Cesare Pavese. Chi furono i suoi nemici? Italo Calvino lo criticò in vita. In morte…
di Pierfranco Bruni
Cesare Pavese. Uno scrittore che seppe vedere lontano sia in termini letterari che filosofici. Proprio per questo non fu amato all’interno del suo ambiente. Sopportò sottili avversione ma no fece mai alcun problema.
Chi furono realmente i veri amici di Cesare Pavese? Chi furono, invece, i nemici mascherati di amici? I veri “nemici” o “avversari” Pavese li aveva proprio all’interno della sua casa editrice. Einaudi. Tra questi Calvino. Italo Calvino non fu mai amico di Cesare Pavese. Pavese che è stato il suo maestro e il maestro di molti scrittori che, invece, sono sempre stati “infedeli”. Sì, perché la fedeltà è un valore ma anche un confronto e mai uno scontro o una ripicca. Non gli è stato amico Calvino, non gli è stato amica, quella che Pavese considerava affidabile, Natalie Ginzburg, non gli è stato amico Ernesto De Martino. Ma mentre quest’ultimo si opponeva a Cesare con delle motivazioni ideologiche, ostacolandolo nelle scelte per la Collana che dirigevano insieme (si pensi al contrasto per la pubblicazione dei testi di Mircea Eliade, uno dei più innovatori studiosi di religiosità antiche e di antropologie comparate), Calvino e la Ginzburg erano stati colpiti dall’invidia. Della Ginzburg va ricordata anche la polemica con Diego Fabbri ai tempi della rappresentazione teatrale de “Il vizio assurdo” con Luigi Vannucchi.
Calvino fu, chiaramente, l’uomo che più di tutti invidiò Pavese. Tanto che lo apostrofò, commentando “Lavorare stanca” come un “ragazzo nel mondo degli adulti, senza mestiere nel mondo di chi lavora, senza donna nel mondo dell’amore e delle famiglie, senza armi nel mondo delle lotte politiche cruente e dei doveri civili”.
Sullo stesso tenore sono alcune sottolineature di Natalie Ginzburg quando in “Ritratto d’un amico”, in “Le piccole virtù”, sottolinea: “Il nostro amico viveva nella città come un adolescente: e fino all’ultimo visse così. Le sue giornate erano, come quelle degli adolescenti, lunghissime, e piene di tempo: sapeva trovare spazio per studiare e per scrivere, per guadagnarsi la vita e oziare sulle strade che amava: e noi che annaspavamo combattuti tra pigrizia e operosità, perdevamo le ore nell’incertezza di decidere se eravamo pigri o operosi. Non volle, per molti anni, sottomettersi a un lavoro d’ufficio, accettare una professione definita; ma quando acconsentì a sedere a un tavolo d’ufficio, divenne un impiegato meticoloso e un lavoratore infaticabile, pur serbandosi un ampio margine d’ozio; consumava i suoi pasti velocissimo, mangiava poco e non dormiva mai.”
Entrambi, Calvino e Ginzburg, provengono da una stessa formazione non solo ideologica, ma anche letteraria che non sono mai riusciti a penetrare il tessuto mitico – simbolico delle opera di Pavese. Il loro realismo iniziale, soprattutto in Calvino, contrastava con la griglia mito-achetipo-simbolo di Pavese.
De Martino, invece, aveva capito troppo e si contrapponeva adducendo motivazioni scientifiche. Infatti è una disputa su questioni prettamente “antropologiche”. Pavese è stato sempre uno scrittore che ha attraversato il mito per toccare le corde di una dimensione simbolica e di archetipi che superano il realismo o il documento. De Martino si poneva la visione del mito come una fatto folcloristico al contrario di Pavese che legge nel mito, appunto, un vissuto metafisico e di antropologia dell’umanesimo.
Calvino ha giocato con il concetto di leggerezza proprio per giustificare la “pesantezza” di Pavese e discutendo di leggerezza ha cercato di porre all’attenzione una letteratura che va oltre il senso dell’ontologico e del tragico. Infatti non c’è letteratura mediocremente leggera di quella di Calvino. Negli ultimi anni si rende conto egli stesso di ciò e va verso “Se un viaggiatore…” o “Palomar”. Ovvero una letteratura tra la favola e la fabula.
Pavese, consapevole della mediocrità di Calvino, gli sottolinea in una lettera del 1949 delle osservazioni dure. Era stato pubblicato il romanzo “Tra donne sole” e Calvino lo recensisce, con supponenza, negativamente, non capendo il valore estetico del romanzo. Pavese gli scrive:
“Caro Italo, non mi dispiace che ‘Tra donne sole’ non ti piaccia. Le ragioni che ne dai sono la trascrizione fiabesca di un tema letterario; un abbozzo di novella di Italo Calvino. Cavallinità e peni di faggio sono pura e bella invenzione… Applichi due schemi, come due occhiali, al libro e ne cavi impressioni discordanti che non ti curi di comporre…”.
Molto vere e molto precise le indicazioni di Pavese. Conosceva molto bene Calvino e sapeva il suo peso letterario. Aggiunge ancora: “Ma tu – scoiattolo della penna – calcifichi l’organismo componendolo in fiaba e in trance de vie. Vergogna”. Si tratta di una lettera datata: Torino, 29 luglio 1949.
Credo che sia una testimonianza di una importanza notevole per comprendere il clima che si respirava intorno a Cesare Pavese. Uno scrittore chiave di una letteratura che segue il pellegrinaggio di un linguaggio confessione. Uno scrittore unico e profetico che ha dato “poesia agli uomini” con eleganza, stile e un sicuro riferimento di una inquietudine che ha rappresentato la grande letteratura del Novecento nel tragico del vivere.
Dopo Gabriele D’Annunzio, Pavese chiude il viaggio del tragico e della scrittura. Un anno dopo la lettera a Calvino Pavese si suicida. Ma quel “Vergogna”, termine puntuale, rivolto a Calvino da Pavese resta uno scavo potente nella vita della letteratura.
Pavese venne avversato? Perché? Qui l’interrogativo si risolve nella grande capacità di intuizione con la quale catturava subito i nuovi percorsi editoriali e culturali. Aspetto che distanziava tutti gli altri dal leggere i tempi che cambiavano. È chiaro che Pavese come scrittore era un profondo innovatore soprattutto nel legare letteratura e antropologia. I suoi studi su Nietzsche sono una pietra angolare di ciò che scrisse nel suo Diario. Questo potrebbe essere un solo elemento oltre alle naturali invidie umane e ad impostazioni di ordine ideologico alle quali Pavese non ha mai creduto.