“CAPTIVI”, di Enrico Sbriglia, perché è un libro strano, “fuori dalle regole”, in una parola non omologato
di Enrico Conte
Non è facile descrivere “CAPTIVI”, di Enrico Sbriglia, perché è un libro strano, “fuori dalle regole”, in una parola non omologato.
A volte sembra che, con la sua scrittura, l’autore accarezzi il lettore, facendogli concepire un mondo delle carceri ben diverso da quello che spesso i luoghi dell’immaginario e finanche della cronaca ci propinano, quasi una realtà confortante, protettiva, altre volte, invece, lo lascerà senza fiato, agitandolo tra tantissimi interrogativi e timori.
“CAPTIVI” descrive, comunque, un carcere marcatamente “italiano” nei suoi paradossi, nel suo persistere da troppo tempo in un equilibrio precario, dove tutto alla fine è opinabile, così come forse, in fondo, è discutibile la stessa idea di giustizia e di pena, quale quella che apparirebbe diffusa, in questi anni di confusione sistematica del diritto, sia tra gli ambienti istituzionali che tra quelli della gente comune e, cosa ancora più grave, nella letteratura sia cinematografica che romanzata, la quale, forse anche inconsapevolmente, si trova spesso a svolgere il compito di apripista a tendenze concettuali, modelli e semplificazioni pericolose.
Solo nei mesi scorsi, per fare un esempio, proprio a Trieste, la località che primeggia nei racconti dell’autore come luogo delle sue storie, si sono girate diverse scene di una fiction di successo, si tratta dei nuovi episodi della serie “Il RE”, con Luca Zingaretti; l’attore veste i panni del direttore di carcere Bruno Testori; ebbene, questo personaggio è completamente diverso da quello di Cesare Sanfilippo, il direttore immaginario che la fantasia (ma sarà proprio tale ?) di Sbriglia descrive, così come le persone e i fatti del mondo carcerario che lui racconta, distanti anni luce, anzi perfettamente contrapposti, a quelli della fortunata serie televisiva.
Sbriglia, verosimilmente, raccoglie scampoli, rimestandoli, di ricordi professionali realmente vissuti e di situazioni limite, ed il suo protagonista, Cesare Sanfilippo, dovrà affrontarle talvolta in modo originale, ben comprendendo come non possa commettere alcun errore all’interno di quel mondo fatto di ferro e di speranze appese.
La sensazione che talvolta emerge dalla lettura dei capitoli, i quali sono declinati in modo alfabetico, perché ogni storia è intestata col nome dei detenuti o, almeno in un caso, con quello di un’agente della polizia penitenziaria femminile, suggerisce un rapporto speciale che il protagonista direttore ha con ciascuna persona detenuta e con le loro storie: Alberto, Alessandro, Amedeo, Bambi, Branko, Bruna, Carmen, Daniel, Dimitri, Don Ciccio, Felipe-Irene, Fiorellina, Gabriele, Granto, Hamed e Andras, etc. etc., sono essere umani in carne ed ossa, sono i “CAPTIVI”, i prigionieri, che incrociano nella loro vita quella del direttore Sanfilippo.
Questo singolare servitore dello Stato cercherà di comprenderle, dipingendone distintamente i profili psicologici, quelli umani, i loro, ed in fondo anche i suoi, limiti.
Insomma, si instaureranno dei rapporti umani che sono proprio tutto il contrario di quello che viene di solito, ed erroneamente, immaginato quando si parla di carcere e della sua comunità detenuta e detenente insieme.
Sono ventisei e più nomi, una buona parte di essi sono stranieri, evocando altre culture, altri continenti, altre storie di paese, ma tutte quelle persone si ritroveranno insieme e, per qualche tempo, si accetteranno o si detesteranno in quel microcosmo del carcere, ognuno trascinando la propria vita.
Ci sono i nomi anche di operatori penitenziari, perché quel mondo non fa distinzioni e non potrebbe farlo, perché le sbarre ed i divieti, le mura ed i cancelli, condizionano anche quanti siano giuridicamente “liberi” ma che lì, inevitabilmente, non lo saranno più; talvolta, infatti, le loro storie si intersecheranno con quelle degli ospiti, dando vita ad un presepe vivente, che attende, molto probabilmente, l’avvento di una speranza condivisa.
Insomma, leggerlo può far bene, perché raccontando di storie “fantastiche” si riferirà, senza essere costretti a sfogliare i tradizionali manuali giuridici, che si ha la sensazione che parlino solo a sé stessi, delle criticità di un sistema penitenziario e giudiziario insieme.
Di un sistema “giustizia” palla alla caviglia per tutti, anche dei cittadini che si sentano “probi” e che vorrebbero per davvero vivere a “piede libero” la loro quotidianità, perché sempre rispettosi delle leggi, i quali, affacciandosi anche solo come spettatori curiosi sul proscenio della giustizia, sentono crescere il timore, insieme alla consapevolezza, di come invece sia facile rimanere impigliati nell’ingranaggio inesorabile della macchina giudiziaria, dei suoi riti sacrificali e degli suoi esiti.
Inoltre, nel libro, anche diverse figure al femminile hanno la loro rappresentanza, pure per ricordarci che il crimine, anche quello più sanguinario, non solo, talvolta, può essere “banale” ma che è anche “trasversale”, seppure statisticamente ne sia predominante la dimensione al maschile.
E’, infine, un libro che esorta, sussurrandolo perché si insinui nel subconscio più profondo della nostra coscienza, il bisogno di vere riforme del sistema giustizia e delle sue sanzioni, troppo spesso solo annunciate o venute alla luce attraverso procedure abortive, perché immancabilmente prive delle risorse umane e finanziarie necessarie e, già solo per questo, votate inesorabilmente al fallimento.
Potrà anche non piacere “CAPTIVI”, ma certamente sarà un libro difficile da dimenticare.