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Commento al Canto IV della Divina Commedia – Inferno

Divina Commedia-Inferno

Divina Commedia-Inferno

di Francesco Abate

Il canto inizia con Dante che viene risvegliato dal sonno. Così come i suoi sensi erano stati spenti da un prodigio alla fine del canto III, un nuovo miracolo, per l’esattezza un tuono, lo riporta in sé. Il poeta si guarda intorno e si rende conto di aver passato l’Acheronte e di trovarsi sulla riva “de la valle d’abisso dolorosa / che ‘ntrono accoglie d’infiniti guai“. Tanto è fitta l’oscurità in cui si trova immerso il poeta da impedirgli di distinguere alcuna cosa. Ovviamente l’oscurità di cui ci parla Dante è la mancanza della luce divina che penetra tutto l’universo, non c’è grazia di Dio nel luogo dove lui si trova adesso. La mancanza di luce causa smarrimento, ecco intervenire  il sapiente Virgilio, che invita Dante a seguirlo, assumendo nuovamente il ruolo di guida spirituale con le parole “Io sarò primo, e tu sarai secondo“. Virgilio però è pallido, Dante pensa che ciò sia dovuto alla paura del viaggio imminente, dubita quindi nella validità di quella guida e manifesta la sua perplessità “dissi: << Come verrò, se tu paventi / che suoli al mio dubbiare esser conforto? >>“. Virgilio a questo punto lo rassicura, spiegandogli che il suo pallore non nasce dalla paura, bensì dalla pietà per le anime che patiscono le loro pene nell’Inferno, e lo esorta a non perdere più tempo. 

Dante, seguendo il suo maestro, si ritrova nel primo cerchio dell’Inferno. Qui si trova nel Limbo, il luogo dove sono puniti coloro che non conobbero la Parola di Dio perché nati prima dell’avvento del Cristianesimo, coloro che non credettero nell’avvento futuro di Cristo, e i bambini non battezzati. Essendo queste anime non colpevoli di uno specifico peccato, pagano semplicemente la mancanza di fede, non subiscono una pena fisica, semplicemente vivono in eterno nella consapevolezza di non giungere mai alla beatitudine.

Non essendo tormentati e straziati come le altre anime dell’Inferno, i dannati qui non piangono, semplicemente sospirano: “Quivi, secondo che per ascoltare, / non avea pianto mai che di sospiri / che l’aura etterna facevan tremare;“. Virgilio spiega a Dante quali anime abitano il primo cerchio, facendogli capire con l’espressione “semo perduti” che anche lui paga lì la sua pena. La consapevolezza che il suo maestro sia un’anima perduta nelle tenebre mette tristezza a l poeta, che nei suoi versi constata come “gente di molto valore / conobbi che ‘n quel limbo eran sospesi“.

Quest’ultima considerazione apre un confronto tra la ragione e la giustizia divina. Il poeta trova tra i dannati dei personaggi che egli considera valorosi, quindi Dio ha punito persone che per il metro di giudizio umano sarebbero da premiare. Vediamo quindi l’incapacità della ragione di comprendere appieno la giustizia divina, nei versi il poeta sembra quasi non capacitarsi che personaggi come Virgilio possano essere puniti, eppure è così.

Il Limbo inteso come luogo di pena eterna per le anime che non hanno vissuto nella fede in Cristo apre la strada ad una questione spinosa. I patriarchi dell’Ebraismo, come ad esempio re David, nacquero prima dell’avvento del Figlio di Dio, furono quindi destinati al Limbo? Essi sono anche patriarchi del Cristianesimo. L’ambiguità viene subito risolta da Dante che chiede al maestro se mai alcun’anima sia uscita dal Limbo. Virgilio gli spiega che, poco tempo dopo la sua discesa nel primo cerchio, vide “venire un possente, / con segno di vittoria coronato.“, si trattava di Gesù Cristo, che portò via dall’Inferno l’anima di Adamo, quella di Abele, quella di Noè, quella di Mosè, quella di Abramo, quella di re David e in generale quelle di tutti i patriarchi di Israele. Essi infatti non avevano assistito alla venuta di Cristo, però ci avevano creduto e l’avevano desiderato per millenni nel Limbo, quindi erano ormai meritevoli della beatitudine. Virgilio spiega poi che nessuno prima di loro fu mai salvato. 

I due poeti non hanno percorso ancora molta strada tra le anime del Limbo, quando Dante vede un fuoco che parzialmente vince le tenebre del luogo. Si tratta di un castello in cui vivono le anime che, pur non credendo in Cristo, si distinsero in vita nelle arti. La loro grandezza ha disposto Dio a loro favore, così che gli è stata assegnata una posizione favorevole nel Limbo stesso (“L’onorata nominanza / che di lor suona sù ne la tua vita, / grazia acquista in ciel che sì li avanza“. Queste anime accolgono tra gli elogi Virgilio. Dante vede queste anime dalla sembianza “né trista né lieta“, infatti esse non patiscono alcuna pena e allo stesso tempo non hanno speranza di vivere la grazia eterna. Virgilio indica al suo protetto queste quattro anime: Omero, Orazio, Ovidio e Lucano.

Il discorso di Virgilio col quale indica i quattro grandi della poesia si conclude con un verso che, a una lettura superficiale, può farci vedere della presunzione. “fannomi onore, e di ciò fanno bene” dice infatti la guida.

Nonostante Dante ammiri Virgilio al punto di eleggerlo come rappresentante della ragione, riesce difficile pensare che gli attribuisca una tale presunzione nella sua opera. Ritengo molto più plausibile che Dante, per bocca del suo maestro, voglia indicare come giusto il rendere onore all’arte, di cui in quel frangente Virgilio è un rappresentante. La frase assume quindi un significato più profondo e indica forse anche una speranza, Dante è infatti un poeta e si augura di ricevere gli onori dovuti alla sua arte nella propria patria.

Nei versi che seguono infatti le grandi anime della poesia, dopo aver parlato un po’, lo invitano tra loro “sì ch’io fui sesto tra cotanto senno“. I sei poeti camminano fino al castello parlando di argomenti non attinenti ai temi del poema (“cose che ‘l tacere è bello“). Per i critici il castello rappresenta la filosofia. Questo, ci dice Dante, è circondato da sette fila di mura e da un piccolo fiume. Per entrarvi il poeta deve passare sette porte. Sul significato di queste mura e queste porte i critici non sono concordi. Per alcuni le sette mura rappresentano le sette parti della filosofia (fisica, metafisica, etica, politica, economia, matematica, dialettica), mentre le sette porte indicano le sette arti liberali del trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del quadrivio (musica, aritmetica, geometria, astronomia); altri vedono nelle sette mura le quattro virtù morali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) e le tre intellettuali (intelligenza, scienza, sapienza).

Anche sulla simbologia riguardante il fiume ci sono diverse interpretazioni, Boccaccio per esempio vi vide il simbolo delle ricchezze e delle gioie materiali, che a vedersi sono invitanti ma possono portare alla perdizione. Una volta dentro al castello, Dante vede queste anime sagge il cui aspetto rappresenta l’idea stessa del sapiente (“Genti v’eran con occhi tardi e gravi, / di grande autorità ne’ lor sembianti: / parlavan rado, con voci soavi“). A questo punto il poeta ci elenca le anime che riconosce nel castello, indicando numerosi personaggi celebri nella storia e nella leggenda di Roma (a partire dai troiani), filosofi e scienziati greci, e tre importanti personaggi mussulmani (Saladino, Avicenna e Averroè).

Può incuriosire in un’opera permeata di teologia cristiana la presenza di personaggi mussulmani, ma non dobbiamo dimenticare che nel castello del Limbo vi sono grandi uomini di cultura che non conobbero la fede in Cristo. Saladino quindi è inserito tra i grandi perché fu liberale nei confronti dei cristiani, Avicenna e Averroè furono invece due grandi filosofi molto noti nel Medioevo.

Alla fine del canto, terminato l’elenco, Dante ci dice di non poter citare tutte le anime perché son troppe, il gruppo di sapienti si scioglie e lui resta di nuovo solo con Virgilio (“La sesta compagnia in due si scema“). Insieme escono dal castello e tornano tra le tenebre, riprendendo il cammino nell’Inferno.  

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