Carri, chiacchiere e Titori. Il Carnevale di Gallipoli
di Maurizio Nocera
Libro bello già nella copertina – Giuseppe Albahari, Carri, Chiacchiere E Titori. L’antico Carnevale Di Gallipoli (Edizioni Puglia&Mare, Editrice Salentina, Galatina 2022) – dove l’immagine riguarda un Particolare del Gruppo mascherato dell’I. I. S. S. “E. Giannelli” di Parabita. In quarta di copertina, invece, l’immagine riguarda il gruppo degli Sbandieratori del “Rione Lama” di Oria (Brindisi). Hanno sostenuto il libro il Comune di Gallipoli, l’Azienda “Nicolò Coppola”, lo Studio Tecnico “De Marini”, Parco “Gondar”, Pro Loco, tutti sponsor di Gallipoli, più «La Gazzetta del Mezzogiorno» e Mediamorfosi.
Il sindaco di Gallipoli, Stefano Minerva, introduce i testi con uno suo – La nostra storia… -, in cui afferma:
«Nell’inquantificabile insieme che Gallipoli rappresenta, tra gli aspetti più cari della vita quotidiana, tra gli appuntamenti immancabili di ogni gallipolino, il Carnevale, senza ombra di dubbio, è uno degli elementi più rappresentativi./ Parte integrante e dell’infanzia e dell’adolescenza di ogni cittadino, il Carnevale gallipolino ha saputo nel tempo stupire, incantare, divertire, emozionare. […] Gallipoli deve la fortuna del suo Carnevale ai maestri cartapestai, agli storici artisti, alle nuove leve, a quel sentimento intenso di tradizione nel tempo, alla lungimiranza di chi ha saputo investire su di esso. […] il libro rappresenta una fondamentale testimonianza e valorosa memoria delle nostre radici artistiche e cittadine, delle persone che hanno costruito nei decenni una vera e propria fortezza di cartapesta: sono diversi i nomi che Gallipoli vanta sul tema, ognuno fondamentale e imprescindibile./ E se oggi questa narrazione è possibile è perché Giuseppe Albahari, memoria fedele della nostra città e narratore preciso della nostra identità, ha dedicato tempo e cura per restituire a noi tutti una parte della storia la nostra».
Nella prefazione, la giornalista Gloria Indennitate, scrive che:
«Queste pagine sull’antico Carnevale ricordano, oltre ai carri, alle chiacchiere e ai Titori, la tradizione delle focareddhe e di ciò che ruotava loro intorno. E va salvaguardata la tradizione di Titoru, una storia organica al rito carnascialesco. […] L’autore ha messo in campo un minuzioso lavoro di ricerca e identificazione che lo ha impegnato per lungo tempo. Il risultato è stato quello di arricchire il libro con le immagini non solo di quasi tutti i carri vincitori delle diverse edizioni che si sono svolte – dal 1954 ai giorni nostri – ma anche di decine e decine di opere che hanno sfilato sull’epico corso Roma./ Sono tanti gli argomenti articolati nella narrazioni […] Ora Gallipoli dispone di questi racconti. Si sarebbe altrimenti rischiato la perdita di una memoria collettiva che non è solo l’unione di tante memorie personali, ma il tessuto connettivo di tante piccole storie che rendono vitale la propria piccola patria».
Ed ora il Racconto sul Carnevale gallipolino. Autore: Giuseppe Albahari.
Che dire di Giuseppe? Come si diceva un tempo: le carte parlano o per meglio dire oggi: anche internet parla. Basta un clic per sapere tanto.
«Giuseppe Gioacchino Albahari [… oltre ad essere stato un geometra attivo presso le strutture ASL di Gallipoli] è un pubblicista iscritto all’Albo pugliese dal 1982. È direttore della rivista “Puglia&Mare” e dal 1979 collabora con il quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”. […] È stato redattore della rivista “Terra d’Otranto”; redattore del “Notiziario” della Usl di Gallipoli; direttore della rivista “L’uomo e il mare”; collaboratore di testate, da “18° Meridiano” a “La Prua” ad “Espresso Sud”, di fogli locali come “Plancton” e di riviste nazionali come “Italia sul mare” (Editore Seti, Roma). […] Animatore di sodalizi, iniziative culturali e gruppi teatrali». Fotografo e tanto altro. Lungo l’elenco delle sue pubblicazioni. Non le cito perché, chi volesse conoscerle, gli basterebbe fare nuovamente un clic su internet per avere sufficiente soddisfazione.
Ma qui al sottoscritto interessa il Racconto del Carnevale gallipolino. Albahari lo ha diviso in due parti (Prima parte, il Racconto per Testi, capp. I-X; Seconda, per Immagini). Aggiungo che il Racconto per testi è agile, scritto con una verve comprensibile a chiunque (d’altronde non poteva essere diversamente, visto che l’autore tiene in mano la penna da più di 50 anni e che la grammatica, quella ortografica e quella lessicale, la conosce molto bene), piacevole, snello, coinvolgente, appassionante come solo un gallipolino verace sa dire e fare. Per non farla lunga, aggiungo che per me (ho letto il testo un paio di volte e ancora lo leggerò perché è bello imprimerlo nella mente come una storia così straordinariamente avvincente come il Carnevale della nostra Città). Mi permetto solo (e chiedo venia per ciò) di riprendere l’incipit ai testi, che a p. 3 sono introdotti da un’immagine di un grande falò. Albahari scrive:
«La descrizione del falò che introduce questa narrazione può ben rappresentare la continuità tra due modi radicalmente diversi di vivere il Carnevale che si sono susseguiti in un brevissimo lasso di tempo. Fino agli anni ’50 del secolo scorso, il Carnevale era una festa popolare che animava la città vecchia nel fine settimana e nei giorni “grassi” della volata verso una Quaresima vissuta con forte spirito penitenziale./ È questa la festa testimoniata [… Dopo essa diventa] una festa che ha mitigato la baldoria ed il sovvertimento sociale che le erano propri, delegati invece a gruppi organizzati e artigiani. Questi ultimi […] hanno saputo inventarsi un’arte della cartapesta povera che è diventata tradizione [“carri allegorico-grotteschi]./ I quali a livello locale non avevano antenati, se non i carretti dei “Titori”, che comparivano nelle strade del Centro storio l’ultimo giorno del carnevale. […] La complessa trasformazione del carnevale gallipolino – da fenomeno socio-culturale spontaneo a performance confinata e professionalizzata – ha riguardato, anche le focareddhe diventate nel recente passato un unico falò, ma quel fuoco sacro e profano insieme, unitamente alle mascherate dei più piccoli e allo stupore vivo nei loro occhi, è il riverbero d’un’antica memoria» (p. 4).
E di qui poi, l’autore, che è sempre Giuseppe Albahari, comincia a descrivere, nel profondo e con ampio spazio di vedute, «Il carnevale, la festa mobile; Tra sacro e profano; Le focareddhe; Malampu in via Ribera; La festa impazza; Lu Titoru; Il carnevale in antichi versi; Un antico carnevale marinaro?; La pentolaccia; L’eros sottinteso». Ci sarebbe tanto da dire su ognuno di questi paragrafi, ma mi soffermo solo sul Titoru, per me è una maschera affascinante nonostante la tragedia del personaggio. Scrive Albahari che
«L’ultimo giorno di carnevale, il martedì grasso, per le strade cittadine circolava lu Titoru, farsesca celebrazione del funerale del Carnevale. […] In un tempo lontano, una madre attendeva il figlio Teodoro, che si trovava in guerra e che aveva trovato il modo per comunicarle che sarebbe ritornato a casa l’ultimo giorno di carnevale, che allora si concludeva la domenica. La madre cominciò per tempo i preparativi, che erano ovviamente di natura gastronomica, con specialità a base di carne, tra cui salsiccia e polpette. Ma la domenica trascorse senza che Teodoro bussasse alla sua porta. Lei sentiva […] che il figlio sarebbe tornato e tanto pregò, che il Padreterno le concesse una proroga di due giorni all’inizio del periodo quaresimale».
Dopo questo primo passo, l’autore, che è sempre il nostro Giuseppe Albahati, ci dice quali siano stati i percorsi testimoniali di questa maschera, quelli cioè di un intreccio di Teodoro di sua madre con la religione ovviamente cattolica. Tant’è che scrive:
«Che nella storia di Titoru (dialetto gallipolino) sia predominante il significato religioso lo rimarca anche la mamma di Teodoro, Caremma. Si vuole, infatti, che sia la storpiatura di “Quaresima” e a Gallipoli, e non solo, indica anche il fantoccio in gramaglia appeso ai crocicchi delle strade dopo la fine del carnevale. La Caremma era una sorta di memento, ma anche di calendario quaresimale. Questo perché ai suoi piedi era appesa un’arancia su cui erano infissi sette penne di cappone. Sottratte ad una ad una, domenica dopo domenica, evidenziano il lento trascorrere del tempo fino al festoso scampanio pasquale. Le mascherate, ispirate alla tragica fine di Titoru ne rappresentano il funerale, ma spesso precedute dalla ricostruzione degli ultimi istanti di vita. Può così succedere che il “defunto” deposto su di un carretto, spesso munito di un baldacchino ornato di collane di salsicce e talvolta trainato da un asino, si abbuffi di polpette di carne alternandole a frequenti bevute di vino rosso. Quando, infine, immobile, simula la dipartita, pianti, convulsioni, urla della vedova e delle prefiche – rigorosamente uomini nel più tradizionale dei travestimenti – fanno da sfondo alla benedizione della salma da parte di un improbabile sacerdote con aiutante al seguito. Quando la “rappresentazione” termina si ricomincia: polpette, vino, dipartita e così via, perché nel frattempo il carro funebre ha proseguito nella sfilata e la sceneggiatura prevede una replica a beneficio di nuovi spettatori».
Ecco, questa è la vera storia della maschera gallipolina più strepitosa. Albahari conclude scrivendo che:
«il Titotu è l’espressione di un’antica consuetudine popolare data dal fatto che il declino dell’originario carnevale spontaneo verificatosi nei primi anni ’50 del secolo scorso».
Il cap. II del libro s’intitola Il carnevale in bianco e nero: 1954/1973. Si fa qui la storia di 20 anni di carnevale, durante il quale, a partire dal 1954, «il bando prevedeva dei premi in denaro solo per i primi tre cartapestai in classifica. […] Nacque così quello che, tra morti e rinascite, come novella fenice, è il “Carnevale di Gallipoli». Così che, in questo capitolo, Albahari spiega quelli che sono stati gli aspetti fondanti il nostro Carnevale: la Tecnica dei nostri cartapestai, i Movimenti delle macchine nei carri, la Musica & C., i Culacchi, i Capannoni, I primi Corsi mascherati.
Il cap. III s’intitola Il primo carnevale… a colori… 1979/2011. Inizia con una bella storia intorno ad una specie di don Abbondio gallipolino, papa Armando Manno, il quale fonda un “Comitato di quartiere” raccogliendo attorno a sé un gruppo di suoi parrocchiani audaci e volenterosi, che sono: Augusto Benemeglio, Alberto Liaci, Luigi Schirosi, Elio Crispino, Carlo Falcicchio ed altri. Papa Manno e il “Comitato di quartiere” organizzarono una sfilata di mascherine (prevalentemente ragazzi) nel 1976. Sfilata che ebbe successo, tanto che nel 1978 sfilarono ben 280 ragazzi. Patrocinatore spirituale di queste sfilate di mascherine fu il mitico Uccio Piro. Scrivo mitico perché effettivamente Uccio Piro è stato il deu ex machine di tante feste pubbliche nella città governata allora dall’altro mitico sindaco Mario Foscarini. È questo un capitolo di personaggi illustri della nostra Città. Albahari di nomi ne fa tanti, io però qui rischio di dimenticare qualcuno. Tuttavia m’arrischio e cito gli illustri così come l’autore li cita seguendo il suo percorso carnevalesco: Fernando Cartenì col suo Circolo culturale giovanile, Francesco Fontò con la sua Associazione, i cartapestai Nino Prete, Uccio Scarpina, Giorgino Ferilli, Coraldo Perruccio. E a seguire: Gino Cuppone (mitica voce delle sfilate), Uccio Giungato, Enzo Benvenga e lo stesso Giuseppe Albahari. Anche in questo caso, l’autore riflette su alcuni momenti del carnevale: Carnevale esitivo sul mare, Un lustro difficile, Il Carnevale dell’Arco Jonico, Il coinvolgimento del Premio Barocco. Infine le Sfilate, una per una e anno dopo anno. Il 2012 il Carnevale di Gallipoli ebbe uno stop a causa di problemi finanziari.
Il cap. IV s’intitola I carnevali d’oggi: 2013/ 2020 e l’autore chiarisce quelle che sono state e come sono state le sfilate di quegli anni.
Il cap. V s’intitola I cartapestai: antesignani e prosecutori: Sono questi i veri interpreti del carnevale gallipolino di oggi e fa bene Giuseppe Albahari a scrivere che
«in tutte le edizioni del carnevale cittadino, dagli anzidetti tempi eroici fino agli attuali, i carri sono stati sempre il frutto di lavoro di gruppo, talvolta espressione della collaborazione di amici forti di curiosità e goliardia, che mettevano insieme le proprie conoscenze, manualità ed estri, talaltra riuniti in associazioni e sotto sigle aziendali o dopolavoristiche». La bellezza del libro a questo punto sta nel fatto che l’autore li cita mettendoli in ordine di apparizione: Salvatore Benvenga, Aldino De Vittorio, Fratelli Esposito, Giorgino Ferilli, Ugo Leone, Coraldo Perruccio, Antonio Pisanello, Antonio Pisanello (Taviano), Egidio Presicce, Nino Prete, Ulrico Rizzo, Uccio Scarpina, Lelio Sciuscio, Liborio Scorrano, Fausto Solidoro, Giorgio e Totò Bentivoglio, Mario Carrozza, Salvatore e Stefano Coppola, Uccio Greco & C:, Umberto Guaetta, Franco Monterosso, Giovanni Pacciolla, Cosimo Perrone, Davide Scarpina, Luciano Sebaste, Vincenzo Vincenti, Fideliter Sxcubat (coordinatore Maestro Roberto Perrone), I Ragazzi di Via Malinconico col loro presidente Alberto Greco.
Il cap. VI s’intitola Maschere, volti e voci del carnevale. Anche in questo capitolo la piacevole lettura ci porta a sorprenderci della capacità del popolo gallipolino di esprimere il meglio di quei cittadini che nel passato come nel presente hanno dato e danno generosamente il loro contributo al nostro Carnevale. Albahari fa bene a citarli: Cosimo Cazzella detto Cazzellicchiu; Alberto Greco alias Vata Barba; Oliviero Cataldini (mitico favolista e storico della Bella Città); Eraldo Cerasuolo; Cicci Cortese; Gino Cuppone; Maurizio Morlando; Gigi Tricarico.
Il cap. VII s’intitola Non solo cartapesta. Si tratta del capitolo in cui l’autore descrive i contorni del Carnevale di Gallipoli. E scrive di Mostre e cartoline; di Gruppi mascherati; del Torneo del Carnevale; dei Simboli e Trofei; del famoso Inno del Carnevale di Gallipoli; della Festa della cartapesta; delle Maschere.
Il cap. VIII s’intitola Il carnevale, tra passato e futuro. Come ogni evento del calibro del Carnevale gallipolino è ovvio che ci deve essere un’organizzazione che magari non si vede a cielo aperto, come, ad es., si vede lu Titoru, tuttavia Giuseppe Albahari (he tanta parte è della storia e dell’evento vero e proprio) la conosce abbastanza bene, dato che egli ci sta dentro. È così che egli ci descrive i meccanismi che stanno dentro l’organizzazione: il Consorzio; la Federazione Europea dei carnevali dentro la quale ci sta il nostro; la Fondazione, la Lotteria Nazionale, la Rete dei Carnevali, la maschere pugliesi (l’autore ne cita nove: «Farinella di Putignano, Cibergallo e Lu Pagghiuse di Massafra, Ze Peppe di Manfredonia, U Monache Cercande di Foggia, Lu Titoru di Gallipoli, Lu Schiacuddhuzzi di Aradeo, U Panzone di Corato, Don Pancrazio Cucuzziello di Bisceglie, Lu Paulino di Martignano». Peccato di qualche dimenticanza – ma di ciò non è colpa di Albahari – le due più prestigiose maschere del Salento: Papa Galeazzo di Lucugnano, e il “nostro” Malladrone nella chiesa di San Francesco).
Il cap. IX s’intitola Coriandoli, dolci & ricette. E qui c’è da scegliere. l’autore ci mette a tavola i Coriandoli, i dolci della tradizioni, le Pietanze che, com’è ovvio, fondamentali sono le salcicce e le polpette di carne, visto la tragedia de lu Titoru.
Il cap. X s’intitola 2022: That’s Amore, che è l’ALBO D’ORO dei cartapestai vincitori delle sfilate del Carnevale di Gallipoli. Si tratta dell’elenco dei Maestri cartapestai che fa onore e gloria alla nostra Città. Dei molti ringraziamenti che l’autore fa non aggiungo alcunché, basta andare a leggerli, così come della bibliografia e dell’elenco delle pubblicazioni dello stesso Giuseppe Albahari
La seconda parte del libro è una bellezza per gli occhi di chi sfoglia quelle pagine. Si tratta di un apparato iconografico straordinario e strabiliante.
Concludo con una citazione che mi sembra star bene al libro di Albahari. È del grande scrittore francese Roland Auguet che, nel suo libro Feste e Spettacoli Popolari (Rizzoli 1974) scrive:
«Il carnevale tende a mescolare, in un delirio illimitato, la parodia, il gioco, il mascheramento, la frenesia, lo spettacolo e baldoria sfrenata. Il carnevale è festa popolare per eccellenza. […] Il carnevale fu, all’origine, un pupazzone multicolore, una sorta di colosso panciuto, a volte ricoperto di un’armatura, oppure un nano grottesco, un simulacro fatto di scorza o di paglia, comunque un personaggio dai risvolti inquietanti oltre che comici, che veniva portato in corteo per le strade del villaggio» (p. 57).