Carceri:“buco nero“ della società
di Enrico Conte
Una conversazione con Enrico Sbriglia, già Direttore di Carcere a Trieste, attualmente impegnato come Presidente dell’Osservatorio Regionale FVG Antimafia.
Il tema del Carcere torna ogni tanto sulle pagine dei giornali, ora per un’evasione, da ultimo quella dal super carcere di Badu è Carros, o per una rivolta, si pensi a quelle violentissime e inquietanti durante la fase iniziale della pandemia, che hanno provocato morti e feriti, da ultimo per discutere del 41 bis, il carcere duro per mafiosi.
Quello che accomuna queste cronache sembra essere sempre lo stesso filo: i problemi del Carcere vengono lasciati in ombra, su di uno sfondo che pare rappresentare il lato oscuro che la società non vuole vedere, potremmo dire che preferisce rimuovere, nonostante, anche dal carcere e da come è governato e gestito, si misuri la civiltà di un popolo che si dichiari civile e democratico.
Chissà, forse gli Istituti di pena possono essere assimilati ad un “buco nero”, un luogo oscuro il cui accesso è tante volte nel centro delle città, dove precipitano scarti di materia sociale, delinquenti comuni(tanti),colletti bianchi(pochissimi),uomini e donne fuoriusciti/e dal tessuto civile, che le circostanze della vita, alle volte improvvise, hanno fatto precipitare.
E intanto i problemi restano, forse più o meno sempre uguali: edilizia carceraria scadente e sovraffollamento, gli Istituti, a fine febbraio 2023, ne ospitano circa 56.319 unità, con un eccesso “teorico” di circa 5.100 ospiti rispetto a quelli che dovrebbero essere consentiti. Nel solo 2022 si contano 84 suicidi.
I rapporti tra numero di detenuti e agenti di polizia penitenziaria restano insufficienti, fatto che determina stress e momenti di attrito: le violenze sui detenuti nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere ne sono una triste conferma. L’Associazione Antigone ha visitato recentemente 99 carceri su 197. Il 40 % degli Istituti visitati non garantisce acqua calda in tutte le celle, il 54% sono senza docce, in un 15% non funziona il riscaldamento.
La conversazione che segue è con un ex Direttore di carcere che ha ricoperto questo ruolo per 40 anni, passando dalla Casa Circondariale di Trieste, quindi dalle Direzioni Generali dei Provveditorati regionali; per molti anni è stato Segretario nazionale del SI.DI.PE(Direttori penitenziari).Un suo recente libro di memorie,”Captivi”, prova a gettare un fascio di luce in quel “buco nero”.
- Nel 1981, un articolo a firma di Luciano Violante, titolava “Le nostre carceri, un dramma nazionale”……Direttore Sbriglia, cosa è cambiato da allora?
Anzitutto la ringrazio per avermi appellato come “direttore”: sì, è una funzione che ti rimane attaccata addosso per sempre e che ti consente di mantenere una diversa sensibilità sui temi sociali e anche su quelli di natura securitaria, pure dopo che si abbia lasciato, come nel mio caso, quel lavoro che è in fondo una speciale missione civica.
Consentitomi questo preambolo personale, vengo alla domanda: mi spiace dirlo, ma sono convinto che il sistema sia d’allora, dal 1981, fortemente involuto seppure si è speso tantissimo in tema di risorse finanziarie perché mai giunte in modo organico, sistematico ed organizzato, mancando sempre una visione d’insieme ed una chiara regia.
In quegli anni subito post-riforma del 1975, ai quali fa riferimento l’articolo citato, pure se contrassegnati da tante criticità anche emergenziali (terrorismo, guerre di camorra e tra le diverse organizzazioni delle criminalità organizzate, le contestazioni di piazza, le crisi economiche e l’esigenza di una rivisitazione dei modelli industriali, imprenditoriali e delle dinamiche di tutela del mondo del lavoro, il crescere di problematiche derivanti dai flussi immigratori irregolari, l’allargarsi del mercato degli stupefacenti ed il progressivo crescere del numero di persone tossicodipendenti, etc.) si respirava, comunque, un’aria diversa, c’era fortissima motivazione da parte del personale penitenziario tutto e si invocava una riforma del Corpo degli Agenti di Custodia, affinché esso fosse smilitarizzato, proprio al fine di esaltare una visione del carcere che non fosse più percepito come luogo evocativo di caserme, di una disciplina fine a se stessa, di una opacità di contesto che, anche attraverso la cultura filmica e quella letteraria in genere, veniva spesso rappresentato come imperniato sulla violenza e sul conflitto permanente tra sorveglianti e sorvegliati. Pure di fronte alle diverse sensibilità, per così dire, “politiche” che albergavano tra il personale, la mia, ad esempio, era quella di un giovane funzionario che proveniva da marcate esperienze della destra giovanile e che credeva fortemente nel sociale, c’era però una visione condivisa, la quale confidava fortemente in un sistema penitenziario impegnato nell’offrire davvero una chance e anche più di una, e la possibilità di un reale reinserimento nel sociale, alla persona detenuta. C’era davvero un grande fermento, anche culturale e si era convinti che fosse quella della possibilità del recupero delle persone detenute la strada da seguire con rigorosa convinzione, così mostrando per davvero di rispettare il dettato costituzionale che parla di rieducazione.( ndr: l’art 27 Cost. prevede che”le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”).
Quella molla morale, quella speranza fortemente condivisa, è andata però nel tempo spegnendosi, si è consumata, e non per responsabilità degli operatori penitenziari tutti, ma perché non più alimentata da una politica che, in termini bipartisan, ha invece preferito vestire i panni del “braccio violento della legge”, esibendo un rigore di facciata, però così tradendo lo spirito innovatore dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 e delle leggi successive, oltre che lo stesso mandato costituzionale, quello descritto dall’art. 27, della Costituzione.
Il mondo politico, nella sua stragrande maggioranza, pure agitando scudi con le croci oppure con la falce e martello, e pur avvicendandosi nelle varie composte del potere e di governi che potevano durare anche una sola estate, ha finto di non vedere il progressivo deterioramento del sistema penitenziario (come quello della giustizia), privato soprattutto di risorse umane, di uomini e donne specializzate nel trattamento penitenziario e nel mantenimento di una ponderata sicurezza; operatori che avrebbero dovuto essere in numero adeguato, che sarebbero dovuti essere caratterizzati da una alta formazione professionale, pregna di contenuti pratico-scientifici di elevata portata e non, invece, banalizzata o ridotta ad assumere i caratteri della mera guardiania o di un’assistenza caritatevole verso la figura del “povero” detenuto, oppure come dei molossi aggressivi, così determinando le premesse per un conflitto permanente tra rigoristi e buonisti. Non si trattava, ripeto, di mostrare sentimenti di “pietas” (cosa comunque che non è di per sé biasimevole, ma che appartiene alla coscienza di ogni persona, ove abbia tale fortuna), ma di attrezzare coerentemente gli operatori con competenze specifiche in criminologia, psicologia, perfino in filosofia, sociologia, ancorché un’attenzione concorrente andasse assicurata, in modo coerente, prudente e necessario, ai tradizionali aspetti securitari che devono caratterizzare l’operatore penitenziario, soprattutto se svolga funzioni di polizia amministrativa e giudiziaria, ma chiarendo che quei compiti di natura prettamente securitaria non esauriscono l’ambito delle molto più complesse attività istituzionali attribuite ad un operatore penitenziario, in quanto finalizzate ad una missione chiaramente prefigurata dalla nostra Carta Costituzionale.
2.Violenza e sopraffazione, controllo da parte della criminalità organizzata: le celle sembrano un colabrodo dove entrano ed escono ordini,pizzini,droga,mogli con le quali si concepiscono figli.E’ realtà o percezione sbagliata alimentata da informazioni superficiali e parziali?
No, non è così, sono ingiuste rappresentazioni; di regola non è così, mi pare, francamente, ingeneroso affermare tanto! E’ vero, sono sempre più frequenti i fatti riportati dalla cronaca che descrivono un sistema che pare fare acqua dappertutto, ma troppo spesso si tratta di episodi di realtà “aumentata” da parte di cronisti che preferiscono il bagliore dei fuochi, piuttosto che conoscerne le ragioni e la stessa intensità; i fatti non vengono normalmente contestualizzati, la conoscenza delle regole e delle norme risulta molto approssimativa da parte dei non addetti ai lavori, favorendo una lettura assolutamente sganciata dalla realtà degli avvenimenti; la realtà delle criticità non è che sia la più confortante, anzi è allarmante perché è “di sistema”, ma è diversa e più impegnativa da comprendere e affrontare.
Faccio un piccolo esempio per farmi meglio comprendere: spesso, allorquando si arresti una persona per un fatto per il quale debba essere ancora giudicata, vengono imposte dalle stesse autorità giudiziarie (che però, spesso, poco conoscono le regole delle carceri ed il suo ordinamento, così come si è formato-normato nel tempo e come si è addirittura sviluppato, semmai, in quel singolo istituto, attraverso il proprio regolamento interno o la tipologia di detenuti che lo ha caratterizzato…) delle misure di vigilanza che risulteranno, nel corso di un qualche tempo, di regola breve, assolutamente impossibili d’assicurare, praticamente decontestualizzate; penso al divieto di colloquio con altri detenuti, oppure a quello di non consentire all’arrestato di vedere la TV o leggere i giornali; per i primi giorni, forse, tali limiti potranno essere pure assicurati, garantendo una sorta di “isolamento” del ristretto (isolamento che, alla luce dello svilupparsi di una sensibilità anche fatta di norme internazionali potrebbe rasentare forme di critica) ma poi, inevitabilmente, tali prescrizioni saranno superate dalla natura delle cose, dalla natura di ogni contesto comunitario, dallo stato concreto dei fatti. Qualcuno, tanto per comprenderci, dovrà pure somministrare, per almeno tre volte al giorno, un pasto all’arrestato, e quel qualcuno sarà inevitabilmente altro detenuto, che lavori come inserviente porta vitto nelle cucine, il quale, seppure sorvegliato dalla polizia penitenziaria, potrà con scaltrezza comunicare in qualche modo con il primo, semmai attraverso lo sguardo, il linguaggio dei segni, oppure in altro modo; e se non sarà in occasione della distribuzione dei pasti, l’arrestato comunque potrà incrociare altri ristretti, semmai recandosi ad effettuare una qualche visita medica presso gli ambulatori, oppure si recherà nei cortili passeggi, o anche si affaccerà da una finestra della propria stanza, o si recherà in chiesa, oppure andrà alla sala dei colloqui, vi sarà pure un detenuto che dovrà spazzare i corridoi in cui si affacciano i blindati delle celle, etc.
In tutte queste circostanze, la possibilità che “l’isolato” incontri altri detenuti, soprattutto in carceri sovraffollate (problema che in fondo sembra mai preoccupare), è una evenienza ragionevole da mettere in conto, per cui la circostanza che di fatto quei divieti imposti vengano aggirati sarà molto forte.
D’altronde, non vi sono soluzioni concrete percorribili, a meno che non si murino tutti gli altri ristretti nelle loro stanze, si tombino le finestre, si eviti ogni movimento, fermo restando che i detenuti potrebbero anche mandare dei messaggi sonori, bussando sulle pareti o sbattendo un qualche oggetto metallico sui blindati, sulle tubazioni, sui vetri, impiegando specchietti di fortuna, etc.
Insomma, non c’è bisogno dei pizzini……non dimentichiamo che l’uomo è un animale che è portato a comunicare “naturalmente”, anzi è proprio il dono della parola che lo caratterizza: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio …”; questa condizione è una funzione che probabilmente lo caratterizza rispetto alla generalità degli esseri viventi. Quindi, andrebbero immaginati altri rimedi, che probabilmente precedono lo stesso arresto e che attengano di più ai metodi investigativi ed alla raccolta degli elementi di prova, piuttosto che esercitare una sorta di pressione psicologica che alla fine neanche produrrà delle utilità concrete, se non anche esporrà lo Stato al rischio di avere favorito condotte autolesionistiche o suicidarie; e un tanto non perché si sia anime “belle” o generose, ma perché le nostre leggi esigono ben altro, esigono il rispetto e la dignità della persona ristretta. Se si vuole cambiare, teoricamente si potrebbe, ma si abbia allora il coraggio di uscire fuori dai circuiti degli stati democratici basati sulle regole del diritto, si straccino i Trattati e le convenzioni, si bruci la Costituzione, e finalmente ci troveremmo nelle condizioni ideali che ci consentirebbero anche di reintrodurre la forma spiccia e davvero economica della pena di morte, rispetto al dispendioso ergastolo ed alle altre forme di reclusione che, invece, contempliamo. Forza…..allora…..qualcuno alzi la mano e si proponga come apprendista boia, dopo avere partecipato ad un apposito corso di formazione, e contiamo quanti sono i cittadini e le cittadine disposte a tanto…, anche questa è una forma singolare di democrazia alternativa! Personalmente credo che come ci siano i leoni da tastiera, così ci siano i leoni del patibolo, tuttavia io preferisco un popolo che rispetti la presunzione di innocenza e il bene della vita, pure ove si tratti del peggior delinquente, e ve ne sono, ma non è su di essi che deve essere costruito un sistema penitenziario.
3.L’amore in galera un tabù, oppure è cambiato qualcosa negli ultimi anni? E’ pensabile una vita affettiva e sessuale, sia pur ridotta al minimo, quale condizione necessaria per dare dignità alla vita del detenuto(ndr: art 27 Cost “la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”), nonché per aiutare nel processo di rieducazione del condannato?
In verità questo, sulla scorta della mia esperienza, non rappresenta il primo dei problemi della persona detenuta, e non perché non sia una cosa importante, ma perché ci può stare, in una concezione della pena che sia ancora in qualche modo “retributiva“, l’indifferenza dello Stato e della collettività verso questo bisogno. Forse la non previsione è più satisfattiva, cupamente consolante, per le vittime dei reati e i loro familiari. Sarebbe difficile da spiegare all’elettorato, se non si adoperino ragionevoli argomentazioni, che nel mentre una moglie piange il marito poliziotto, morto ucciso, il suo assassino spenda un pezzo della sua carcerazione amoreggiando e curando i propri sentimenti…; soprattutto lì dove i cronisti ed i giornali che prediligano i titoloni ad effetto volessero marciarci sopra…
In verità gli stessi detenuti, di regola, non avanzano in termini concreti tali umane esigenze; essi si fermano ad uno stadio diverso, molto più pratico e non per questo meno importante.
I detenuti chiedono riservatezza, non vorrebbero convivere in tanti all’interno di gabbie di cemento, vorrebbero poter impiegare dei bagni in modo esclusivo, e non condividerli con altri, spesso anche portatori di malattie infettive che, a parlare e richiamando le regole igieniche universali, parrebbero essere assolutamente sotto controllo, ma la pratica è diversa.
Pensate a cosa sia una cella dove la tazza del water è prossima al piano di legno impiallacciato di formica, dove si cucina e dove sono riposti gli alimenti, tanto per entrare nel contesto. I detenuti vorrebbero le cabine docce personali (così come è previsto dalle norme), vorrebbero non essere costretti ad ingerire il fumo passivo, vorrebbero poter scegliere il canale televisivo da seguire e non essere costretti a subire la volontà del più forte dei loro compagni di detenzione, il quale gestisce, a prescindere, l’agognato telecomando…; insomma, altre cose, forse piccole, forse, ma immaginatele ripetersi per giorni, mesi, anni …
4.”Avrei potuto avere una vita come la sua, Direttore, oppure come quella di tanti sistemati, con un lavoro sicuro e ben retribuito…….” – così si esprime un detenuto, Alberto Camuso,che indossava mocassini e parlava come un professore, un professore di liceo,quindi più pericoloso di un docente universitario per la capacità che aveva di attrarre giovanissimi (questo un passaggio del libro di memorie,“Captivi”, del “nostro”direttore…..) – …ma torniamo agli interrogativi…….Le pene sono state portate dal terreno materiale (si pensi alle torture e alle mutilazioni prima del periodo illuminista e di Cesare Beccaria) a quello immateriale, con la restrizione della libertà: non dovrebbe essere più giusto pensarle in modo tale da non mortificare lo spirito del condannato anche per non pregiudicare la funzione rieducativa della pena?
Nessuno ha il diritto di mortificare l’altro, nessuno, e non perché siamo “evangelici”, ma perché ce lo impone la nostra Costituzione. Al detenuto imponiamo esclusivamente il pegno della sua libertà personale per tot tempo. Questo è il nostro sistema costituzionale…
In verità, il nostro ordinamento penitenziario è stato pensato proprio in una visione rispettosa della dignità umana, pur nulla negando alle concorrenti, ma non costituzionalmente prevalenti, esigenze della sicurezza pubblica. Un mondo penitenziario garbato, dove gli operatori penitenziari, forti di una competenza giuridica, tecnica, pedagogica, nonché preparati ad affrontare le emergenze, certamente non porrebbe in crisi una idea complessiva di sistema securitario, né favorirebbe la commissione di nuovi reati.
5 Laboratori di mestieri per potersi reinserire: in che misura sono diffusi e aiutano il reinserimento nel mondo del lavoro? Il 68% uscito di cella è interessato da recidiva. Ci sono esperienze positive, i detenuti panificatori o quelli coinvolti in esperienze di Teatro, ci sono ma restano isolate: perchè?
Non mi dica di fare delle proiezioni statistiche circa la vera consistenza della recidiva! Finora non ho visto ricerche strutturate, bensì sono stati dei numeri che io considero gettati a casaccio. Posso perciò risponderle solo in base al mio intuito, alla mia personale esperienza…
Ho conosciuto migliaia di persone detenute, ne ho perso perfino il conto, ma ricordo perfettamente (pur non avendomelo mai annotato), che quanti riuscivano a partecipare a corsi di formazione professionali “seri”, o che venivano impegnati in attività di lavoro correttamente retribuite, cambiavano, diventavano altre persone rispetto a quelle terribili di prima, diventavano perfino amabili. Lavorando e ricevendo una retribuzione, potevano inviare dei soldi alle loro famiglie, potevano acquistarsi biancheria, senza doverle implorare al prete o sottrarle furtivamente ai compagni, potevano acquistare cibi, libri, potevano perfino pagare le spese di giustizia, potevano inviare dei contributi in denaro a fondazioni che si occupavano di malattie, di fame nel mondo, oppure a comuni terremotati; potevano anche solo accumulare sui loro conti correnti le somme…
Ma qualcosa in loro per davvero risultava cambiato. Non so seppure l’anima, ma sicuramente non erano peggiorati.
Nella mia esperienza, ho visto il formarsi di ottimi panificatori, pasticcieri, cuochi, pizzaioli, muratori, scalpellini, mosaicisti, tappezzieri, falegnami, elettricisti, parchettisti, etc., per non parlare di pittori, scultori, ceramisti, etc., così come ho visto cambiare, giorno dopo giorno, delle persone detenute, che non riuscivano neanche a declinare correttamente le loro generalità, parlare come dei poeti e perfino trasformarsi in attori; c’era finanche la corsa, quando facevano teatro, la competizione tra loro per acquisire la parte del protagonista “buono”, altruista, di chi nelle storie si sarebbe posto come colui che è d’aiuto verso gli altri, perché è coraggioso, perché difende i più deboli: era tutta recitazione, finzione, sottile astuzia per impressionare il direttore, gli operatori penitenziari, il magistrato di sorveglianza ? può essere, ma in quei momenti quegli uomini, quelle donne ingabbiate erano, comunque, persone “altre”…No, non sono un ottimista ad oltranza, ma sapevo che il diritto penitenziario è diritto sperimentale, è un diritto che ama la scommessa, per cui se non avessi voluto giocare, rischiando pure di pagare pegno, avrei dovuto cercarmi un altro lavoro; però sarei falso se dicessi che le cose che ho provato a descrivere non accadessero per davvero, perché in fondo sarebbe tutto più facile se i delinquenti fossero rimasti tali per sempre: ma tutti cambiamo, tutti: è il tempo che ce lo impone, prescindendo da ogni nostra volontà, se poi noi avessimo anche la fortuna di assecondare il possibile cambiamento quando è in meglio, tanto più! Una persona che ho conosciuto personalmente e stimato, dopo averne compreso il messaggio profondo, Marco Pannella, usava dire che “…il tempo dà la forma alle cose”: sì, grazie a Dio è così.
Ciò non esclude, anzi impone, che tutti noi ci si muova con prudenza, tormentati sempre dal dubbio, ma non ci è consentito di rimanere fermi…, vede, spesso ai miei collaboratori amavo dire che, dopotutto, dovendo scegliere, avrei preferito essere rapinato da un delinquente che mi si rivolgesse, nel corso della commissione del reato, con frasi in rima e con un bel eloquio, piuttosto che con un linguaggio che non riuscissi a comprendere, soprattutto se avesse accompagnato l’azione con una condotta inutilmente violenta ed aggressiva. Di fronte ad un rapinatore che ti punta la canna di un’arma con il cane alzato, è quest’ultima a dettare la norma, c’è poco da fare, ma sentire di dover alzare le mani in un buon italiano e con modi che non siano offensivi, rende il tutto più facile, per quanto non accettabile.
Purtroppo davvero numerose buone pratiche trattamentali sembrano relegate a poche fortunate realtà penitenziarie, questo si spiega perché ormai anche tanti operatori penitenziari vivono il lavoro con una maggiore ansia ed in costante sofferenza di numeri, di risorse umane, rimanendo schiacciati dalla paure delle conseguenze che deriverebbero da una loro diagnosi eccessivamente ottimistica verso i profili delle persone detenute sottoposte al loro trattamento, preferiscono non rischiare.
Ma così facendo, non si rendono conto che il sistema tenderà ad essere sempre più disumano e teso, che la postura conflittuale che tutte le parti assumeranno tenderà a crescere e non a diminuire, che giorno dopo giorno verranno superati i limiti della reciproca comprensione, la quale si trasformerà progressivamente in conflitto, sempre più intenso, che finirà per esplodere di fronte al primo accadimento opportunista, facendo crollare ogni riserva morale, ogni doverosa reciproca prudenza, sia da parte del detenente che del detenuto, in un crescere del contrasto e dell’incomunicabilità, favorendo, paradossalmente, proprio le peggiori criminalità, che odiano uno Stato che si mostri comprensivo, che offra delle possibilità di rinascita e di recupero, che si mostri giusto, equo, e non vendicativo.
Ma per capire queste cose, occorre avere lavorato in carcere, nelle sezioni, all’interno dei cortili-passeggi, nei reparti detentivi; occorre avere frequentato quegli ambienti, aver percorso i luoghi della sofferenza che non lascia, che non può lasciare indifferenti; occorre avere visto la carezza che un padre o una madre detenuta fanno verso il figlio, occorre avere visto gli occhi pieni di orgoglio di quei detenuti che si diplomano o perfino si laureano, occorre avere visto le lacrime dei genitori che vanno a fare i colloqui con i figli con fine pena mai, occorre aver sentito l’urlo di pentimento dell’assassino che saprà di non poter essere mai perdonato dai familiari della sua vittima: insomma, il carcere è un caleidoscopio di emozioni, sensazioni, voci e anime, che solo quanti conoscano quel mondo sapranno, forse, tentare di comprendere.
6.Edilizia carceraria: si può pensare ad un programma di edilizia penitenziaria che coinvolga nella realizzazione e gestione imprese private che, come in Inghilterra, coprono la parte dei servizi che sono remunerativi?
Una premessa indispensabile, da anni si viola una norma fondamentale dell’Ordinamento Penitenziario, l’art. 5 della Legge n. 354/75 e ss., il quale inizia così: “Gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati.”, quindi impone che le carceri non debbano essere degli enormi casermoni o agglomerati di cemento e di acciaio blindato, invece cosa si fa nella realtà ? si costruiscono, o meglio si tende a costruire mostri architettonici che, a dispetto della norma, la quale ha un evidente senso rieducativo, perché è palese che un numero più contenuto di persone detenute ne consente il maggior controllo e anche la migliore profilazione psicologica.
Quanti non conoscono le carceri, pertanto, preferiscono proporre e realizzare strutture che conterranno mille e più persone detenute, spiegando che così saranno anche più “economiche”, senza però calcolare il costo finanziario del maggior numero di problematiche e conflitti ai quali, invece, daranno vita: in gergo si dicono “eventi critici” .
Mi creda, è scandaloso, è scandaloso che addirittura si facciano nuovi padiglioni penitenziari sottraendo quei pochi spazi verdi, quei polmoni di aree libere da ogni opprimente edificio, che semmai erano campi di calcio, giardini, orti, etc., per portarci altre persone detenute, a dispetto di ogni bilanciamento architettonico, ogni sforzo di bellezza paesaggistica o di rispetto delle logiche che i primi architetti, semmai, imposero perché i loro manufatti non degradassero in scatole cementizie.
Non solo, ma ormai v’è perfino l’abitudine di realizzare, all’interno di ogni istituto, più circuiti penitenziari in relazione alla tipologia di detenuti non più distinta tra imputati, giudicabili, condannati, internati, donne e uomini, no, ma in altre sottocategorie il cui numero tende a variare nel tempo e in relazione al mutare del sentiment dell’opinione pubblica, per cui si avranno le sezioni per tossicodipendenti, imputati e condannati, per la media sicurezza, che poi media non è, poi le diverse articolazioni dell’alta sicurezza, i reparti psichiatrici, quelli per detenuti omosessuali, quelli per “gli infami”, quelli per i colletti bianchi, quelli per i pedofili, etc. etc. , fino ad arrivare a quelli del 41 bis, distinti tra imputati, condannati e internati, non dimenticando come tra l’altro il Codice di procedura penale imponga che i detenuti che abbiano commesso lo stesso reato (e qui la cosa si fa più difficile, perché è ancora da chiarire se ci si riferisca al medesimo evento criminoso, in cui presumibilmente si era complici, oppure alla categoria generica di reato, come ad esempio, la rapina, l’omicidio, il furto, la violenza carnale, etc.) non possano stare nella stessa cella…; ricordiamoci poi dei detenuti giovani adulti, oppure delle sezioni femminili che anch’esse dovrebbero attenersi a questi ulteriori elementi di differenziazione.
Tutto questo rende il contesto ancora più complicato e caotico, oltre a favorire, come è intuibile, che prevalgano modelli organizzativi che preferiscono quelli di maggior vigore, perché basati sul divieto, molto più semplice da imporre formalmente, quanto tante volte difficile da realizzare.
Tutto ciò determina un caos difficile da gestire, perché occorre aggiungere che vi sono dei principi organizzativi, dettati sia dalle norme contrattuali e dalla contrattazione sindacale, i quali, pure per motivi di sicurezza, se per quanto residuali nel dibattito, impongono la “rotazione dei servizi”, con il relativo ovvio avvicendamento del personale operante nella stessa realtà detentiva. Per cui occorrerà continuamente cambiare registro di lavoro, resettando i compiti di prima per acquisirne dei nuovi.
Tutto ciò spesso, tra l’altro, favorisce anche una sorta di conflittualità interna anche tra lo stesso personale, perché è umano che ci si abitui ad un modello organizzativo ed è sempre traumatico dover iniziare daccapo tutto nell’espletamento di un altro compito, per cui il cambiamento delle attività di sorveglianza andrebbe assicurato con prudenza e non in termini meccanicistici. Ieri controllavo i detenuti dell’alta sicurezza, oggi devo sorvegliare quello che tende a porre in essere condotte suicidarie, domani sarò sentinella sul muro di cinta, dopodomani sarò nel reparto dei trans, etc. etc. Certo, è cosa buona che tutti sappiano fare tutto, ma parliamo di un lavoro rivolto comunque alle persone, per quanto detenute, per cui anche tali avvicendamenti andrebbero anzitutto incentivati accompagnandoli sempre da un momento di formazione permanente, piuttosto che imposti.
Alla fine, perciò, lo stesso personale disorientato potrebbe preferire quei modelli gestionali per l’appunto apparentemente più semplici, basati non sul dialogo con le persone detenute, che ai loro occhi cambierebbero di continuo, ma con l’imposizione di obblighi impersonali.
D’altronde, volendo fare letteratura scientifica, basterebbe richiamare il libro “Lucifero”, di Philip Zimbardo, dove viene descritto il lato oscuro che può covare anche all’interno dell’animo della persona comune, allorquando si imponga con la forza verso gli altri, per capire a quali rischi si possa andare incontro.
Il libro, com’è noto, racconta di quando, nel 1971, fu compiuto uno speciale esperimento carcerario da parte dell’Università di Stanford, assegnando in modo apparentemente casuale ad un gruppo di giovani americani WASP, il ruolo di prigionieri o di guardie all’interno di un carcere simulato. I partecipanti di questo esperimento erano stati selezionati perché ritenuti soggetti “normali”, bianchi, protestanti, anglosassoni, privi di esperienze criminali o di polizia, ebbene dopo soli pochi giorni si dovette sospendere la sperimentazione, perché la situazione era sfuggita di mano agli stessi ricercatori, venendosi a creare un clima di cieca violenza di quanti interpretavano la parte dei sorveglianti rispetto a quella dei detenuti, con la differenza, però, che i primi sapevano trattarsi di finzione, mentre i secondi ancora non comprendevano le ragioni che ne avevano determinato l’arresto, che non sapevano essere fasullo.
La cieca violenza, le condotte sadiche e vessatorie ebbero il sopravvento e per davvero si rischiò il peggio.
Ecco, quando si confondono modelli di sorveglianza e non si formano con grande prudenza gli operatori, soprattutto se non sono sempre costantemente seguiti ed indirizzati dai loro superiori che devono avere, a loro volta, esperienze e capacità di dialogo ed equilibrio, può accadere l’inferno e Lucifero, che era il primo angelo di Dio, sta lì a ricordarcelo.
Circa il costo di ogni detenuto, non intendo arroventarmi il cervello, le cifre che ho sentito negli anni sono sempre state “ballerine”: certamente, però, se prendessimo l’intero ammontare dei finanziamenti per il sistema penitenziario, e lo dividessimo per il numero dei detenuti, avremmo l’evidenza di un presunto costo per ogni singolo ristretto, ma sicuramente sbaglieremmo.
Perché nel conto vi andrebbe anche il costo di tutte le inefficienze e degli sprechi che non dipendono certamente da quello.
Però sarebbe giusto averne contezza analitica: oggi non credo che tale tipo di esercizio sia stato per davvero compiuto.
Un esempio, nel costo ci mettiamo tutte le retribuzioni del personale penitenziario, ivi comprese quelle dei massimi livelli apicali di alta amministrazione, e poi ci mettiamo il costo del personale distaccato in altri contesti amministrativi che non sono le carceri, e quelli che sono in aspettativa retribuita, il costo per le attrezzature tecnologiche, per gli automezzi, funzionanti o meno, per le perdite idriche e dispersioni energetiche, per gli alimenti che compongono i pasti dei detenuti, per quelli che riguardano la mensa dei poliziotti penitenziari, quello delle caserme, etc. etc., insomma le voci che comporrebbero i costi di una piccola città, e poi aggiungiamo le spese sanitarie, che non sono più attribuibili al sistema della giustizia ma alla sanità delle regioni, quello dei circuiti scolastici, universitari, della formazione professionale, etc.: ma sarebbe un modo giusto per calcolare il costo del detenuto ? Personalmente ho dei dubbi, perché occorrerebbe chiederci cosa per davvero vogliamo comprendere e conoscere.
Certamente il sistema, per come è, presenta tanti chiaroscuri e opacità che andrebbero spiegate meglio.
Sì, aprirci al privato non sarebbe scandaloso, purché fosse per davvero monitorato, costantemente monitorato, e non semplicemente delegato.
In fondo, e non in termini confortanti, gran parte del business penitenziario è già nei fatti privatizzato, solo che sembra non accorgersi di tanto e, soprattutto, non è immaginato come una sorta di piattaforma ove tutto sia perfettamente mostrato e spiegato. In fondo, mancano gli alert…
Basti pensare al vitto ed al sopravvitto dei detenuti, dove un numero ristretto di imprese del settore, da tempo immemorabile, gestisce, previo ovviamente gare pubbliche, il servizio, il quale però non viene aperto alla grande distribuzione alimentare o di beni connessi…eppure anche sul piano di una visione UE e di rispetto dei principi della sana concorrenza, allargare la platea di aziende che potrebbero essere interessate, non sarebbe cosa scandalosa, anzi dovrebbe essere un obiettivo fortemente auspicato.
Per favore, poi, non parli di vitto e di corredo come cose soddisfacenti, se così fosse non ci sarebbero CARITAS e altri soggetti del privato sociale che assistono le persone detenute, e non vi sarebbe neanche il bisogno che i detenuti ricevessero cibi e vestiario dai loro familiari, attraverso i pacchi settimanali: la verità è un po’, un po’ “tantissimo” diversa…
Veda, ad esempio, se i detenuti per davvero ricevano o meno degli indumenti puliti e nuovi acquistati dall’amministrazione, e quale sia la reale dotazione che ad essi viene fatta per la loro igiene personale e con quale periodicità…, siano mostrati i decreti ministeriali, previsti per legge, sulle dotazioni e sul corredo personale: io credo di non averli mai visti !
Anche per questo motivo, le persone detenute indossano abiti loro, privati, perché in caso contrario sarebbero spesso nudi.
Così come quando sentiamo di carceri a tre, quattro o cinque stelle…frottole messe in giro da quanti non conoscono o fingono di non conoscere la realtà.
7.Nella sua esperienza cosa ricorda di particolarmente coinvolgente e toccante?
Dovrei raccontare tutta la mia vita trascorsa in quel mondo, perché ogni giorno mi serbava una sorpresa, per favore saltiamo ! Non voglio ricordare le telefonate che mi giungevano nel cuore della notte e che mi parlavano di suicidi, non sempre soltanto di detenuti ! Non voglio ricordare il disagio che provavo ad informare personalmente familiari e conoscenti, quando il detenuto ne aveva dato autorizzazione all’atto della sua immatricolazione in carcere, della sua morte, non voglio ricordare le volte che entravo nella cella e vedevo i corpi esanimi di quanti avevo conosciuto e con i quali, semmai, avevo parlato qualche ora prima, non voglio ricordare il pianto delle madri quando mi raccontavano dei figli tossicodipendenti che esse stesse avevano denunciato, oppure quanti erano divenuti ladri per necessità, perché espulsi dai circuiti del mondo lavorativo a causa di un qualche incidente o per una malattia sopraggiunta…molte volte il carcere è la somma dei problemi sociali irrisolti, molte, troppe volte.
8. Cosa chiederebbe al Ministro Nordio, quali priorità gli segnalerebbe?
Il Ministro Nordio conosce il contesto, perché come PM lo ha frequentato e, per quanto ne sappia, avendone lui compreso la delicatezza e drammaticità, non mi risulta che ne favorisse l’inutile riempimento allorquando svolgeva la sua funzione, soprattutto non impiegava il carcere come luogo di sofferenza finalizzato a rendere confessione. Sicuramente quella del carcere è una polpetta avvelenata e sarebbe profondamente ingiusto addebitare al governo attuale ogni sua criticità di sistema.
Il nostro sistema, infatti, è soprattutto frutto di una stratificazione di scelte fatte in passato, che hanno privilegiato l’Ordine e la Sicurezza urlata, piuttosto che per davvero quella realizzata, che a mio avviso richiederebbe sempre ragionevolezza e l’esercizio di un soft-power, costante e metodico, e non di episodici nudi annunci di rigore e di una muscolarità tutta da provare.
D’altronde, basterebbe ricordare come sia stata trascurata la reale presenza di direttori penitenziari all’interno delle carceri. Ci sono voluti quasi trent’anni per fare il primo concorso per tamponare, molto parzialmente, gli organici di questa funzione fondamentale, strategica, per assicurare ordine e legalità, in ogni verso, all’interno delle carceri, idem per quanto attiene la penuria di altre figure indispensabili nella tecnica scientifica del controllo, che non è e non può essere solo quello esercitato dalla polizia penitenziaria, in quanto ogni condotta del ristretto deve essere tradotta e declinata in un profilo preciso di tipo psicologico, comportamentale, criminale…
Il nostro sistema è stato immaginato come quello in cui occorra anche investire in trattamento rieducativo, perché questo ci impone la Costituzione più bella e violata – intimamente violata, sì stuprata – del mondo…
A Napoli si dice: “Chi capisce patisce”, ma penso che sia un brocardo universale, sempre che ci sia, però, sincerità ed onestà intellettuale.
Oggi in tante carceri si percepisce l’atmosfera del conflitto permanente, tutti contro tutti, perfino all’interno dello stesso personale penitenziario, distinto tra quello di polizia e quello “civile”, modo infelice di descriverne le diverse professionalità che poggiano su una multidisciplinarietà di competenze e saperi che andrebbero ridotte in una utile sintesi.
Ma anche all’interno degli stessi diversi comparti mi risulta esservi conflittualità, anche nello stesso Corpo della Polizia Penitenziaria dentro il quale, mentre i Sindacati chiedono il maggior riconoscimento di più complesse professionalità, si assiste alla fuga verso posizioni lavorative meno impattanti e pericolose, di quelle funzioni apicali del Corpo, depauperando gli istituti, nonostante il loro numero complessivo avrebbe dovuto consentire che ogni istituto avesse un proprio Comandante, mentre per i Direttori, come già detto prima, la situazione è a dir poco devastante, al punto che di fatto gli stessi Garanti sono spesso costretti a supplire questo vuoto inevitabile di affievolimento di legalità…ma così non va e non può andare.
Direi al Ministro che occorre tornare a ricostruire un sistema di relazioni, basate sul rispetto reciproco di ogni professionalità e pure verso l’esterno, che non deve essere visto come un pericolo, tutt’altro…, così come lo pregherei di sensibilizzare la stessa Magistratura di Sorveglianza, perché i conti non tornano, perché non è possibile che su circa 40.851 detenuti condannati, al 28 febbraio scorso, soltanto 1.102 risultano in regime di semilibertà, neanche il 2,5% del totale; ma sarebbe un discorso lungo e potrei apparire polemico, per cui preferirei fermarmi qui.
Conclusioni
E’ difficile trovare una sintesi che possa esprimere il senso più profondo di questa conversazione. Quello che si può dire è che ciò che accade all’interno degli Istituti di pena sembra essere lo specchio deformato delle dinamiche sociali e istituzionali esterne. Con forme diverse ma speculari, perchè quello che succede dentro le galere, è già accaduto fuori da quel recinto, anzi, continua a verificarsi all’esterno, sia pur in forme diverse.
Il dott. Sbriglia ha affidato le sue memorie ad un particolarissimo libro, ”Captivi”, dove compare una figura di Direttore, con il nome di Sanfilippo, che sembra ingaggiare di continuo una lotta con molti detenuti, non tanto come conflitto tra il bene e il male,ma come esperienza di vita che mette in contatto, e in attrito, le prescrizioni normative, e ciò che dovrebbe succedere, con il rovescio di una realtà multiforme, che fa dialogare gli animi più efferati con chi è portatore di dubbi,di umanissimi dubbi, e dove compaiono figure liminali che leggono il Petr Kropotkin de “la grande Rivoluzione”, e si confrontano con un funzionario dello Stato, mite e con animo inquieto, che scrive… nel carcere……“il vaso si è rotto,ma non c’è spazio per l’antica arte giapponese del Kinsugi, perchè non c’è oro o argento o lacca pregiata che sappia ricomporre i pezzi che invece rimangono appuntiti e taglienti e impossibili da maneggiare”….. E c’è uno Stato fragile che sembra esaurirsi in regole formali, che non fa i conti con la concretezza del quotidiano, e che ha tantissimi generali che scrivono leggi che fanno tornare alla mente quelli che,durante la Prima Guerra mondiale,per attraversare i torrenti,si facevano portare in braccio dai soldati….
Conclusa questa conversazione, e ripensando alle cronache di queste settimane centrate sul 41 bis per un anarchico, tornano le parole di Aldous Huxley de il Mondo Nuovo…”la verità affoga in un mare di irrilevanza”.
Trieste 9 marzo 2023
Enrico Conte
Redazione di Trieste
de il Pensiero Mediterraneo