Conversazione sulla scuola e sulla sua funzione educativa, ai tempi del PNRR, uno scambio di punti di vista tra dirigenti scolastici e docenti – Prima Parte
di Enrico Conte
Partecipano:
Prof. sa Gabriella Bustini, Docente italiano e latino, Liceo Scientifico Giulietta Banzi Bazoli, Lecce
Prof Salvatore Conte, già Docente di italiano e storia, Istituto Antonio Meucci, Casarano, Dirigente CGIL
Prof.ssa Annarita Corrado, Dirigente, Liceo scientifico da Vinci, Maglie
Prof.ssa Antonella Manca, Dirigente, Liceo Scientifico, Giulietta Banzi Bazoli, Lecce
Prof.ssaMaria Rita Meleleo, Dirigente Liceo classico, Colonna, Galatina
Prof ssa Maria Rosa Valentino, Segretario Provinciale Snals Lecce
Sulla scuola, come invero su tanti altri argomenti, era calato il silenzio della campagna elettorale.
Chiusa la disputa politica, tornano i problemi: circa 150-200 mila supplenti, la perdita, negli ultimi due anni, di 200 mila studenti, che – causa il calo demografico – diventeranno 1,4 milioni in meno nei prossimi 10 anni. Oggi ci sono 7 milioni di alunni.
Il PNRR dedica alla scuola una mole di risorse, per realizzare Nidi di infanzia, per le mense, per consentire il tempo pieno, per riscrivere le strutture edilizie partendo dalla loro messa a norma.
La percentuale del 33% di domanda potenziale per i Nidi d’infanzia, che era da coprire entro il 2010 è, in molte aree del Paese e in particolare nel Mezzogiorno, ancora un sogno da realizzare. Quanto alle mense, in provincia di Lecce ( cosi Save the Children) le primarie con mensa sono il 24%( in Puglia: la Bat copre il 44,4, Bari,42, Foggia 33,7,Brindisi 32,7 Taranto 25,6).
Eppure la mensa non è solo “ refettorio” è condizione strutturale per poter disporre del tempo pieno, per combattere la dispersione, per promuovere l’apprendimento, per socializzare e fornire educazione alimentare. Sulla dispersione scolastica, alcuni dati: 15 su 100 di dispersione esplicita, abbandono. L’obiettivo UE per il 2030 è del 9%. In Puglia il 17,6, in Sicilia il 29%. La media Italiana è del 12,7%.
Ma la scuola è offerta educativa e culturale. E ai ritardi e ai divari territoriali, misurabili sul versante dei servizi offerti, si aggiungono i “vuoti” di contenuti pedagogico-culturali che la scuola dovrebbe assicurare e promuovere. Quando, piuttosto, deve inseguire “cose da fare”, all’interno di un modello burocratico che sembra girare su se stesso, e che non sempre aiuta a interrogarsi sui perchè e sul senso del proprio ruolo nella società.
E nel mentre, fuori dalle finestre scolastiche, la “materia dell’Istruzione” diventa materia contendibile( art 117 Cost.) tra Stato e Regioni, alcune delle quali chiedono l’attribuzione di maggiori competenze e risorse, con ciò mettendo in discussione e delegittimando il ruolo unificante dello Stato( art 5 Cost. “La Repubblica, una e indivisibile….”). Istituzione statale che, se andasse avanti quel progetto dovrebbe rinunciare, pur parzialmente, al compito primario di promuovere una coscienza civica unitaria su tutto il territorio nazionale.
A questo si aggiunga, in chiave di interrogativo aperto, una riflessione di Piero Angela, nel suo libro uscito postumo, “Dieci cose che ho imparato”: “la nostra cultura è rimasta umanistica, letteraria, storica, giuridica, artistica, filosofica, tipica di una società in cui i cambiamenti avvenivano lentamente. E dove non esisteva quasi competizione con economie concorrenti…la scienza ha rivoluzionato le conoscenze, la tecnologia ha cambiato profondamente la società, ma tutto ciò non è entrato nel grande tempio della “Cultura”… Basta leggere le pagine culturali dei quotidiani per rendersene conto: scienza e tecnologia vengono generalmente viste come materie tecniche….quando si parla di cultura, di formazione intellettuale, di grandi interrogativi è il pensiero classico a primeggiare”.
La conversazione che segue, impostata come fosse una chiacchierata tra dirigenti scolastiche/i e docenti, che è auspicabilmente destinata ad aprirsi ad altri interlocutori, tra i quali Dirigenti/Docenti di Istituti Tecnici e Professionali, può essere letta come un grido di dolore che viene dal mondo della scuola e al quale sembra appropriato associare “l’Urlo” di Edward Munch.
PRIMA PARTE
D. ………“Lei pensi ad istruire i miei figli che, alla loro educazione, ci pensa la famiglia”: queste le parole di un genitore rivolte ad un insegnante di scuola dell’infanzia, che stava cercando di lavorare insegnando al bambino comportamenti rispettosi dei ruoli di genere.
Se si accetta l’assunto che la scuola è lo specchio della società nella quale è inserita, si può sostenere che, dopo il ’68,ha forse perso i connotati di “scuola della disciplina” per seguire, piuttosto, un modello che spinge all’efficienza?
Nel frattempo la scuola non ha forse perso il suo compito principale che è quello di educare? Veicolando una visione generale della società e degli uomini e dando, con caratteri di universalità a tutti, le condizioni per crescere, anche socialmente, attraverso l’istruzione?
R. Maria Gabriella Bustini: nomina sunt consequentia rerum o res sunt consequentia nominum? Sono i nomi a rivelare l’essenza e le caratteristiche di cose o persone, meno poeticamente, sono le persone e le cose a essere classificate dai nomi? Siccome la nostra scuola (sinonimo nel passato di tempo libero, piacevole uso delle proprie disposizioni intellettuali e morali) è diventata un’agenzia formativa, con un complicato sistema di debiti, crediti, bonus, competenze, curricula ,invece di collaborare con la famiglia e la società a creare persone e cittadini, sembra abbia il compito di generare solo lavoratori efficienti, da immettere con successo sul mercato del lavoro. Nanni Moretti diceva che “le parole sono importanti” e mai, come in questa nostra epoca, è necessario usarle con cura, poiché nomen omen est: un nome è un destino. Il destino dello studente sembra essere non quello di diventare un cittadino ma, appunto, un lavoratore. E se si vuole che la scuola invece veicoli una visione più umana del mondo in cui lo studente vive, dovremmo innanzitutto rispolverare un’altra terminologia per determinare o valutare il processo educativo e formativo del futuro cittadino.
R. Salvatore Conte: Compito della scuola è lo sviluppo della personalità di tutti i giovani, attraverso una formazione culturale che fornisca strumenti adeguati alla crescita di una loro autonoma capacità logico-critica. Da almeno vent’anni la scuola ha eluso questa finalità fondamentale. E cioè da quando l’Autonomia scolastica ha messo in competizione sterile le scuole, trasformandole da luoghi del sapere in “progettifici” e da quando l’asse didattico si è spostato quasi totalmente verso l’esaltazione delle “competenze” a discapito delle “conoscenze”.
R. Annarita Corrado: Spesso si parla di scuola come comunità educante, ed è vero, rientra nella mission di ogni istituzione scolastica. Nella scuola infatti il concetto di “educazione” abbraccia il vasto campo della formazione integrale della persona che, proprio perché strettamente legata alla delicata fase dello sviluppo e della crescita dei ragazzi, ha bisogno di coniugare gli aspetti cognitivi specifici di ogni disciplina con quelli socio-affettivi-relazionali. Anzi, se questi ultimi sono perseguiti come obiettivi formativi, diventano alimento per una motivazione allo studio e all’istruzione, oltre che per contribuire, insieme alle famiglie, a far diventare gli studenti di oggi, i “cittadini” di domani. Non a caso l’Educazione Civica, inserita come obbligatoria in ogni ordine e grado dei percorsi scolastici, non è una disciplina a se stante, ma è (o dovrebbe) essere interpretata dalla trasversalità dei docenti che compongono il consiglio di classe o di circolo.
R. Antonella Manca: Da molti anni, la scuola non rappresenta un tema centrale dei programmi governativi, perché non si ha piena consapevolezza dell’importanza che l’educazione e la formazione rivestono non solo per la crescita e il benessere del singolo individuo, ma per lo sviluppo sociale ed economico del Paese. La colpa non è solo della politica, ma di un intero popolo. Il che spiega il motivo per il quale nelle campagne elettorali non si parla di politiche educative, che di fatto non attraggono l’interesse degli elettori e non sarebbero, di conseguenza, capaci di generare consenso. E’ un circolo vizioso, con responsabilità diffuse.
Detto questo, negli ultimi decenni la scuola è stata presa di mira con provvedimenti che l’hanno destabilizzata, spostata da una parte all’altra a seconda degli indirizzi ideologici del governo di turno. La scuola si è smarrita a partire dalla famosa “razionalizzazione”, che ha cambiato la struttura logistica e organizzativa del sistema di istruzione avendo più a cuore i numeri che non il senso della scuola. Cosa possiamo auspicarci con il nuovo governo? Che si tenga conto dell’esistente e di quanti nella scuola e per la scuola lavorano quotidianamente sul campo; che non si improvvisino decreti o disposizioni senza averne prima considerato gli effetti; che non si metta mano all’ennesima riforma solo per cancellare la precedente; che si studi la storia della scuola italiana. Insomma, che non si interpreti la scuola ad uso e consumo di idee e interessi di parte. Ne va del futuro non solo degli studenti che la frequentano ma del futuro stesso della nazione. Ci si ricordi che la scuola è un servizio pubblico ed è fatta dagli studenti e da chi ci lavora, e questi ultimi non possono essere tormentati da una pletora di disposizioni che sembra abbiano l’unico scopo di far crescere la burocrazia.
R. Maria Rosaria Valentino: in pochi, fortunatamente, dubitano che la scuola abbia un compito ben piu’ ampio che quello di trasmettere conoscenza e che debba essere la fucina in cui si formano la personalità dell’individuo, la sua capacità di socializzare e le caratteristiche emotive. Ma al di là della ”missione” educativa è il ruolo che la scuola gioca nello sviluppo civile, economico e sociale a renderla uno degli elementi portanti della nostra società. Fino ad oggi sulla scuola italiana si è investito meno rispetto agli altri paesi avanzati (3,8% del PIL secondo gli ultimi dati contro una media del 4,5%),ma quello che risulta evidente è che le risorse comunque sino ad oggi stanziate si sono rivelate frammentate, disomogenee, prive di quella “visione” che dovrebbe caratterizzare quelle scelte di politica scolastica mirate ad ottenere ricadute significative e di ampio respiro.
D. Se la capacità della scuola di orientare è diminuita anche perché ha perso autorevolezza e carisma, chi forma i ragazzi: gli influencer? i social ? la strada? Può essere utile, come sostiene Giorgio Metta, Direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, impegnato in progetti di robotica e intelligenza artificiale, un’educazione alla tecnologia, per fornire una maggiore consapevolezza di ciò che c’è dietro il fare tecnologia, per trasmettere la conoscenza del complesso sistema della scienza e della tecnologia? La tecnologia ha una sua grammatica che si apprende prima di quella linguistica: in che misura la scuola si fa carico di accompagnare i ragazzi nell’uso degli strumenti tecnologici?
R. Maria Gabriella Bustini: Salvatore Settis scriveva in piena pandemia di avere il cuore spezzato “per il tramonto delle istituzioni culturali già da tempo marginalizzate da un cieco economicismo, a cui è ora di reagire prima che sia troppo tardi”. L’archeologo si chiedeva quali “pensieri innescherà nei giovani la scuola, se immiserita a contatti virtuali via web? Se vogliamo davvero pensare a una seria ripartenza, cominciamo da domande di fondo come queste: La scuola deve educare i cittadini del futuro a pensare criticamente o allevare ossequienti esecutori dell’ordine costituito?”. Consapevoli che quello di internet sia un nuovo linguaggio, la scuola si promette ogni giorno di insegnare ad usarlo in modo corretto, per promuovere la crescita personale degli studenti.
R. Salvatore Conte: Antonio Gramsci diceva che il “nuovo” cittadino doveva essere “scienziato + politico”. Cioè uomo che conosce la scienza (e la tecnologia) e uomo capace di porsi in maniera critica verso il suo utilizzo. Quindi ben venga l’educazione tecnologica, purchè sia accompagnata da un’adeguata educazione filosofica…
R. Annarita Corrado: E’ ormai un processo irreversibile quello relativo all’utilizzo degli strumenti tecnologici in ogni campo dell’agire umano, dall’ambito industriale a quello domestico, da quello strettamente personale a quello socio-relazionale.
La scuola non può ignorare questa realtà e anzi è suo compito cogliere le opportunità offerte dalle innovazioni tecnologiche per proporre una didattica al passo coi tempi, più coinvolgente, più conforme alle abilità con quegli strumenti che i ragazzi possiedono e utilizzano ormai come accessori indispensabili, spesso solo per i loro passatempi.
La scuola ha e deve avere il compito anzitutto di aiutare i ragazzi a frenare quel compulsivo ricorso ai social che per alcuni diventa una vera e propria dipendenza; e in ambito didattico avviarli a utilizzare questi strumenti in modo appropriato, maturando competenze di web-ricerca, di selezione, di cernita rispetto a contenuti attendibili o meno. Ovviamente la differenza tra un utilizzo adeguato o non adeguato (se non fuorviante e deviante) del meta-verso lo fa la mente, la conoscenza, la cultura. E in questo la scuola può e deve fornire un supporto importante.
In ogni aula ormai gli strumenti tecnologici (superate le lim, oggi sostituite dagli schermi interattivi) rappresentano supporti didattici che docenti e alunni utilizzano quotidianamente e che sono in grado di contribuire a rendere viva e partecipata la didattica.
R. Antonella Manca: La tecnologia è diventata ormai parte integrante di ogni aspetto della nostra vita e, per le nuove generazioni, ha rappresentato e continua a rappresentare -con tutte le veloci evoluzioni che la caratterizzano (si pensi alla realtà aumentata)- un paradigma capace di generare modalità di apprendimento completamente diverse rispetto al passato. La scuola, quindi, non può che identificare con chiarezza i nuovi bisogni psicologici, emotivi ed educativi che ne scaturiscono. E’ inevitabile integrare le nuove tecnologie a scuola, perché sono cambiati gli ambienti di apprendimento. Il problema non è l’utilizzo o il non utilizzo delle tecnologie, quindi, ma l’urgenza di un’educazione all’uso del digitale di studenti e famiglie per un uso consapevole dello stesso. Questo perché, anche se sono cambiati gli ambienti di apprendimento con l’introduzione delle ICT, resta fermo e sempre valido il principio educativo secondo il quale a scuola, oggi come in passato, occorre insegnare a vivere e, per farlo, occorre insegnare a conoscere la “conoscenza” per affrontare problemi vitali come quelli dell’errore, della parzialità, della comprensione umana, delle incertezze che ogni esistenza incontra.
D. …”Nella mia classe i giornali non entrano, da noi si studia e basta!”(parole di un’insegnate di Liceo classico). Non “è un errore – parafrasando Salvatore Settis -contrapporre antico e contemporaneo, quando ciò che conta è cogliere il flusso della storia, dall’antico all’oggi e al domani, come un fiume dove si mescolano, goccia a goccia”?….. “Sono diffidente nei confronti di un pensiero dicotomico, quello che separa la cultura umanistica da quella scientifica”……. sembra fargli eco Joshua Cohen.
R. Maria Gabriella Bustini: sedotti dall’imperativo della crescita economica e dalle logiche contabili a breve termine, sembra a molti quasi superfluo accostarsi alla Storia. “Qui e adesso” è l’aforisma su cui semplicisticamente si appiattiscono centinaia di migliaia di anni di evoluzione umana. Non conoscere la propria storia è come entrare al cinema a film già iniziato; significa abdicare ad una delle caratteristiche che ci hanno permesso di creare la società civile, ovvero l’abilità tutta umana della ricerca, della investigazione, della conoscenza. Le capacità analitiche dello studente trovano campo fertile di esercitazione proprio nello studio degli eventi storici che determinano la conoscenza del presente. Studiare storia significa, soprattutto, eliminare la paura per il diverso che diventa razzismo, per il lontano che diventa xenofobia, per ciò che non si conosce e che quindi si respinge.
R. Salvatore Conte: si studia il passato per comprendere il presente e si studia il presente( anche attraverso i giornali) per non ripetere gli errori del passato. Un buon docente di Storia lo sa bene e tutti i docenti sanno bene che la separazione tra cultura umanistica e cultura scientifica è solo una mistificazione….
R. Annarita Corrado: Operando in un Liceo Scientifico mi è facile combinare questi due ambiti del sapere, quello umanistico con quello scientifico. La peculiarità infatti di questo indirizzo è proprio quella di armonizzare queste due culture, non contrapporle e farle diventare invece i pilastri, i due polmoni di un sapere integrale.
Oggi tuttavia, mi pare, assistiamo a trend che porta a una dicotomia tra cultura umanistica e cultura scientifica, quando invece il pensiero della civiltà occidentale si è nutrito, fin dagli albori, della matrice culturale greca e latina, senza subire separazioni tra gli ambiti del sapere; in principio c’era una sola cultura: la filosofia, la poesia e la scienza procedevano tenendosi per mano. Ecco, i licei in modo particolare dovrebbero muoversi, e di fatto si muovono nell’ottica di un ripristino di questo armonioso connubio che tanta cultura ha prodotto nella storia dei nostri popoli.
R. Antonella Manca: Se nella scuola non ci si limita a insegnare i saperi quantitativi, ma si va ben oltre per affrontare problemi fondamentali come quelli dell’errore, dell’interpretazione, allora si hanno buone possibilità di superare anche la contrapposizione tra materie scientifiche e materie umanistiche. Abbiamo bisogno di un metodo per affrontare i problemi fondamentali e globali dell’individuo e del cittadino, un metodo affinché le nostre percezioni, idee e visioni del mondo siano il più possibile affidabili e affinché la sovrabbondanza dei saperi separati non diventi fonte di errore.
D. I Licei formavano tradizionalmente la classe dirigente del paese: è ancora così?
R. Salvatore Conte: Si, Anzi oggi la scuola è diventata, purtroppo, ancora più classista essendo peggiorate le condizioni dei ceti popolari. Questi preferiscono senza meno gli Istituti Professionali o gli Istituti Tecnici perché i costi universitari sono ormai un lusso per pochi…
R. Annarita Corrado: Oggi tutti gli ordini di scuola superiore mirano sempre più a formare i propri studenti con un bagaglio di competenze specifiche nella prospettiva di farli diventare protagonisti nel settore professionale prescelto al termine di un lungo percorso scolastico che muove i primi passi proprio dall’indirizzo di scuola superiore. Si può ben dire che oggi l’establishment si forma con le eccellenze di ogni specifico settore.
È indubbio tuttavia che i licei preparano di più ad una cultura di riflessione ed approfondimento e pongono le basi – anche in ordine al proseguimento degli studi in ambito universitario – per una scelta più ampia verso quelle facoltà (ingegneristica, sanitaria, giuridica, scientifica, letteraria) che, volenti o nolenti rappresentano ancor oggi il traino o per meglio dire la base, le fondamenta di tanti altri settori.
R. Antonella Manca: I licei continuano a formare la classe dirigente del Paese perché -se i curricoli sono ben strutturati- forniscono un metodo di studio capace di generare continua conoscenza. E in questo processo, l’astrazione e la concettualizzazione giocano un ruolo di fondamentale importanza.
D. Che ruolo rivestono, oggi, gli Istituti tecnici?
R. Salvatore Conte: gli Istituti Tecnici sono delle “scuole cuscinetto” illudono le famiglie meno abbienti di poter dare una preparazione di buon livello, spendibile presto nel mercato del lavoro più di quella di un Istituto Professionale.
R. Antonella Manca: gli Istituti tecnici rivestono un ruolo molto importante, perché possono formare.
D. Tre buoni motivi per continuare a iscriversi ad un Liceo
R. Maria Gabriella Bustini: per imparare la complessità. Per sperimentare a tenere insieme la lucidità nell’analisi e il coraggio della visione. Per essere soggetti e non oggetti di scelta.
R. Annarita Corrado: Primo: per una preparazione culturale ampia e approfondita che permette di orientarsi nella complessità del sapere.
Secondo: per l’acquisizione di un metodo di studio che consente un apprendimento continuo (li felonglearning) in linea con i mutamenti della società.
Terzo: per una funzione orientativa e auto-orientativa in ordine alle proprie scelte future, unitamente al potenziamento della capacità di gestire la propria conoscenza in modo critico.
D. Pagare di più gli insegnanti e differenziare in base al “merito”?
R. Salvatore Conte: pagarli di più senza meno. Impossibile, poi, misurare il merito di un docente. Mica produce frigoriferi o scarpe.
R. Annarita Corrado: Questo rappresenta il tasto dolente che sta alla base del “sistema-scuola” italiano e di ogni recriminazione nei confronti della politica. Circa la differenziazione della retribuzione in base al merito, mi sembra un problema di difficile soluzione, come peraltro dimostrato da alcuni recenti tiepidi tentativi non andati in porto. Da una parte è assolutamente vero che ci sono insegnanti che lavorano di più e meglio di altri (come in qualsiasi contesto lavorativo, pubblico e privato), ma questo merito chi lo deve attestare?
Il Curriculum dei titoli? Ma non sempre ai titoli corrispondono effettive capacità didattiche.
Il Dirigente Scolastico? Creerebbe un clima di scontento e divisione all’interno del corpo docente.
Gli impegni extracurricolari dei docenti nell’ambito della stessa scuola? Già vengono, se pur miseramente, retribuiti come lavoro eccedente dal FIS (Fondo Integrativo di Istituto).
I risultati di profitto degli alunni? Ma i livelli di partenza non sono uguali per tutti: ci sono classi dove i risultati, anche modesti, si ottengono con un duro lavoro e una abnegazione senza riserve da parte del docente, e altre che per vari fattori e per i contesti di provenienza (familiari, economici, culturali ecc…) tutto è più facile.
Il parere delle famiglie? Sarebbe una sorta di customer satisfaction inficiata da interessi di parte.
Insomma lo status attuale mi fa dire che da una parte si riconosce l’ingiustizia di un riconoscimento del merito a pioggia, dall’altra la difficoltà a parametrarlo con indicatori chiari e oggettivi.
R. Antonella Manca: Da anni si parla di differenziazione dei docenti sulla base del merito, ma tutti i tentativi di introdurre questo valore sono falliti. Il nostro sistema, al momento, non è in grado di procedere in questa direzione, non solo per l’opposizione dei sindacati, ma perché la classe dirigente non è ancora capace di applicare efficacemente i parametri del merito.
R. Maria Rosaria Valentino: la qualità di un insegnante non è un elemento di facile valutazione, spesso è solo ricavabile a posteriori dagli stessi risultati degli studenti (negli studi ma anche nella vita).Tutti i tentativi di riforme mirate a “premiare” i docenti in base al merito sono falliti perchè non si sono trovati criteri di valutazione oggettivi e, soprattutto, ampiamenti condivisi. Questa difficoltà ha cristallizzato tutti gli studi su potenziali progressioni di carriera legate al merito. Eppure la reale differenza di retribuzione tra i docenti italiani rispetto ai colleghi europei non è nelle fasce stipendiali legate ad i primi anni di insegnamento. Le differenze emergono nel corso della carriera: negli altri paesi sono previste significative progressioni retributive che portano, a fine carriera, a superare di circa il 30% le retribuzioni rispetto a quelle previste in Italia. Anche a causa del poco gratificante livello salariale la scuola italiana ha ormai difficoltà ad attrarre i professionisti piu’ preparati. Investire nella scuola significa anche renderla lavorativamente appetibile, restituendo prestigio sociale a chi sceglie di lavorarci. Una progressione di carriera allineata agli standard europei attrarrebbe nella scuola figure professionali motivate, ambiziose e con qualita’ organizzative ormai indispensabili per adeguare gli istituti ai bisogni sociali, culturali ed educativi del territorio.
D. Il dirigente scolastico potrebbe scegliere i suoi insegnanti?
R. Salvatore Conte: la “Buona scuola” di Renzi prevedeva questo: ed è uno dei motivi per cui è stata affossata. Si creerebbero “scuole confessionali” di insegnanti adepti, sudditi del Preside. Gli alunni di una scuola pubblica hanno il diritto di fruire dei docenti delle più varie provenienze, ideologie,, formazioni…..La pluralità del sapere è alla base di una scuola democratica….
R. Annarita Corrado: Non credo che da un punto di vista sindacale questa possibilità sia percorribile, perché potrebbe dare adito a preferenze, o supposte tali, che inquinerebbero le procedure di reclutamento.
R. Antonella Manca: Il dirigente dovrebbe scegliere i suoi insegnanti, ma credo che al momento la classe dirigente non sia preparata a tale compito.
R. Maria Rosaria Valentino: la condicio sine qua non per il miglioramento del sistema scolastico(in evidente difficolta’ come emerge dalle ultime rilevazioni, che naturalmente sono da analizzare con le dovute riserve e tenendo presente che le statistiche non possono realmente descrivere le differenze di varia natura presenti nel territorio) è che vi entrino e vi rimangano, come ho gia’ ribadito parlando del merito, docenti con elevate qualità professionali, umane e didattiche. Ma come individuare queste qualità e soprattutto a chi delegare questo compito delicato e difficile? In un sistema pubblico di reclutamento i sindacati si sono strenuamente opposti a più o meno timidi tentativi di introdurre la “chiamata diretta” da parte dei dirigenti scolastici. Non per mancanza di fiducia ma perché nella pubblica amministrazione le assunzioni devono seguire rigide procedure di reclutamento in cui la trasparenza dei meccanismi di assunzione ed il controllo degli stessi sono imprescindibili. Forse questo sistema non garantisce il reclutamento dei migliori? Non si puo’ sostenerlo. E’ certo però che un buon sistema di reclutamento dovrebbe essere accompagnato da una lunga fase di tirocinio che consenta ai neoassunti di acquisire una solida esperienza didattica. Alla fine di questo percorso i dirigenti, che già ora sono chiamati a valutare il periodo di prova, dovrebbero esprimersi in base alle reali attitudini e capacità del docente. E di conseguenza “fermare e far ripetere” chi ha evidenziato difficoltà o problematiche. Ricordo che non superare per due volte il periodo di prova comporta ,secondo le norme vigenti la risoluzione del contratto. I dirigenti non reclutano gli insegnanti ma sicuramente valutano chi ha attitudine per svolgere un lavoro delicato e complesso, che comporta, se svolto da docenti competenti, motivati e capaci, ricadute strategiche e sostanziali per la crescita del paese, spesso non colte dall’opinione pubblica.
La seconda parte delle interviste sarà pubblicata il 4 dicembre