CHI HA DETTO SVIZZERA?
di Paolo Vincenti
Che incantevole paese, la Svizzera. Un paese quasi interamente ricoperto di montagne, con poche
risorse naturali ma ricchissimo, in rapporto al numero di abitanti. “Con chi confina la Svizzera?”, ci
chiedevano a scuola. E noi: “la Svizzera confina a sud con l’Italia, ad ovest con la Francia, ad est
con l’Austria e a nord con la Germania”, anzi dicevamo “con la Repubblica Federale Tedesca”, cioè
la Germania dell’ovest, perchè all’epoca la Germania era ancora divisa in due distinte nazioni, con la
Repubblica Democratica Tedesca ad est. La popolazione della Svizzera si ripartisce in quattro
gruppi etnici: tedesco, francese, italiano e ladino.
È divisa in ventisei cantoni. Procedendo da sud ovest a sud est, incontriamo: il cantone Vallese, uno
dei più estesi, con città come Sion e Briga; i cantoni di Ginevra e Vaud, dove c’è il lago di Ginevra,
con città come Ginevra e Losanna; il cantone di Friburgo, con la città omonima; il cantone di
Neuchatel, con il famoso lago di Neuchatel e la città omonima; il cantone del Giura, con capitale
Delémont; il cantone di Solothurn; il cantone di Berna, dove si trova la capitale della Svizzera, una
delle città più belle e pittoresche del paese; il canton Ticino, con il lago di Lugano e città importanti
come la stessa Lugano, Bellinzona, Locarno; il cantone di Unterwalden; il cantone di Lucerna, con
la omonima città; il cantone di Zurigo, con la città più importante e nota della Svizzera, cioè Zurigo,
e Winterthur; il cantone di Basilea città, dove è la seconda città per importanza dopo Zurigo, e
Basilea campagna; il cantone Obwald con la città di Sarnen; il cantone Nidwald con Stans; il
cantone Schwitz; il cantone di Zug; il cantiere dei Grigioni, il più esteso, con le celebri località di
Saint Moritz, Bernina, Davos; il cantone di Url, con Reuss; il cantone Glarona, con città come
Glarona; il cantone San Gallo con San Gallo; il cantone Appenzeil con la città omonima, interno ed
esterno; il cantone di Turgovia, con Frauenfeld; il cantone di Sciaffusa, con l’omonima città. Li
avete contati tutti? Sono ventisei?
Per gli italiani del nord, soprattutto i lombardi, la Svizzera è una tappa obbligata, anche per un
semplice week end, data la estrema vicinanza. Abbandonare lo smog delle città e ritemprarsi nella
fresca temperatura delle valli alpine è irrinunciabile. Pur essendo un paese altamente
industrializzato e un importante snodo finanziario, la Svizzera ci trasmette un’idea di calma e
tranquillità. Sarà per la bellezza dei suoi paesaggi, sarà per la sua proverbiale neutralità. Questa
neutralità ha permesso alla nazione di restare estranea alle guerre ed ha permesso inoltre che
diventasse meta dei rifugiati politici dalle altre nazioni europee. Le sue montagne l’hanno tenuta al
riparo dalle invasioni e il popolo svizzero si è caratterizzato come un popolo pacifico, tanto pacifico
che Aldo Giovanni e Giacomo, alcuni anni fa, ne fecero una esilarante parodia, nella trasmissione
Mai dire goal, puntando sul paradosso, con i personaggi di Rezzonico e Gervasoni, nel cantone dei
Grigioni, e del poliziotto Uber che spara agli inermi passanti che calpestano le aiuole o
parcheggiano la macchina in divieto di sosta (che ridere!).
La Svizzera per quelli della mia generazione era sinonimo di immigrazione, lavoro, cioccolate,
orologi, tutte cose collegate fra loro. L’immigrazione era quella dei nostri genitori e parenti che per
mancanza di lavoro nel Meridione d’Italia si spostavano nella confederazione elvetica dove
trovavano impiego nelle grandi fabbriche di elettronica o alimentari. Ogni famiglia salentina negli
anni Settanta e Ottanta aveva almeno un fratello, un cugino, uno zio, insomma un parente emigrato
in Svizzera. Questi lavoratori, che conoscevano la fame e le privazioni, con sacrificio lasciavano
tutto e si mettevano in viaggio; giunti in Svizzera si facevano rispettare per il senso del dovere e
l’abnegazione. Essi ripagavano con la puntualità e l’impegno il paese che gli aveva offerto una così
preziosa opportunità lavorativa. Certo, era triste lasciare la casa, il paesello, la fidanzata, i propri
affetti, per trasferirsi in una nazione straniera che non sapevano come li avrebbe accolti. Per loro,
Metternich al contrario, la Svizzera era poco più che un’espressione geografica. Si trattava di
povera gente, contadini, allevatori, piccoli artigiani, non erano mica abituati a viaggiare, non
conoscevano il mondo, il loro orizzonte fino a quel momento era stato angusto: la campagna, il
trattore, l’apecar, la gita al mare, la corriera, al massimo il treno. L’aereo (l’apparecchiu, si diceva
in dialetto) lo avevano visto solo in foto o in televisione.
La Svizzera è delimitata ad ovest e ad est dai due importanti laghi di Ginevra e di Costanza,
condiviso con la Germania. Ma esistono anche il lago di Neuchatel, il lago dei Quattro Cantoni e
nella regione prealpina il lago di Lugano e una piccola parte del Lago Maggiore. I fiumi più
importanti sono il Rodano, che nasce sul monte San Gottardo e poi entra in Francia, per sfociare nel
Mar Mediterraneo, il Reno che, nato nel cantone dei Grigioni, segna il confine con la Germania,
dove prosegue; il fiume Inn che nasce sul monte Bernina ed entra in Austria, dove confluisce nel
Danubio, e il fiume Ticino, nell’omonimo cantone, che prosegue in Italia dove si butta nel Po.
“Vincenti, qual è l’ordinamento politico della Svizzera?”, chiedeva il professore in seconda media.
“La Svizzera”, rispondevo prontamente, “è una confederazione repubblicana di stati che
mantengono ciascuno la propria autonomia amministrativa. Allo stato centrale spettano il potere
legislativo, esercitato dal Parlamento, ed il potere esecutivo, esercitato dal Consiglio Federale, cioè
il Governo, a capo del quale è il Presidente della Confederazione”. “E qual è la capitale?”. “La
capitale della Svizzera è Berna” (che mi faceva pensare ai cartoni di Flo, la piccola Robinson, che
proprio da Berna parte con la sua famiglia per il lungo viaggio alla volta dell’Australia). La difesa è
competenza dell’autorità centrale ma non si capisce che spese militari possa avere un paese come la
Svizzera. Ma se diciamo difesa, il pensiero va subito alle guardie svizzere, che noi conosciamo più
che altro come la difesa personale del Papa, ma che hanno una storia ben più articolata che sarebbe
impossibile qui sintetizzare.
Chissà lo stato d’animo con cui i nostri parenti si mettevano in viaggio, le ansie, i timori, le
speranze. Poi a Natale e d’estate tornavano a casa per le meritate ferie ed era tutta un’altra storia. Le
migliorate condizioni economiche, un senso di rivalsa e in fondo l’orgoglio di chi ce l’ha fatta ad
affrancarsi da una condizione di svantaggio, forse l’aria buona dei monti e delle valli svizzere,
conferivano loro un’espressione mista fra l’altero e il bonario, che non saprei come definire. I
salentini elveticizzati diventavano per noi spesso e volentieri oggetto di derisione, persino di
dileggio, e nella vulgata erano chiamati “svizzerotti”. Li vedevamo in giro per i nostri paesi, guidare
assorti le loro macchine di grossa cilindrata bardate con le tappezzerie più stravaganti, ci
trasmettevano la falsa percezione di persone beote (imbecilli e poco lungimiranti erano considerati
gli abitanti dell’antica Beozia nella Grecia classica), forse per quell’aria allegra sui loro volti che
non cambiava mai. In realtà, le facce apparentemente inespressive di quei campagnoli inurbati
nascondevano e dissimulavano un sentimento profondo, un misto di presunzione e risentimento:
boria, determinata dal senso di rivalsa per avercela fatta, acrimonia, nei confronti di un Paese
ingrato che non li aveva saputi trattenere offrendogli un’occasione, una nazione matrigna che li
aveva lasciati andar via.
Nei confronti di questa nazione nasceva in loro irrefrenabile una forma di
auto-razzismo: “in Italia è uno schifo, va tutto male, vergogna, dovreste imparare dalla Svizzera”.
Essi non erano affatto tardi di ingegno, al contrario, vivendo all’estero e facendo esperienza del
mondo e della gente, erano diventati più scafati di chi era rimasto qua. E tuttavia gli svizzerotti
rimanevano per noi sinonimo di kitsh, cattivo gusto, forse per via delle loro macchine rosse, gialle,
melanzana, sempre un po’ più colorate delle nostre, come le loro case, con gli immancabili nani da
giardino sul prato e le statue litiche a forma di leone o aquila a sormontare le colonne
d’ingresso. Chissà se la loro predilezione per i nani da giardino derivasse dalla passione infantile
per la favola di Biancaneve oppure da un inconscio omaggio al loro paese adottivo, dove appunto
col termine “gnomi” sono indicati i grandi banchieri i quali, proprio come i nani che nel folto dei
boschi custodiscono misteriosi tesori, sono i depositari di enormi ricchezze tenute sotto chiave nei
loro blindati istituti di credito. Le banche svizzere hanno creato la loro grande fortuna proprio
garantendo ai correntisti il segreto bancario. Ma i nani si vedono ancora oggi in molte case salentine. Esiste anche un fronte di liberazione nani da giardino, un movimento di ispirazione goliardica nato in Francia che ha lo scopo di liberare i nani da giardino dai prati delle case per portarli nei boschi, restituendoli così al loro habitat naturale, nella credenza che in cambio essi libereranno l’anima dei loro salvatori.
Oltre al potere economico delle banche, la principale ricchezza del paese è data dal turismo. La
Svizzera gode di un’organizzazione alberghiera fra le più efficienti al mondo. E se non sono
organizzati gli svizzeri …! I trasporti costituiscono uno dei punti di forza e con una freddura si
potrebbe dire che i treni e gli aerei sono puntuali come un orologio svizzero. Un paese montuoso, si
diceva, da sud a nord. Al confine meridionale con l’Italia, nelle Alpi Pennine, troviamo il Monte
Rosa (4634 metri) e il Cervino (4478 metri), il Monte San Bernardo (2469 metri), col Passo del
Gran San Bernardo, che mette in comunicazione le due nazioni, il Sempione (2005 metri) con il
relativo Passo; quindi nelle Alpi Lepontine, troviamo il monte San Gottardo (2112 metri) con il
Passo che collega le due nazioni, e il Passo dello Spluga; procedendo verso est le Alpi Retiche,
nelle quali è il Monte Bernina (4052 metri). I monti della Svizzera continuano all’interno con le
Alpi Bernesi con i monti Finsteraarhorn (4272 metri) e Jungfrau (4166 metri).
La Svizzera era per noi anche sinonimo di emmenthal e gruyère (il gruviera tanto amato da Topo
Gigio), formaggi noti in tutto il mondo. Ed era sinonimo di Lindt. Anch’io da bambino avevo
parenti che vivevano e lavoravano in Svizzera. Quando tornavano in estate mi riempivano di
cioccolate. Ero un ragazzo paffutello e quel sovrappiù di dolci non faceva bene al mio fisico già
provato da lunghe maratone dolciarie. Ma quelli erano i tempi della cioccolata e delle tv private, e
allora sotto con Cailler e Lady Oscar, Toblerone e Mazinga zeta. Tutti i paesi salentini furono
coinvolti dal fenomeno dell’emigrazione, quale più quale meno. Fra i comuni maggiormente
interessati dal fenomeno, era Taurisano, distante poche miglia da Ruffano. I taurisanesi sono stati
per decenni tutt’uno con l’emigrazione e quindi con la Svizzera, col Belgio, con la Germania.
“Taurisanese” nell’immaginario collettivo in quegli anni faceva rima con emigrante. Tutte le
caratteristiche degli svizzerotti sopra descritte erano plasticamente concentrate nel taurisanese tipo.
Lunghe basette e baffoni, occhiali affumicati, collane e bracciali d’oro al petto e ai polsi, pupazzetti
delle forme più varie appesi allo specchietto retrovisore dell’auto e cani pupazzo semoventi sul
pannello posteriore, rivestimenti del cambio, del volante e dell’intero cruscotto in velluto o lana
merinos, tendine parasole con disegni di tigri, leoni, serpenti o donne seminude, finestrini
rigorosamente abbassati anche a gennaio, volume dello stereo a palla, abiti dai colori sgargianti,
corredo di nani portafortuna e amuleti scacciaiella. Il tipo umano testé descritto incarnava
perfettamente quella che oggi chiameremmo tamarreide (il tamarro in dialetto salentino è mazzaro o
nzallo), ma ai tempi era solo svizzerottaggine o al massimo (o al minimo), taurisanesità. Il maranza
o zarro, come dicono a Milano, con la camicia aperta sul petto, le scarpe col tacco alto e la sua
vistosa chincaglieria, era entrato nel costume di quegli anni, era divenuto per noi un incontro
abituale ma non per questo immune dal sarcasmo. I fendenti indirizzati agli svizzerotti dall’ironia
popolare, se da parte dei ragazzi erano armi spuntate, nelle mani degli adulti potevano diventare
armi al calor bianco, letali, specie nelle liti famigliari se si trattava di questioni di interessi
economici o di eredità. Quando scompariva un genitore e si apriva il testamento, erano dolori. Da
parte dei congiunti salentini non si tollerava che il de cuius avesse stabilito parità di trattamento con
i famigliari emigrati in Svizzera per cui spesso si impugnavano le volontà testamentarie o si
impugnavano i coltelli: “comu, nui ne l’imu sucatu tutta la vita, ha tuccatu cu llu ssistimu finu
all’urtimu e ui addhu stivive? Cciti fattu ui pe llu tata? Mo ve ne viniti cazzu cazzu e uliti cu
spartimu a metà? Enno! Viti fatti fiacchi i cunti, beddhi mei!”. Spesso, le faide famigliari si
protraevano per tutta la vita per cui gli svizzerotti, una volta tornati nel Salento per godersi la
pensione, stabilitisi nella casa che negli anni si erano costruita, trascorrevano quel torno di tempo
fra il malanimo e il rancore, senza rivolgere la parola ai parenti con cui erano in lite. Che tristezza, a
pensarci bene. Decontestualizzati nel paese dopo decenni di trasferta estera, come pesci fuor
d’acqua, senza i vecchi amici ormai andati, i figli restati in Svizzera e per giunta in lite coi parenti più prossimi. Ancor peggio se le case erano confinanti.
E via ad alzare muri e barriere che potessero impedire anche la vista dell’inviso parentame.
Gli svizzeri salentini venivano a sapere della dipartita
dei loro odiati dai manifesti funebri o da qualche amico comune ma non osavano presentarsi a casa
dello scomparso o della scomparsa nemmeno per l’ultimo saluto. Neppure la morte poteva
comporre la lite, nel finto stupore dei compaesani i quali non aspettavano altro che far pettegolezzo
e scambiare due chiacchiere malevole con i compari convenuti al funerale: “ma u frate (o a soru)
nunn’è binutu allu mortu? None, stiane mari. Naa, e comu ete? Erane fattu parole pe ll’eredità”.
Passati molti anni dacché erano esulati, alternavano nel parlato tedesco e italiano, francese e dialetto
salentino, e questa commistione creava un curioso effetto nell’ascoltatore. Transfughi e “civilizzati”,
ma pur sempre ruffanesi o casaranesi o tugliesi. Insomma, si è capito, da ragazzo ero affascinato
dagli svizzeri salentini, colpito dal loro diverso modo di atteggiarsi rispetto alla gente del posto e
anche dall’atmosfera dell’Elvetia, che di riflesso respiravamo noi salentini. Poi sono passati gli anni
ed oggi di svizzerotti non si sente quasi più parlare.
Paolo Vincenti