Camilleri, Montalbano e la mafia
di Mario Pintacuda
A Palermo il “muro della legalità” sorto due anni fa nel quartiere Capo, in via San Gregorio, in prossimità della Caserma dei Carabinieri “G. Carini”, presenta in una mostra a cielo aperto i volti dei caduti nella lotta contro la mafia e di alcuni personaggi della letteratura siciliana.
L’altra sera, osservando questi encomiabili “murales”, ho notato che il primo personaggio rappresentato all’inizio del muro è Andrea Camilleri; e in effetti innegabilmente il tema della mafia è stato sempre trattato dallo scrittore empedoclino con attenzione, acutezza, disincanto e anche spesso con una buona dose di dolente ironia.
Il commissario Montalbano, personaggio “scomodo” a tanti livelli, è consapevole di dover lottare su più fronti e li elenca lucidamente al suo vice Mimì Augello: «Uno, la sdilinquenza comuni; dù, gli omicidi occasionali; tri, la mafia; quattro, i deputati collusi con la mafia» (“Una voce di notte”, Sellerio 2012, p. 71).
Scenario delle indagini di Montalbano è la Sicilia (e con lei l’Italia) contemporanea, con le ben note piaghe che l’affliggono, inclusa ovviamente la mafia; tuttavia Montalbano sembra distinguere fra la mafia “tradizionale” degli anziani (come il boss Balduccio Sinagra), legata comunque a certi “valori” (per quanto distorti), e la mafia “emergente” dei “picciotti” sanguinari, violenti, dediti a traffici sporchi di droga, organi, esseri umani, armi, senza alcun freno morale: «La nova mafia spara a tinchitè, a dritta e a manca, a vecchi e a picciliddri, indove capita capita e non si degna mai di dari ‘na spiegazioni di quello che ha fatto. La vecchia mafia no: spiegava, cuntava, chiariva. Certo non a voci o mittenno nìvuro sopra bianco, chisto no, ma a segni» (“Il campo del vasaio”, Sellerio 2008, p. 110).
Il tema non è nuovo: anche il capitano Bellodi ne “Il giorno della civetta” riconosce al mafioso don Mariano l’onore delle armi e ne riceve attestazioni di palese stima; ma in Camilleri (autore nato nel 1925) emerge ancor di più questa tendenza alla “distinzione” fra le due diverse mafie: «La mafia antica aveva un codice d’onore, delirante quanto si vuole, criminale quanto si vuole, ma codice. Un vecchio mafioso, dovendo ammazzare uno che passeggia sottobraccio alla moglie, avrebbe detto alla donna, prima di sparare: “Signora si scosti”. La mafia nuova non avrebbe aperto bocca e avrebbe ammazzato tutti e due» (cfr. “Quaderni Camilleriani” 2, 2016, p. 16).
In realtà questo cliché ha fondamenti piuttosto evanescenti: gli innumerevoli ed inqualificabili episodi di ferocia da parte della mafia “antica” dovrebbero bastare a smontarlo. Del resto, l’autore stesso collegava questo suo modo di intendere la mafia con la sua decennale assenza dalla Sicilia, che gli aveva fatto perdere il contatto con l’evoluzione sanguinaria della nuova mafia dei kalashnikov e del tritolo; i suoi “uomini d’onore” (Balduccio Sinagra in primis) sembrano trascritti dal modello sciasciano di don Mariano Arena, con una rappresentazione che è stata severamente avversata da certa critica (basti ricordare un’esplicita polemica condotta in proposito da Sebastiano Vassalli, che in essa accomunava anche Sciascia).
Non va taciuta inoltre, per questo aspetto, la perplessità tenace di Camilleri davanti all’inserimento di tematiche mafiose nella sua produzione letteraria, sia pure per motivi ideologici. Ad esempio, era fortissima in lui l’avversione ad opere come “Il padrino” di Mario Puzo, che a suo parere conducevano a vere forme apologetiche nei confronti della mafia: «Non intendo parlare di mafia – l’ho detto e lo ripeto – se non in forma marginale, nei miei romanzi. Farne i protagonisti di un romanzo anche scadente significa sempre e comunque nobilitarli. E io questo titolo non voglio concederglielo» (da un’intervista ad Andrea Camilleri, in G. Bonina, “Il carico da undici – Le carte di Andrea Camilleri”, Siena 2007, p. 267).
Anche in “Riccardino” (il romanzo pubblicato postumo nel 2020) Camilleri sembra infastidito dal “fritto e rifritto rapporto mafia-politica”, come dice esplicitamente al suo personaggio: «Insomma, stai lustrando i soliti pupi del tuo consueto teatrino dell’opera dei pupi. E cioè quello dove s’inscena il fritto e rifritto rapporto mafia-politica sul quale i miei lettori cominciano a dare più che giustificabili segni di stanchezza. Sai quanti mi chiedono “una bella storia gialla” che sia semplicemente tale, vale a dire senza che c’entri la politica o la mafia?» (“Riccardino”, Sellerio 2020, p. 247).
Forse anche a causa di questa impostazione di fondo del suo autore, Montalbano – pur essendo profondamente avverso alla mentalità mafiosa e pur detestando ogni forma di omertà – non riesce ad incidere sullo strapotere della criminalità organizzata; le due famiglie rivali dei Sinagra e dei Cuffaro, che spadroneggiano a Vigàta, nonostante qualche occasionale colpo ricevuto dalla giustizia, perpetuano senza intoppi il loro dominio criminale.
Dalle indagini sui delitti di mafia anche Montalbano esce “con le corna rotte”, come si legge nel racconto “Par condicio”: «Nel primo anno di commissariato a Vigàta, Salvo Montalbano, che non aveva voluto abbracciare la scuola di pinsèro del collega che l’aveva preceduto, “lasciali ammazzare tra di loro, non t’intromettere, è tanto di guadagnato per noi e per la gente onesta”, sulle indagini per quegli omicidi si era gettato cavallo e carretto, ma era uscito con le corna rotte. Nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito, nessuno sospettava, nessuno immaginava, nessuno conosceva nessuno. “Ecco perché Ulisse, proprio in terra di Sicilia, disse al Ciclope di chiamarsi Nessuno” arrivò un giorno a farneticare il commissario davanti a quella nebbia fitta» (da “Un mese con Montalbano”, Sellerio 2017, p. 63).
Conseguentemente Montalbano non si fa illusioni, conosce i limiti dell’azione investigativa nel nostro Paese; sa che certe verità sono scomode, che la legge non è uguale per tutti, che per chi fa il suo dovere non esistono premi e gratifiche. Ad esempio, quando sente parlare di un nuovo integerrimo giudice arrivato a Montelusa, tale Barrafato, lo compiange apertamente: «Poviro Barrafato! […] Un jorno o l’altro, a forza di scassare i cabasisi alla mafia, Barrafato s’attroverà deferito al CSM per ‘na intercettazioni che, secunno qualichi deputato, lui non avrebbi dovuto fari, il so nomi sarà sputtanato da tutti i giornali e le tilevisioni, e alla fini verrà trasfirito per incompatibilità ambientali» (“Una voce di notte”, Sellerio 2012, p. 100).
La convinzione che i funzionari onesti e scrupolosi rischino sanzioni, trasferimenti punitivi e aspre critiche è radicata anche nella produzione “storica” camilleriana: figure come il delegato Puglisi ne “Il birraio di Preston” (Sellerio 1995) o il delegato Antonio Spinoso ne “La concessione del telefono” (Sellerio 1998) ne sono esempi evidenti.
Per dimostrare (se ce ne fosse bisogno) l’impegno antimafioso di Camilleri, basterà ricordare alcuni esempi fra i tanti tratti dalla sua immensa produzione letteraria e saggistica.
In uno dei suoi articoli (“Storie di mafia e DC a uso degli smemorati”, in “Come la penso”, Milano, Chiarelettere, 2013, pp. 79-89), l’autore esaminava la penetrazione della criminalità nella sfera politica, con riferimento in particolare alla vicinanza fra mafia e Democrazia Cristiana negli anni ‘50 e ’60. In un altro volume Camilleri, studiando il contesto della fine degli anni ‘70 e dei primi anni ‘80, affrontava il caso Sindona leggendolo come «un esempio del malaffare italiano, dove si vengono a trovare coinvolti uomini politici e delinquenti comuni, banchieri e mafiosi» (“Un onorevole siciliano. Le interpellanze parlamentari di Leonardo Sciascia”, Bompiani, Milano 2009, p. 23).
Esiste inoltre una pubblicazione di Camilleri totalmente dedicata all’argomento mafioso; si tratta di “Voi non sapete” (Mondadori 2007), una specie di abbecedario mafioso costruito in base ai “pizzini” di Bernardo Provenzano: «a Camilleri sembra anche interessare la messa in discussione dell’aura che circonda il boss mafioso e più in generale l’organizzazione da lui diretta. Attraverso l’ironia, Camilleri decostruisce, disincanta, dismaga l’uomo, il suo linguaggio e i suoi principi. Con l’ironia, egli mette in crisi il senso dell’assoluto mafioso che l’organizzazione ha tentato fin dalla sua nascita di propagandare come composto da una sorta di sacri principi indiscutibili che starebbero a fondamento della sua legittimità: l’onore, la famiglia, il silenzio, la gerarchia, il rispetto per le donne e i bambini… Tutto il lavoro di Camilleri è costellato di esempi di questo suo abbassamento del linguaggio ottenuto tramite l’ironia» (C. Milanesi, “Rappresentazioni della mafia nella non-fiction di Andrea Camilleri”, in “Quaderni Camilleriani 2”, 2016, pp. 56-57).
In definitiva, è assolutamente scorretto minimizzare (come pure qualcuno ha fatto) l’impegno antimafioso di Camilleri; soltanto occorre ammettere che, nella sua analisi a tutto campo, lo scrittore considera il tema mafioso «un segmento importante, ma non l’unico, della realtà»; infatti «ciò che traspare dai racconti montalbaniani è, ancor più di una Cosa nostra strutturata, una “mafiosità” diffusa che condiziona la quotidianità di tutti i personaggi» (F. La Licata, La mafia – che non c’è – nei romanzi di Camilleri, in “Quaderni camilleriani” 2, 2016, p. 14).
P.S.: Per queste e altre riflessioni, rimando al mio volume “Camilleriade – I luoghi, il commissario, i romanzi storici”, scritto con Vito Lo Scrudato e Bernardo Puleio e pubblicato lo scorso anno da Diogene Multimedia (in particolare, cfr. pp. 175-179).
Mario Pintacuda
Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.Visualizza tutti gli articoli di Mario Pintacuda.