Carnevale Barocco alla Corte di Lecce
Di Maria Gabriella de Judicibus
Premessa
Queste brevi note non rivestono, volutamente, carattere esaustivo. Costituiscono solo l’avvio di uno studio storico e socio-culturale che deve essere arricchito dall’apporto di ciascun salentino verace, affamato di ricerca nell’ambito delle tradizioni popolari di questo splendido e antichissimo nostro territorio.
Quando mi occupavo di giornalismo, curai un servizio per una nota testata locale, formato da diversi articoli su “I paesi del Carnevale”, un articolo per ogni paese. Scoprii meravigliose e inedite usanze che, oggi, non solo non esistono più ma, addirittura, non sono neanche ricordate dalla gente del posto. Come docente di Letteratura italiana e Storia e come presidente della pro loco cittadina del comune di Lecce, non potevo non cogliere questa preziosa occasione offerta dal progetto “ Carnevale Barocco alla Corte di Lecce” per proporre una ricerca che, attraverso i bagliori di una festa scherzosa, colorata e amata da tutti qual è il carnevale, affonda le mani nella ricchezza di un patrimonio culturale immenso, sconosciuto ai più, meritevole di essere riportato alla luce nella sua autenticità, al fine di ridare qualità non solo all’accoglienza riservata all’ospite ma anche alla nostra stessa vita in questo contesto territoriale.
I Saturnalia
Non tutti sanno ( specialmente i più giovani) che il Carnevale è una festività molto antica e legata profondamente alle radici agricole del nostro territorio.
Anticamente febbraio, infatti, era il mese dei cosiddetti riti di purificazione, tenuti in onore del dio etrusco Februus e della dea romana Febris, nomi che rammentano l’etimo del verbo latino februare che significa proprio “purificare” e che si collegano con la necessità di ingraziarsi i defunti al termine dei lavori nei campi, dopo la vendemmia e la raccolta delle olive, prima del momento in cui la madre terra deve riposare per prepararsi al passaggio dall’inverno alla primavera.
Durante il periodo denominato attualmente del Carnevale, quindi, nell’antica Roma si celebrava la fertilità della terra attraverso feste dedicate agli dei agresti come i Saturnalia dedicati al dio Saturno o le Dionisie greche, in onore del dio Dioniso ( Bacco per i latini), dio del vino e dell’ebbrezza. Le feste saturnalierano inserite, infatti, in un contesto più ampio di festeggiamenti detti Brumalia dedicati anche alla dea Cerere ( Demetra) dea del grano e del pane, propiziatrice del buon raccolto. Le “baccanti” erano fanciulle discinte, con il capo adorno da spighe di grano e tralci di vite che danzavano fino a stordirsi e diventavano licenziose nello stordimento del vino: Semel in anno licet insanire , dicevano i padri latini, con una frase che ben si adatta anche al Carnevale moderno, ovvero Una sola volta all’anno è lecito darsi alla follia!
Poiché Saturno era l’antico dio dell’età dell’oro, in cui tutti vivevano felici ed uguali godendo di ogni prelibatezza che la terra copiosamente donava ai suoi figli, durante i Saturnalia, si onorava Saturno con banchetti e balli offerti dai più ricchi e potenti che acconsentivano, durante la festa, al sovvertimento dell’ordine sociale e delle gerarchie, accettando di azzerare le differenze sociali, mescolando razze e religioni, in chiave scherzosa e dissoluta. Così la plebe più miserevole poteva trasformarsi per una volta in ciò che desiderava essere, e servitori e schiavi potevano sentirsi uomini liberi ed eleggere un proprio Princeps , con pieni poteri, facendo la caricatura della classe dominante. Travestito con costumi adatti econ il volto coperto da una maschera, egli poteva impersonare una divinità degli inferi , Saturno o Plutone, preposta alla custodia delle anime dei defunti e protettrice dei raccolti. Era opinione comune, infatti, che queste divinità vagassero sulla terra per tutto il periodo invernale, ovvero quando la terra era a riposo, e che i riti e le offerte servissero a farle tornare nell’oltretomba, favorendo così il raccolto della stagione estiva. Finito il periodo di festa, l’ordine veniva ristabilito.
I festeggiamenti maggiori del Carnevale moderno, avvengono il Giovedì ed il Martedì, giorni definiti “grassi”, in quanto sono l’ultimo giovedì e l’ultimo martedì prima della Quaresima, periodo in cui bisogna fare penitenza ed eliminare ogni cibo succulento dalle tavole imbandite.
Carnem Levare
Una costante del carnevale, infatti, è proprio la penitenza che segue alla sfrenatezza della festa; è questo il significato più profondo del carnem levare e cioè fare a meno della carne nel periodo della Quaresima. Importante corredo delle feste carnevalesche fin dall’antichità era ed è, ancora oggi, la maschera.
La maschera, d’altronde, era legata alla tradizione teatrale comica e tragica dell’antichità. Utilizzata fin dalla preistoria per rituali religiosi, la parola sembra di origine preindoeuropea, da masca «fuliggine, fantasma nero», non lontano dal significato attribuito al termine dal latino tardo e medioevale màsca,“strega”(significatoin cui è attestato nell’editto di Rotari: «strigam, quod est Masca»), tuttora utilizzato in tal senso nella lingua piemontese ma anche nel dialetto salentino mascia.
Si trova traccia dell’origine del termine nell’antico alto tedesco (leggi longobarde) e nel provenzale masc, “stregone”. Dal significato originale si giunge successivamente a quello di “fantasma”, “larva”, aspetto camuffato per incutere paura. L’evoluzione linguistica portò probabilmente all’aggiunta di una ‘r’ facendo assumere al termine la forma dapprima di mascra e successivamente di mascara. E’ interessante anche la derivazione dell’etimo dalla locuzione araba maschara o mascharat, “buffonata”, “burla”, derivante dal verbo sachira, “deridere”, “burlare”, importata nel linguaggio medievale dalle crociate. Tuttavia tale vocabolo è già presente in alcuni testi anteriori alle crociate. Il Dizionario etimologico italiano di Carlo Battisti e Giovanni Alessio lo riconduce al termine baska da cui abbiamo il verbo francese rabacher nel senso di “fare fracasso”. In un modo o nell’altro, la maschera è una falsa identità, sia essa utilizzata per incutere paura o per divertire.
Virgilio descrive le maschere indossate in onore di Bacco, in un clima celebrativo gioioso e spensierato, come “ora horrenda” e la relazione fra maschera e morte si accentua nell’ambito dei culti misterici romani ed ellenici. La maschera di Sileno, ad esempio, diviene uno dei simboli per eccellenza della morte iniziatica (cfr. affreschi della Villa dei Misteri a Pompei); all’interno del contesto greco-romano possiamo così ritrovare l’interrelazione fra sacro e profano, attuata per mezzo dell’uso teatrale della maschera. Nel Salento e, in genere, nell’area meridionale, sono antichissime e molto note le cosiddette maschere con funzione apotropaica (dal greco αποτρέπειν, apotrépein = “allontanare”) atta ad allontanare gli influssi maligni. Spesso usate come elemento decorativo, si possono trovare sui portali in tufo o granito delle abitazioni, sui portoni principali a fare da battente e sulle fontanelle d’acqua sorgente. Specialmente quelle con le corna lunghe, la bocca aperta e la lingua di fuori nella tradizione popolare sono efficacissimi amuleti contro gli invidiosi, in grado di spaventare gli spiriti del male e di provocarne la fuga.
Le maschere salentine
Maschere tipiche della tradizione salentina sono Tidoru e Paolinu, ma soprattutto sciacuddhi masci e caremme.
Lu sciacuddhri è la maschera tipica del Carnevale Aradeino e rappresenta un famoso spiritello alto un palmo e mezzo con tanto di ventre e di cappello largo e “pizzuto” che nella fantasia popolare aradeina, la notte si accoccola sul petto degli uomini e delle donne prese di mira. Un folletto che è chiamato con nomi diversi a seconda delle zone nel nostro Salento (uru, scazzamurrieddhu, lauru, laurieddhu, municeddhu,ecc.). Cicinella, personaggio lesto e scaltro, è la figura simbolo del Carnevale di Cursi. Il suo fantoccio dà inizio aifesteggiamenti e sempre a lui, è dedicata la lunga sfilata di carri e maschere.
Mielina è la maschera tipica della festa di Melendugno, Paolinu ( per Copertino e Lecce) e Tidoru o Titoru ( per Gallipoli) sono poveri popolani vestiti di stracci ma arguti, spiritosi e assidui frequentatori di osterie. Si racconta che morirono il giorno di Carnevale a causa di una indigestione dovuta ad una abbuffata dopo diversi giorni di fame. A Lecce si celebrava il processo, la condanna a morte per bruciamento e /o il funerale con pianti e lamenti da parte delle mascie , donne vestite di nero, in parodia delle cosiddette prefiche, pagate per piangere ai funerali come nella tradizione salentina.
Carnevale nel Medio Evo
Alla caduta dell’Impero romano, nel periodo di passaggio tra mondo antico e mondo moderno, il Carnevale ebbe alterne vicende: il periodo consacrato alle feste ed alla goliardia venne spostato da dicembre a febbraio, in modo che la Chiesa potesse collegarli con la Quaresima (i quaranta giorni che precedono la Pasqua). Il clero, infatti, riteneva necessario rallegrare gli animi prima della tristezza del periodo quaresimale. I giullari e i clerici vagantes ovvero studenti che passavano da una sede universitaria all’altra, spronavano il volgo, oppresso dallo strapotere dell’aristocrazia e dilaniato dalla rivalità tra imperatore e papa, a esprimere, attraverso la parodia, il rovesciamento dei valori correnti, della serietà e autorità del potere politico e religioso e delle sue leggi, affermando un “mondo alla rovescia” che sosteneva le ragioni materiali e corporali contro quelle spirituali dominanti e che darà vita ad una vera e propria letteratura carnevalesca. Le rappresentazioni buffonesche del “mondo alla rovescia ”parodiavano le cerimonie e i riti civili della vita di ogni giorno, dalla proclamazione dei nomi dei vincitori di un torneo cavalleresco, alla cerimonia per la concessione di diritti feudali, fino alla vestizione di cavalieri con la partecipazione di buffoni e teatranti che parodiavano tutti i momenti del cerimoniale serio. Durante le feste ufficiali, infatti, le differenze gerarchiche erano mostrate in modo evidente: in esse bisognava apparire con tutte le insegne del proprio titolo, grado e stato e occupare il posto assegnato al proprio rango.
Al contrario, nel Carnevale medioevale si ripeteva ciò che era tipico del mondo antico: tutti, in questo periodo, erano considerati uguali e per le strade e nelle piazze si respirava l’ebbrezza della libertà, del sentirsi alleviati dalle barriere insormontabili poste dalla propria condizione sociale , dal possesso di ricchezze o dalla povertà più assoluta, perfino dal sesso, dall’età o dalla condizione civile di celibi, nubili o coniugati. Di probabile origine medioevale è anche il domino una maschera costituita d un lungo e largo mantello con cappuccio di colore nero ( ma anche rosso o bianco) simboleggiante il demonio, ovvero il signore ( dominum) delle tenebre e della morte. Nel Rinascimento fiorentino i festeggiamenti carnascialeschi coincidono con il celebre componimento di Lorenzo de’ Medici “ Il trionfo di Bacco e Arianna”, splendida canzone a ballo scritta in occasione del carnevale del 1490, celebrazione della giovinezza e dei piaceri della vita, nonché invito a godere dell’amore e delle altre gioie terrene quando ve ne è ancora la possibilità. La canzone allude ad una sfilata in maschera che segue il “carro” di Bacco ed Arianna, tradizione ancora viva nel Carnevale di diverse cittadine italiane famose per i propri carri allegorici, parodie dei tempi moderni con figuranti in maschera che sfilano su mastodontici carri come a Viareggio, a Putignano, a Gallipoli.
Il Carnevale nel 1500
Il carnevale è particolarmente legato alle maschere della cosiddetta “commedia dell’arte”, nata circa a metà del sec. XVI, e durata fino all’inizio del XIX, si chiamò commedia buffonesca, istrionica, di maschere, all’improvviso, a soggetto; e, in molti paesi stranieri dal sec. XVII in poi, italiana. Si trattava, infatti,di una drammatizzazione basata sulla professionalità dei “comici” che la improvvisavano sulla base di “canovacci”, semplici trame, trasformate in veri e propri spettacoli da questi attori di mestiere.
Durante il Medioevo, infatti, il teatro non poteva contare su veri e propri attori mentre con la commedia dell’arte attraverso un addestramento tecnico, mimico, vocale, perfino acrobatico, i comici italiani divennero in pochi anni famosi in tutta Europa con la “commedia a soggetto”, ossia una commedia di cui si lasciava lo sviluppo dialogico e mimico all’improvvisazione dei protagonisti.
Derivata dalle farse laziali e campane che precedono la commedia del latino Plauto, presenta personaggi che ricordano i quattro tipi ricorrenti nelle fa lae tellanae: Pappus, Maccus, Bucco e Dossennus.
L’abito del mimus albus, il mimo bianco ricorda quello di Pulcinella e l’abito del mimus centunculus, fatto di toppe variopinte, ricorda quello d’Arlecchino. Si è detto che la parola con cui nella commedia dell’arte si designavano i buffoni, Zanni, rassomiglia alla parola sannio “buffone”, usata dai Latini. Perfino le maschere brune che i comici dell’arte portavano sul viso forse ricordano, più che le maschere della tragedia e commedia greco-latina, i volti anneriti e sfigurati dal mosto con cui s’impiastricciavano e si rendevano irriconoscibili i rustici attori dei fescennini. Zanni e Pulcinelli biancovestiti sono fioriti anche in Grecia (i fliaci, con cappuccio, camiciotto e stocco) e in Oriente.
La commedia dell’arte presentava sempre gli stessi personaggi , opera non di autori ma di attori. Ciascuno dei quali, per raggiungere l’eccellenza, decide di limitare la propria interpretazione a una sola parte. Per tutta la vita e in tutte le commedie che reciterà, il comico dell’arte (salvo rare eccezioni) sarà un solo personaggio: Pantalone, Arlecchino, Rosaura, Colombina. Perfino il suo nome si confonderà con quello della sua maschera, sicché a un certo punto non si saprà più quale sia il vero e quale il fittizio. Alle volte, come nel caso dell’Andreini, il personaggio che l’attrice incarna, la maschera ch’ella crea, prende senz’altro il suo nome di battesimo, Isabella. Molto più spesso, sarà il nome della maschera a fare sparire quello dell’attore.
Le principali maschere erano: Pantalone e il Dottor Graziano ( i due “vecchi”); gli “zanni” o “zani” Brighella, Arlecchino, Mezzettino, Truffaldino, Trivellino, Stoppino, Zaccagnino, Pedrolino, Frittellino, Coviello, Francatrippa, Scapino, ecc., di solito due in ogni commedia nel ruolo di servi; le servette Franceschina, Smeraldina, Pasquetta, Turchetta, Ricciolina, Diamantina, Corallina, Colombina, ecc. e gli innamorati Cinzio, Fabrizio, Flavio, Lelio e Angelica, Ardelia, Aurelia, Flaminia, Lucinda, Lavinia ,Isabella. Nel Settecento gli innamorati assunsero ruoli sempre più enfatici, e cambiarono anche nome diventando sempre più “maschere” come Florindo, Ottavio, Rosaura o il “capitano”, Capitan Spaventa da Vallinferna, Rodomonte, Matamoros, Coccodrillo, Bombardone, Scaricabombardone, Spezzaferro, Spaccamonte, Fracassa, Bellavita, Zerbino, ecc.; personaggi allusivi ai dominatori spagnoli negli atteggiamenti militareschi e fanfaroni, grotteschi nella loro tracotanza e magniloquente vanagloria. “Spagnulu” è detta l’erbaccia in molti paesi salentini. E spagnoleggiante, infarcito di spagnolismi maccheronici, è anche il linguaggio usato da queste maschere .
Alle virtù acrobatiche i comici italiani univano quelle di ballerini e di musicisti: in ogni compagnia c’era un cantante, un danzatore o un musicista e gli strumenti utilizzati erano il violino, la viola, il contrabasso, la chitarra, il trombone, il mandolino, la tiorba, il liuto e altri strumenti ancora. Altri comici erano famosi nell’imitare strumenti musicali oppure nel cantare versi onomatopeici dove si rifacevano le voci degli animali. Specie nel Seicento, i trucchi meccanici e le meraviglie della nuova scenografia amplificarono l’arte barocca: ai vecchi intrecci si mescolarono le favole e le evocazioni mitologiche, ai soliti lazzi, alle solite bastonature, ai soliti spaventi e fuggi-fuggi si aggiunsero le sorprese spettacolose: tavole apparecchiate prendevano il volo ; personaggi in carne ed ossa calavano in scena dalle nubi, sopra un’aquila di cartone; le statue si animavano e intrecciavano danze.
Perché il Carnevale a Lecce è … Barocco
Come abbiamo visto fino ad ora, il periodo che definiamo “carnevalesco”, presenta fin dalle sue più lontane origini, una serie di caratteristiche: coincide con i festeggiamenti e l’ebbrezza tipici del Capodanno, si serve di maschere e travestimenti, sovverte l’ordine regolare delle cose, ammette gli scherzi, le sorprese, gli artifici e tutto ciò che produce stupore e meraviglia anche se grottesco e deforme, proprio come la cosiddetta arte barocca. Dalla fine del Seicento, infatti, l’aggettivo francese baroque, tratto dal portoghese barroco (irregolare, riferito alla forma della perla scaramazza), acquisì il senso generico di «stravagante», «bizzarro». Il termine compare, con questo significato, nella storiografia e nella critica artistica e architettonica dalla fine del 18° sec.: nel Dictionnaire de Trevoux(1771) è così definita la pittura che non segue le tradizionali regole sulle proporzioni ma il capriccio dell’artista.
Lecce è una città in cui il barocco impera: sia per la presenza di una pietra friabile che può essere ricamata dal sapiente lavoro degli scalpellini e sia per il forte connubio tra Stato e Chiesa cattolica che ne hanno fatto la roccaforte della controriforma all’epoca di Carlo V°. Al pari di Venezia e con forti legami economici e politici proprio con la Serenissima ( il Sedile e la chiesetta di S. Marco con il simbolo del leone alato in piazza S. Oronzo ne sono l’esempio) Lecce rappresenta un teatro barocco a cielo aperto, pronto ad accogliere performance di figuranti in abiti e maschere barocche, in grado di far rivivere all’ignaro e meravigliato visitatore, una antica storia.
Grazie all’utilizzo della geometria architettonica aerea di balconi, arcate e fregi, nella varietà delle soluzioni ideate, la bellezza della città raggiunge risultati sorprendenti e fantasmagorici – soprattutto nelle sue realizzazioni estreme– attraverso l’uso concatenato di volumi e forme eterogenei. La predilezione per forme plastiche sinuose, per l’uso di linee curve, per l’inclusione della luce in rinnovate concezioni spaziali che, nell’alternanza dei pieni e dei vuoti, tendono a modellare le superfici murarie, consente alla bellezza barocca di costituire di persè un’attrattiva unica al mondo che deve essere valorizzata attraverso in cui l’arte e l’artigianato frutto di operatività umana si fondono come tasselli di un mosaico perfetto nel contesto culturale tematico. Secondo un’analoga visione, il coinvolgimento della musica, della poesia, della fotografia e della filmografia possono dare vita a forme e composizioni aperte e movimentate in cui spettacolari scenografie e complessi illusionismi prospettici si uniscono all’immaginazione e alla retorica della persuasione e della commozione che si rivolge e coinvolge lo spettatore poiché il segno dominante della produzione barocca è proprio l’interazione e la fusione tra tutte le arti, nella definizione di un nuovo e più creativo concetto di spazio urbano in grado di dare vita a Lecce barocca.
E la corte?
La Contea normanna (1055-1463) di cui Lecce era la capitale, confinava, inizialmente, a nord con Brindisi, ad ovest con Oria e Nardò, a sud con Soleto e Otranto. Nel 1055 i Normanni intrapresero e portarono a termine la conquista di quasi tutto il Salento grazie agli Altavilla.
Questo vastissimo dominio personale dei conti d’Altavilla di Lecce cominciò a comprendere nel suo interno numerose infeudazioni minori, per cui il territorio della contea man mano si andava suddividendo in subfeudi dagli illustrissimi Conti concessi in beneficio ad amici baroni, a fedeli cavalieri e a fidati consiglieri. Tra i subfeudatari della contea primeggiavano i Maremonti, baroni di Campi e, Cursi, Minervino e Poggiardo, i Chiaramonte, baroni di Sternatia e Zollino, i Guarino, baroni di Castrì, Sorano e Acquarica, i Lubello di Maglie e Sanarica, i Monefuscolo, di Aradeo e Bagnolo, i Maresgallo, baroni di Lequile, i Capece, baroni di Barbarano, i Falconi, di Galatone e Fulcignano. Re Manfredi cadde combattendo valorosamente (1266) e Carlo d’Angiò, francese, s’impadronì della corona del regno di Napoli.Il primo impegno del nuovo re fu quello di eliminare gli avversari e di esautorare di ogni incarico i baroni beneficiati dai sovrani svevi. E nella sistemazione del regno Carlo I assegnò la rinomata contea di Lecce all’amica casata francese dei Brienne. Nel 1384 la contea passò a Maria d’Enghien, erede delle famiglie d’Enghien e Brienne.
Con il matrimonio di lei con Raimondo Orsini Del Balzo, conte di Soleto e dal 1393 al 1406 Principe di Taranto, tutto il Salento (attuali provincie di Lecce, Brindisi e Taranto) fu unificato in uno dei feudi più grandi e importanti d’Italia. A lei si deve il riordino delle attività economiche e amministrative della città di Lecce, con l’emanazione il 14 luglio 1445 degli Statuta et capitula florentissimae civitatis Litii.
Alla morte di Maria d’Enghien (1446) la contea di Lecce passò al figlio Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, che intanto aveva ereditato nel 1420 il principato di Taranto, per poi confluire dopo il 1463 nel Regno di Napoli. Infatti alla morte di Giovanni Antonio Orsini, conte di Lecce, il re Ferrante in persona, come marito di una sua nipote, si nominò erede delle ricchezze dell’Orsini. Per questo motivo, il re giunse nel Salento e come il Viterbo ci fa sapere: “…re Ferdinando venio di Taranto, passò ad Nerito e Gallipoli, et de Gallipoli andò ad Otranto, visitando le fortalizi, et omne loco dello Principe, et alle 11 dicto (dicembre) entrao ad Lezze, et pe omne loco fu receputo sotto pallio de broccato d’oro et carmosino, et se mostrao le omne benigno et gratiuso”.
Lecce diviene centro tra i più importanti con uffici pubblici e giudiziari che avevano giurisdizione sulla Terra d’Otranto e su Matera. A partire dal XV secolo ebbero particolare fortuna le attività commerciali: Lecce in particolare ospitava tra le sue mura influenti, come abbiamo già ricordato, comunità di mercanti Veneziani che crearono a Lecce e nella contea una loro colonia ed una loro Chiesa presso la piazza del Mercato (attuale piazza Sant’Oronzo), dove esercitavano le loro industrie ed i loro commerci. In seguito alle incursioni turche nel Salento, Lecce fu fortificata da Carlo V con un grandioso Castello e con una possente cinta bastionata. Sempre nel Cinquecento si diede il via alla costruzione di moltissime strutture religiose. Iniziò così una fiorente attività artistica fra XVI e XVIII secolo, che fece di Lecce uno dei centri più significativi del barocco. In epoca spagnola la città – elevata da Carlo V al rango di capoluogo dell’intera Puglia – si trasformò in un vero e proprio cantiere a cielo aperto, per le tante opere civili e religiose che i privati, il clero e le congregazioni ecclesiastiche permisero di erigere, in un crescendo di opere sempre più belle ed importanti.
Una tremenda epidemia di peste funestò il Regno di Napoli nel 1656. Le vittime furono migliaia ovunque, ma la provincia di Terra d’Otranto fu miracolosamente risparmiata. La popolazione attribuì lo scampato pericolo all’intercessione di Sant’Oronzo, che fu poi per questo proclamato patrono di Lecce e della provincia.
Lecce era dunque la capitale di una corte costituita da feudi più o meno prosperi in cui la popolazione viveva prevalentemente dei proventi del lavoro agricolo e suoi derivati o, nei paesi costieri, di pesca e delle attività commerciali legate al trasporto marittimo delle merci. In città, i più potenti avevano i loro palazzi con carrozze e cavalli, servitù ed acqua potabile offerta dal fiume Idume che scorreva sotterraneo. Nei paesi limitrofi, accanto ai palazzi baronali, sorgevano le “case a corte” in cui su un unico cortile comune con pozzo centrale, si affacciavano minuscole case formate da una sola stanza con porta-finestra.
Gli spazi esterni, prevalevano su quelli interni. L’ortale era fondamentale per la coltivazione di quanto necessario alla famiglia e per depositare il letame degli animali che veniva utilizzato come concime. Ma era il cortile l’elemento principale della casa, una specie di agorà che fungeva contemporaneamente da luogo di lavoro, deposito e magazzino, ricovero per gli animali da lavoro e spazio di socializzazione, intrattenimento gioco. Funzionale alla famiglia patriarcale, la casa a corte consentiva di tramandare usi, costumi e tradizioni da padre in figlio in quanto tutta la famiglia poteva convivere nello stesso luogo. Il padre e i nonni erano in continuo contatto con i figli e nipoti, passando il poco tempo libero, insegnando a fare i mestieri tipici ma anche raccontando favole e leggende necessarie alla conservazione degli aspetti peculiare della cultura popolare autoctona. Era un privilegio raggiungere Lecce, vista come la capitale del regno, città di cultura e d’arte dove i sogni potevano diventare progetti realizzabili e il destino di ciascuno poteva cambiare…
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