IL PENSIERO MEDITERRANEO

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   Carceri: senso di giustizia o vendetta?

Articolo carceri di Enrico Conte

di Enrico Conte

Una conversazione con due Direttori di carcere, Enrico Sbriglia e Graziano Pujia, e con una terza, invisibile figura, la disattenzione e l’indifferenza: del corpo politico o dei cittadini?

Scena Prima: era di venerdì, quando la gattina fu trovata sul ciglio della strada. Il veterinario disse: penso che le abbiano dato un calcio, resterà senza un rene. Fu adottata dai vicini in quel di Alberobello. La chiamarono “Venerdì”.

Poi accadde, un giorno, che  un ragazzo, trovatala sul bordo di una fontana, decise che doveva ripetere quel gesto, e la gattina finì nell’acqua, sotto l’occhio vigile dei passanti, che tirarono dritto.

Il video diventò virale e suscitò grande scandalo. Fare del male agli animali è offendere un sentimento umano, così recita il non detto del cinquecentoquarantaquattro ter del codice penale di pace. Maltrattamento degli animali: “chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale o lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche insopportabili per le sue caratteristiche etologiche… è punito. Punto.

E’ il sentimento della pietà e della compassione verso gli animali ad essere offeso o l’animale come tale, protetto dalla recente modifica dell’art 9 della Costituzione che tutela, in un nuovo inedito comma, paesaggio, ambiente e animali, appunto, e piante biodiverse, anche nell’interesse delle future generazioni?

Scena Seconda: Ilaria Salis, insegnante di Brescia, di 39 anni, compare in manette e catene anche alle caviglie, e guinzaglio tenuto da una guardia carceraria, in un aula di giustizia e davanti ad un giudice. Detenuta in Ungheria, paese UE, reduce dell’invasione sovietica condotta per sedare i bollenti spiriti civili del 1956. Alcuni intellettuali lasciarono allora il PCI, ma furono comunque troppo pochi, tanto da ritardare il processo di democratizzazione del più grande partito comunista in Europa.

Il video con la Salis in catene, questa volta,  è meno virale di quello del gattino e il mio barbiere mi chiede,con fare ammiccante… ma questa ragazza,  non pensa che sia andata a cercarsela? Tanto più che ha aggredito un gruppo di ragazzi….neo-nazisti, aggiungo io, con educazione e socratica argomentazione, perchè non voglio cambiare il mio barbiere, è una brava persona, mi taglia i capelli a punta di forbici e pratica prezzi giusti…eppoi, la prossima volta, parleremo di calcio.

Scena Terza.. Dietro quel muro, in via del Coroneo a Trieste, o nel Borgo San Nicola a Lecce, c’è un altro mondo, chiuso. Quello che accade al suo interno lo sanno in pochi, pochissimi, e i sempre più rari direttori di carcere, “figli” di quelli che avrebbero manifestato a Budapest nel 1956.

Ma che c’entra, mi incalza il mio adorato barbiere? Che c’entra il carcere con la storia del gattino o con quella di Ilaria Salis? C’entra! Dico io, eccome se c’entra, perchè sono vicende che si accomunano per un sentimento di  giustizia tradito, che è una cosa molto diversa, profondamente diversa dalla vendetta. E il video del gattino allora, quello diventato virale più delle immagini della Salis in catene? C’entra con la perdita del senso delle priorità di una società, quella raccontata benissimo nel film “La sala Professori” di Ilker Catak, dove non c’è un “ordine valoriale” che abbia preso il posto di quello gerarchico, ma c’è un  disorientamento generale, contraddittorio, un relativismo dove ragazzi di scuola media mettono sotto processo una professoressa che, a sua volta, turba lo spettatore anche perchè è lei ad essere  turbata dal suo disorientamento generale e valoriale.

E tutto questo c’entra anche con le detenzioni in condizioni inumane ( accade anche questo in Italia), quelle per le quali è considerato accettabile vivere in una cella di tre,….tre metri quadri e altre condizioni di angustia e scarsa igiene…tanto da poter godere del beneficio di una riduzione di  pena per ogni giorno di  ingiusta e disumana detenzione, così da violare l’art 3 della Cedu, la Carta Europea per i diritti dell’Uomo, e per la quale violazione lo Stato paga, annualmente, 2,7 milioni, pari a 235 euro al giorno, da moltiplicare per una somma- relativa ad una durata –  che potrà portare al massimo fino a 516mila euro per detenuto. Oppure ad ammettere sconti di pena, un giorno in meno per ogni dieci di detenzione inumana. Accade in Italia. Una sorta di patteggiamento dove vengono oscurati i diritti umani, non solo quelli, concreti, dei detenuti ma di tutte le persone che si sentono toccate da ciò, perchè non pensano che sia ancora in vigore la legge del taglione e quella della vendetta.

Cerco, allora, di comprenderne di più rivolgendomi ad un direttore penitenziario di lungo corso, ora in pensione, Enrico Sbriglia, già dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria che, dal dicembre scorso, per soccorrere i direttori “traditi”, è tornato ad impegnarsi sindacalmente per la categoria.

Gli chiedo: “ma cosa sta succedendo ? Davvero la situazione è così critica, perlomeno da quanto appare dal numero continuo di suicidi di detenuti nelle carceri ?”.

Mi guarda con imbarazzo,  direi vergogna, poi risponde:

Enrico Sbriglia: “Sì, ed è anche peggio di quello che si possa lontanamente immaginare. Lo Stato, da ormai molti anni, ha deciso, nei fatti, di disinteressarsi delle carceri, delle persone detenute e perfino degli stessi operatori penitenziari. Basti pensare che ci sono voluti oltre 25 anni per tentare di coprire il vuoto di organico tra gli stessi direttori penitenziari, determinando così un vuoto di funzionalità amministrativa che ha consentito di fare involvere verso una dimensione burocratica, quasi di matrice prussiana, riesumando la logica delle “divisioni”, termine già di per se significativo di una logica organizzativa basata sulle scomposizione e non su una visione “sistemica” dell’amministrazione, quella che era una realtà moderna di contesto che, al contrario, cercava la perfetta osmosi con la società civile, insomma, un salto all’indietro, ben oltre, al periodo in cui c’era il Corpo Militarizzato degli Agenti di Custodia. Non solo, ma sono circa 20 anni, che i direttori penitenziari a capo degli istituti carcerari, per adulti e minori, e degli uffici dell’esecuzione penale esterna, nonché negli altri ambiti dirigenziali, attendono che si apra il primo tavolo di negoziazione per il contratto di categoria, il primo in assoluto, e non di quello afferente un eventuale rinnovo. Questa è la prova manifesta di come, in realtà, si sia voluta azzoppare una categoria professionale di evidente rilevanza pubblica, che costituisce, con il suo fare, un monito permanente circa l’esigenza, avvertita solo a parole da quanti hanno governato negli ultimi lustri, che per davvero venissero rispettati i diritti umani e così si realizzasse concretamente una sicurezza sociale all’interno delle carceri. Questi ritardi organizzativi, mi chiedo, sono stati solo degli incidenti di percorso oppure la conseguenza di politiche finalizzate a destabilizzare il sistema? Si è trattato di incidenti casuali, oppure il risultato di un lucido piano di destrutturazione e destabilizzazione delle carceri dopo la speciale stagione della riforma del 1975 ?! Mah ! a volte mi assalgono tremendi dubbi, se non anche veri timori.”

“Si spieghi meglio !”:

“ Ci provo, nei fatti, osservando con occhio critico, si è preferito lasciare le Carceri senza direttori per un lungo tempo e fino a pochi mesi fa, dove, grazie a recenti assunzioni dopo un iter concorsuale di circa quattro anni,  in qualche modo è stata messa una pezza, assegnando in diversi istituti privi di direttore un dirigente titolare.

Ma le criticità continueranno, perché non tutti gli istituti hanno beneficiato di questa possibilità, mentre, nel frattempo, ci saranno ulteriori pensionamenti; tutto questo, per chi è sempre in allerta, potrebbe significare cedere a mani che potrebbero essere anche insanguinate, il reale governo delle carceri, lì dove fossero quelle dei capi delle organizzazioni criminali che da questi vuoti di potere potrebbero trarne profitto, trasportando  negli istituti penitenziari i propri modelli organizzativi, devo forse dire di più ? forse vogliamo imitare quel che succede in tanti paesi sudamericani dove le leadership sono costituite da cartelli della criminalità organizzata?

Illusorio è credere che possa essere sufficiente armare di tutto punto i sorveglianti, perché non è vestendo gli operatori penitenziari come dei RoboCop che si assicura la pace sociale dentro gli istituti carcerari, ma ricostruendo i progetti di vita e offrendo possibilità di ripensamento, di consapevolezza del torto causato alle persone detenute, ma chi non vede queste cose da dentro il carcere, non le capirà mai.

Tra l’altro i direttori hanno sempre manifestato il proprio dissenso che a capo dell’amministrazione penitenziaria vi fossero magistrati sottratti dalle aule di giustizia per essere allocati, fuori ruolo, presso il DAP, dove avrebbero svolto una funzione di alta amministrazione tipica del potere esecutivo e non, evidentemente, di natura giurisdizionale: praticamente, per noi direttori, questa postura continua ad essere percepita come una vera e propria invasione incostituzionale di campo.

La circostanza che, talvolta, fossero stati scelti anche degli ottimi magistrati, non corrispondeva al fatto che gli stessi potessero essere anche degli abili amministratori della cosa pubblica: insomma un conto è ius dicere, alium ius facere. Non devo certo richiamare la divisione delle funzioni e dei poteri di Montesquieu, ma tant’è, ed i risultati di gestione si vedono tutti guardando lo stato pietoso delle nostre carceri e l’introduzione “soft”, discreta, sotterranea, della pena di morte attraverso la pratica dei suicidi per contrastare i quali ogni capo del DAP è portatore delle proprie ricette, ancorché non abbiano mai visto talune tipologie di celle o i pertinenti contesti carcerari; a nulla finora è servito che i direttori facessero il proprio per migliorare il contesto; nel mentre, però, la porta d’ingresso, girevole, del Ministero  ha continuato a vedere, avvicendandosi, uno dopo gli altri, i diversi neo capi del DAP, che assumendo tale incarico sono divenuti Capi di un Corpo di Polizia, con tutti i vantaggi economici e di status che derivano da tale prestigiosa nomina.

Un punto di vista ulteriore ci verrà fornito da Graziano Pujia, attuale Direttore del Carcere di Trieste, “trattamentalista”, come si dice in gergo per riferirsi a chi crede nella rieducazione della pena.

Lo raggiungo telefonicamente, dopo tanti tentativi, il colloquio risente del fatto che mentre mi parla attende, contemporaneamente, ad altre cose, lo capisco dalle cose che dice, dalle disposizioni che, a nastro, produce: il suo lavoro appare frenetico. Penso allora ad un aforisma di George Bernard Shaw, che mi sembra affermasse: “L’uomo più ansioso di tutta la prigione è il direttore”.

Chiedo: “Qual è la situazione delle carceri, Direttore ?”

Graziano Pujia: “Occorre fare necessariamente delle distinzioni che tengano conto delle diverse realtà territoriali del Paese, nel senso che, seppure le criticità di sistema sono per lo più identiche ovunque, le comunità esterne al carcere, con le proprie istituzioni locali, possono lenire o peggiorare lo stato delle cose. Qui a Trieste, città di tradizionale cultura civica e di attenzione verso il disagio, la rete del volontariato e le istituzioni territoriali mostrano di osservare e di preoccuparsi del mondo del carcere e, su impulso della direzione penitenziaria, accolgono le nostre richieste di aiuto.

Gli operatori penitenziari, infatti, sono lasciati ormai da anni senza risorse sufficienti e con organici sempre inadeguati.

Però così non va bene, non è giusto, perché non si possono trattare, soprattutto i Direttori, come dei Comandanti azzoppati su navi sfasciate: prima li si spinge in mezzo ad un mare in tempesta, nel mentre li si priva di acqua potabile, di equipaggio, seppure essi lo chiedono in numero minimo, e poi si esige dai medesimi che raggiungano l’Eldorado.

Non solo, ma si nega ad essi il sacrosanto diritto alla carriera (uguale sorte ad altri dirigenti, pure presenti nell’amministrazione ma con altro status), perché i posti di vertice dell’amministrazione penitenziaria verranno occupati o da magistrati che sono a digiuno di gestione corrente delle carceri,

se non per le averle riempite di detenuti, o dai neo-dirigenti della polizia penitenziaria, di novella costituzione, cresciuti in un numero abnorme a causa di quello che noi direttori penitenziari riteniamo essere stato un raggiro delle normative in materia di dirigenza penitenziaria.

Questi dirigenti propri del Corpo della Polizia Penitenziaria, che spesso non hanno mai avuto una esperienza lunga e concreta all’interno delle diverse e mal messe carceri del Paese, andranno adesso a ricoprire incarichi e posti vitali per la vita del sistema organizzativo penitenziario, pretendendo di emanare, dall’alto, direttive gestionali rivolte ad un ambiente che non conoscono, perché non lo hanno sufficientemente vissuto.

Si badi, però, che i problemi non sono di oggi, ma risentono di una latitanza della politica del fare da almeno due decenni.

Qui a Trieste riesco, grazie al formidabile impegno dei miei collaboratori e ai picchi di eccellenza di alcuni di essi, a realizzare molte iniziative “trattamentali” che hanno la finalità di “leggere” la personalità dei detenuti e quindi, al momento opportuno, poterci esprimere sulla reale eventuale possibilità di reinserimento nella società degli stessi, ma davvero si potrebbe e si dovrebbe fare di più, e tutto questo si tradurrebbe in reale sicurezza per i cittadini, solo se avessimo le risorse umane e strumentali necessarie. Non è serio un sistema penitenziario che debba poggiarsi sulla disponibilità del mondo del volontariato, non è serio un sistema che preveda l’impiego di psicologi per poche ore al mese per centinaia di persone detenute che abbiano bisogno di essere ascoltate, ma anche per consentire alla magistratura e a noi direttori penitenziari di meglio valutarne le personalità; non è serio un sistema penitenziario che, a causa di vistose falle della sanità, non riuscendo a trovare uno spazio di vita e di cura a persone folli che hanno commesso, perché malati mentalmente, reati talvolta anche gravissimi, invece di vedere il sistema della salute prendersene davvero carico, li tenga parcheggiati dentro le celle delle carceri, spingendoli finanche ad ulteriori azioni violente o autodistruttive. Purtroppo le cose non vanno bene e tra noi direttori penitenziari, pure perché riteniamo pericolosa la linea confidenziale che è maturata tra il mondo di una dirigenza di polizia che non conosce le carceri, e i vertici formati da magistrati, che pure presentano la stessa inevitabile caratteristica di scarsa conoscenza del pianeta di ferro, possa favorire il rischio di una “escalation” di criticità che ricadrà poi sulle nostre spalle, su quelle dei nostri collaboratori, funzionari giuridico-pedagogici, sul personale amministrativo e, in particolare, su quello della polizia penitenziaria meno “gallonata”,  ma per questo sempre presente e sacrificata all’interno delle nostre strutture carcerarie”.

Un’ultima riflessione afferisce alla mancanza di vision politica rispetto ad una problematica che, se affrontata seriamente e pragmaticamente, ridurrebbe di colpo di un terzo la popolazione detenuta e deflazionerebbe di un terzo il sistema giudiziario penale. Come? Cambiando prospettiva nei confronti dei detenuti tossicodipendenti e/o legati ai problemi con sostanze legali che creano dipendenza (alcool).

Considerandoli cioè dei malati, al pari dei soggetti che presentano disturbi psichiatrici, che hanno bisogno di cure e non di essere ristretti alla stessa stregua degli altri, solo perché hanno commesso reati legati alla loro condizione di tossicodipendenti.

Certo, per fare questo servono comunità di recupero alternative al carcere, posto che quest’ultimo non è il luogo idoneo per nessun tipo di cure, figuriamoci per i soggetti de quibus. A ciò si aggiunga anche il vantaggio di una drastica riduzione, oserei dire quasi azzeramento, della piaga dei suicidi in carcere: basterebbe riflettere sulla percentuale di tossicodipendenti che ogni anno si tolgono la vita nelle celle o di coloro che si auto-lesionano in modo permanente.

E che non si venga a parlare di costi aggiuntivi per realizzare le auspicate comunità!!! Sarebbero sufficienti i fondi stanziati periodicamente dal d.P.R. 309/1990, artt, 127 e ss.

Articolo Enrico Conte

Dott. Sbriglia,  quali soluzioni immediate occorra porre in essere?

Enrico Sbriglia “Caro Conte, anche lei ha lavorato in contesti pubblici ed ai massimi livelli di responsabilità, lei sa bene che per affrontare una criticità grande occorre avere anche una visione grande, sistemica, e non scomposta delle problematiche e, soprattutto, delle finalità istituzionali che le leggi pongono in capo alle singole amministrazione.

Nel nostro caso, il problema più grande è quello del sovraffollamento detentivo, il numero dei detenuti cresce e crescerà ancora, la pressione sui cancelli diverrà insostenibile. Di contro, le carceri sono praticamente tutte fuori norma, non assicurando neanche la regolare e sistematica fruizione dei servizi alla persona, ancorché detenuta, che dovrebbero regolarmente erogare. Inoltre manca il personale sia specializzato e alle dipendenze della stessa amministrazione, nonché quello di sorveglianza, che quello sanitario, che dipende invece dalle regioni e dalle aziende sanitarie. Insomma, il quadro è fosco.

Allora, se dovessi proporre qualcosa, inizierei da quella che potrebbe essere banale, ma che al mio avviso è doverosa: DIRE LA VERITA’ AI CITTADINI, spiegando che lo stato delle carceri è così clamorosamente critico che richiede misure per davvero extraordinem, straordinarie, urgenti, inevitabili ove non vogliano contare criticità altrimenti devastanti.

DIRE LA VERITA’ è segno di lealtà istituzionale e di rispetto verso la cittadinanza, che non è stupida e apprezzerà l’onesta della dichiarazione, che poi è, nei fatti, una dichiarazione di stato d’emergenza.

La seconda cosa, andrebbero previste le misure straordinarie ma necessarie, di natura legislativa, dell’AMNISTIA e dell’INDULTO, preferibilmente della prima, perché avrebbe il vantaggio di azzerare significativamente il lavoro delle carceri, dei matricolisti, delle cancellerie dei tribunali, consentendo che si concentrino sui casi dei detenuti che non potranno godere del beneficio.

NON sarebbe una resa dello Stato, ma al contrario un gesto di ragionevolezza e di rispetto verso tutti i cittadini, che non si sentirebbero più ingannati di fronte alla realtà delle cose.

 Realizzando spazi attrezzati per lo studio, il lavoro, per l’insediamento di aziende che assumano le persone detenute, senza vincolo di continuità di rapporto di lavoro allorquando tornino in libertà, ma con la possibilità di essere assunte se il piano industriale delle aziende contemplino tale sviluppo e aumento di manodopera.

Le leggi del mercato del lavoro prescindono da quelle che attengono il mondo penitenziario, ma si possono trovare intese, accordi, collaborazioni.

Ancora, andrebbe rimpolpato il personale penitenziario di altre risorse umane, ma subito, semmai attingendo per quelle specialistiche trattamentali da albi professionali ed in accordo con le organizzazioni professionali che ne curano gli interessi lavorativi.

Ma soprattutto, andrebbero rivalorizzati i direttori penitenziari, dando vita finalmente al loro primo contratto di categoria, talché possano operare con certezza di status, di trattamento economico e di quello giuridico, oggi governato da logiche astruse di equiparazione alle forze di polizia in attesa proprio del primo contratto di categoria, e siffatta situazione, che rappresenta a ben vedere un oltraggio per la categoria dei dirigenti penitenziari di diritto pubblico, è davvero umiliante e demotivante, favorendone l’uscita di chi possa trovare altre sponde professionali.

Le conclusioni sono rimesse al lettore che avrà avuto la costanza di seguire fino in fondo questo scritto.

Houston, abbiamo un problema! Verrebbe da dire, tanto più se le immagini del trattamento disumano riservato a Ilaria Salis in Ungheria, saranno messe in relazione con le informazioni  allarmanti e inquietanti sul mondo delle Carceri in Italia dove, ricordiamo, l’art. 27 della Costituzione prevede la funzione rieducativa della pena, e non la vendetta.

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