“Crispia Salvia una moglie dolcissima” Romanzo di Francesco Camagna – Recensione di Giovanni Teresi
Nel romanzo “Crispia Salvia, una moglie dolcissima” l’autore Francesco Camagna, attraverso un parallelismo narrativo, strutturato in un periodo che comprende il III secolo D.C. e un altro contemporaneo ambientato negli anni 2000, ci conduce, con affascinante fantasia onirica, in una storia ricca di particolari e vicende, dettati da sentimenti, emozioni, distinzioni tra ceti sociali, rapporti genitoriali e argomenti di natura religiosa.
L’autore, adoperando un dettato linguistico chiaro con riferimenti storici, conduce il lettore a intraprendere il viaggio nella dicotomia temporale del vissuto dei due personaggi Crispia Salvia e Julius Demetrius, del periodo greco-romano, con quello dei due personaggi immaginari ed attuali.
Il bisogno di meraviglioso, il bisogno di illusione vivono accanto al desiderio di ascoltare e sono presupposti narrativi del Nostro assieme a quello di leggere storie che, collocate nell’altrove, sono accettate e vissute come assolutamente vere nello spazio del racconto.
I romanzi d’amore tessono da sempre gli aspetti universali dell’essere nel mondo dell’umanità, del suo rapporto con la vita e con la morte, coinvolgono chi li ascolta in una dimensione liminare nell’area transazionale.
Francesco Camagna descrive con perizia e passione una vera e propria parabola di umano destino, un’esistenza segnata da molteplici tappe, alcune liete, altre dolorose, ma che comunque si conclude con un vero e proprio scacco esistenziale. In questa parabola esistenziale l’autore intreccia una varietà di problematiche religiose, sociali e politiche, quasi a volere significare la complessità della vita, sempre esposta al rischio e all’imprevedibile. Lo stesso linguaggio del racconto, ora corposamente realistico, ora espressivamente immaginoso, scandisce e accompagna i diversi momenti delle vicende narrate, contribuendo a renderle più incisive e pregnanti.
Il libro, inoltre, è pervaso da un alto e significativo senso etico e pedagogico. Queste, infatti, sono le coordinate di fondo dell’impianto narrativo del Nostro: una ricerca autentica della libertà; un’ansia religiosa, un’introspezione lucida del cuore umano con le sue inconfessabili contraddizioni; un sentimento acuto della debolezza e caducità dell’uomo dinanzi la morte. Ansie, vicissitudini temporali, amori e sacrali valori sociali sono l’alta considerazione per la creazione artistica dell’autore, che è la sola capace di comporre in armonia le laceranti conflittualità dell’uomo e del mondo.
Una mia personale considerazione è che il romanzo, nella filosofia europea, ha affrontato tutti i grandi temi esistenziali da Heidegger in “Essere e tempo”, a Cervantes, che si chiede che cosa sia l’avventura; con Samuel Richardson, che, nelle sue opere: “Pamela” e “Clarissa” comincia ad esaminare “quello che accade dentro”, a svelare la vita segreta dei sentimenti; con Balzac, che scopre come l’uomo sia radicato nella Storia; con Flaubert, che esplora la terra fino ad allora incognita del quotidiano; con Tolstoj,che studia l’intervento dell’irrazionale nelle decisioni e nei comportamenti umani. Il romanzo sonda il tempo: l’inafferrabile attimo passato con Marcel Proust; l’inafferrabile attimo presente con James Joyce. Interroga, con Thomas Mann, il ruolo dei miti che, venuti dal fondo dei tempi, guidano a distanza i nostri passi. E così via.
Nell’opera: Crispia Salvia, una moglie dolcissima”, volendo eternare l’amore, come sentimento puro, il nobile romano, Julius Demetrius, si rivolge alla consorte prematuramente scomparsa con le sue parole, contenute in un’iscrizione funeraria, e, in virtù del casuale ritrovamento dell’Ipogeo di Crispia Salvia, giungono fino a noi, recandoci il respiro intenso di un sentimento eterno attraversando quasi due millenni. Una passione che si consolida e si rafforza nella latina Lilybaeum ed offre fortissime suggestioni, in grado di rinvigorire il legame fra due giovani che vivono le vicissitudini e la precarietà di un rapporto di coppia agli albori del ventunesimo secolo.
Come non notare qui la somiglianza con tanti testi letterari che rientrano nell’ambito della cosiddetta autofiction, in cui la storia è accompagnata dalla presenza del narratore che quella storia lentamente ricostruisce e che quindi diventa anche un personaggio del suo romanzo?
La compartecipazione emotiva imposta dal Nostro al materiale verbale e, soprattutto, l’attenzione che rivolge al ritmo del racconto, sono segni manifesti che assecondano la componente narrativa. Tra i dettagliati e nutriti spunti di riflessione, che ritornano frequenti in molte delle dissertazioni del racconto, quelli più ricorrenti appaiono: la centralità sacrale di maternità e famiglia, l’importanza di una retta educazione, e il tirocinio propedeutico al ruolo di moglie.
Oltre a riproporre l’insistente antagonismo tra ragione e sentimento, che dovrebbe riassumere in una elementare espressione dicotomica le differenze tra uomo e donna, il testo teorizza la coppia di valori cui sarebbe devota la vita della donna: l’ubbidienza e l’amore. L’autore suggella poi la trattazione valorizzando quel pregio tutto femminile che è il «coraggio del tacere».
Le riflessioni dello scrittore rivelano la propria organicità allo scenario storico e, col racconto di Giulio e Crispia del XX secolo, al pensiero culturale dominante del suo tempo.
La storia, proprio in quanto discorso sulla realtà, è anche una narrazione che utilizza alcuni strumenti della fiction: crea continuità fra le tracce discontinue del passato, disegna una trama, mette in scena dei personaggi fittizi, usa l’analogia e la metafora.
Trama, personaggi, metafora: sembrano termini esclusivamente letterari, necessariamente fuori del campo della storia, e invece si rivelano strumenti efficaci nello sviluppo della ricerca e della conoscenza.
In questo modo, attraverso la trama parallela dei suoi personaggi, Francesco Camagna consente di di mettere in scena ciò che altrimenti non sarebbe possibile raccontare: la morte, le proibizioni sociali e religiose, i divieti. Così, la storia diventa il territorio del “come se” e consente di accogliere il nascosto, l’oscuro, il doloroso e, attraverso il viaggio nell’inverosimile e nell’indicibile, il soggetto accede a nuove forme di conoscenza di sé, del proprio mondo e della propria esperienza emotiva.
Giovanni Teresi