausania venne a Micene. E la stessa fonte che dissetava i micenei fornisce ancor oggi l’acqua agli abitanti del moderno villaggio di Charvati» (vd. L. Cottrel, Il toro di Minosse. Creta, il Minotauro e la civiltà micenea, Aldo Martello editore, Milano 1956, pp. 97-98).
Conoscevo già questa descrizione, per cui, una volta giunto nello spazio antistante l’ingresso, anch’io sono sceso nella prima rampa (16 gradini) di gradini, dove mi sono fermato. Tuttavia, sapevo, per averlo letto, che esiste uno «stretto corridoio che va verso ovest finché non si raggiunge una vasta sala quadrangolare nella quale, dopo una ventina di passi, si cambia direzione verso est. Dopo l’ultima svolta inizia una serie di ripide scale, lunghe 12 metri, con 54 scalini. L’ultimo scalino è più piccolo degli altri per aumentare la capacità del serbatoio. Sembra che il serbatoio sotterraneo e la condotta che lo alimenta abbia un doppio strato di intonaco idraulico. Il serbatoio ha un soffitto a volta, con una profondità di 5 metri rivestito con sottili pietre che funzionavano come filtri. Era il punto di arrivo della lunga conduttura sotterranea».
Ciò che invece ha destato la mia curiosità e che non avevo ancora letto in nessuna descrizione fatta dagli autori che avevano scoperto la città o che si erano recati, per visitarla, è stato il piccolo invaso che si trova proprio all’ingresso della cisterna e che a me ha fatto pensare a un contenitore di decantazione dell’acqua. Ho immaginato che al tempo della Micene mitica non era possibile approvvigionarsi autonomamente d’acqua potabile, non credo che ogni abitante scendesse con un secchio o un’anfora. La discesa da fare non è affatto facile, per cui ci dovevano essere degli addetti alla mansione che però facevano il lavoro, magari quotidianamente, riempiendo l’invaso in superficie che, a quell’epoca, doveva avere anche una copertura. Questo invaso aveva a sua volta un sorvegliante. Ancora oggi è visibile il posto dove il sorvegliante stava di guardia. Perché il sorvegliante? Semplicemente perché, essendo l’acqua un bene prezioso, non poteva essere sprecata. È stato questo il luogo che più di ogni altro mi ha affascinato: pensare ad esempio a come veniva distribuita l’acqua potabile, mi ha reso Micene, ancora prima che una cittadella fortificata sempre in guerra, una città a dimensione d’uomo, dove gli abitanti vivevano la loro vita di lavoratori mangiando il frutto dei loro lavori nei campi e bevendo l’acqua della sacra fonte Perseia.