Brindisi nella Prima Guerra Mondiale
Dall’Opera “Mi racconto la mia vita” – L’araba Fenice edizioni Magna Grecia
di Tommaso Bellanova
La scoperta di una città come Brindisi durante la guerra ’15 – ’18 ebbe sulla mia formazione la sua influenza. Fino a quel momento la vita che avevo trascorso in paese era quella di un recluso in un luogo uniforme, cinto da un’insormontabile barriera.
Paesaggio uniforme, monotono e stanco, casette rustiche come scatole di terra messe l’una al fianco dell’altra senza ordine e senza gusto, vie impraticabili, fangose d’inverno, polverose d’estate, facce cupe, abbronzate, rugose e scarne per le fatiche e le privazioni e uno stordimento diffuso in tutte le cose, l’aspetto tetro e immutabile di una miseria senza fine: il Limbo terrestre, la sala d’attesa della morte dello spirito prima ancora del corpo. Non un raggio di speranza nelle tenebre, ma eterna, pesante monotonia fatta di sofferenze soffocate, di odi e di rancori contro tutto il creato.
Piaceri, svaghi, distrazioni perennemente assenti. Si conosceva il mondo solo quando a vent’anni si doveva abbandonare il luogo natio per compiere i cosiddetti obblighi militari per imparare ad uccidere e prepararsi a farsi uccidere eroicamente. Poi si ritornava a casa a raccontar frottole militari e meraviglie dei luoghi e della gente di lontane contrade. Certo, si trattava di esperienze eccezionali di un’esistenza chiusa nella ferrea impossibilità di aprirsi un varco verso uno sbocco umano, di conquistarsi lo spazio necessario allo sviluppo di una personalità non soffocata dal bisogno e dalle crudeli convenzioni sociali. Non di rado poi il servizio militare accendeva improvvise e sopite speranze e apriva la via a modeste affermazioni. Anzi molti giovani ne facevano il sogno della loro vita e si arruolavano volontari nelle varie Armi col proposito di fare onorata carriera e dar così lustro alle proprie famiglie e al proprio nome. Un maresciallo era una personalità importante e rispettata e tale ancora oggi, malgrado l’evoluzione, è ritenuta. Conforto dei meschini…
Quale contrasto dovette allora suscitare nel mio spirito l’improvviso trasferimento in una città dove fervevano i preparativi della guerra e Marte superbo e fero mostrava la sua spietata immagine di morte.
Sessant’anni or sono (i ricordi risalgono al periodo 1970-1975 – N. D. E.) quella città non era che una grande borgata agricola addormentata nel fasto della storia e nella superba indolenza dei suoi abitanti. Paga delle gloriose vicende che dai Romani in poi le avevano dato fama e onori, vivacchiava all’ombra dei ricordi e nella beata pigrizia. Senza più pretese, senza iniziative, la sua gente non era dissimile da quella dei paesi, un po’ più pingue e più soddisfatta. Anche nell’aspetto esteriore la città non offriva differenze notevoli con altri luoghi: case squallide ovunque, ancora tetti di canne e di embrici, come nelle epoche lontane, costruzioni pesanti e rustiche, assenza di gusti, e poi delle plaghe luride come le Sciabiche, come Porta Lecce, come la Pietà.
Le vie principali, se offrivano una sorprendente novità col resto, non le davano le sembianze di una città evoluta e attiva. Palazzi comuni tra il primo e il terzo piano, avvicendate da casette di periferia e da locali pubblici insignificanti, costituivano le due vie principali che menavano alla marina, unica incantevole gemma di cui giustamente il popolo brindisino è andato sempre superbo. Tolti i due Corsi, Via Colombo, Via Carmine, tutto il resto era paese, con l’aggiunta di una affettata, intollerabile verniciatura cittadina. I locali pubblici più accoglienti del tempo erano costituiti dal Teatro Verdi (demolito recentemente a causa – dicono – di pericolosa instabilità). In quel luogo, che diversamente utilizzato, avrebbe esaltato la bellezza di tutto il Corso principale, sorge ora un immenso edificio, dove decine di famiglie esperimentano a spese dello spirito e del corpo le delizie del traffico caotico e la pestifera esalazione dell’ingente quantità di gas che le graziose macchine della civiltà vomitano ininterrottamente.
La bella Piazza Cairoli ha fatto le spese della follia edilizia accentratrice. Dai due rinomati caffè Fiamma e Caprez, cui in seguito si aggiunse il caffè Torino, che segnò la fine del Caprez; da due discreti alberghi: l’Internazionale e il Bologna. Infine una quantità di negozi vari, fra cui spiccavano le salsamenterie Panizzolo, nei pressi di Piazza Sedile. Bella anche la Piazza Coperta, rimasta sostanzialmente intatta; Piazza Vittoria, dove ancora la storica vecchia fontana lacrima silenziosa, aveva in quel tempo un aspetto profondamente diverso. La parte centrale di essa, a partire dallo sbocco di Via Carmine con Piazza Sedile, era per un buon tratto occupata da rustici fabbricati adibiti ad esercizi dozzinali dominati dalla drogheria del Greco, dove potevi fornirti di spezie d’ogni genere a buon mercato e genuine. Questo locale era frequentatissimo, come molto frequentata era la stretta e corta via dove sorgeva. Era un locale oscuro e pesante come i locali di alcuni vicoli di Taranto Vecchia o di Napoli, ma, in compenso, emanava un profumo di caffè e droghe che ristoravano. Così pure ristoratore e invitante era il fumo delle cucine che occupavano il resto di quel viottolo. Io lo percorrevo diverse volte al giorno per attingere acqua dalla fontana e sempre ficcavo il naso in quei locali che mi inebriavano con il loro profumo.
Ora sono un ricordo e tutte le volte che ho percorso quel tratto – ora la Piazza di Spagna brindisina – esso balza alla mia mente con tutto il fascino dell’età innocente. Ma la città sarebbe senza vita se il suo incantevole porto non esistesse. Questo è tutto ciò che di grande e di ammirevole possiede Brindisi, questo è la sua storia nei secoli e sarà più ancora nell’avvenire. Non c’è nulla di più bello, di più fascinoso nell’Adriatico dopo Venezia. Tutte le altre bellezze impallidiscono al suo confronto. Profondo, spazioso, sicuro, ben protetto contro ogni insidia umana e divina, può assolvere tutti i compiti militari e commerciali. Sessant’anni fa era ancora più bello, più armonioso, aperto alla vista del Corso, attraeva a sé tutti, era la meta di ogni cittadino, di ogni persona di passaggio. Nessuno mai ha visto Brindisi ignorando il suo incantevole porto. Il porto è Brindisi e Brindisi è il porto.
Quando io vi giunsi la prima volta era pieno di naviglio militare. Alla banchina, quasi di fronte alla Capitaneria, vi era un trasporto militare, la Città di Palermo. Rimasi incantato ad ammirarlo. Mi sembrava di sognare: una maestosa immagine di grandezza e di potenza, un fiabesco mondo tutto meraviglie, come una visione di sogno lontano lontano. Mi sentivo smarrito nell’irreale e irresistibilmente rapito al cospetto di una creazione sovrumana. Quante volte avevo visto stampata una nave, ed ora l’avevo lì davanti, incredulo e stordito. Che cose grandi sa costruire l’uomo!
A poca distanza da questa, lungo la banchina, era ormeggiata la Vettor Pisani, nave ammiraglia più tardi sostituita dalla Bausan; più in là, in rada, gli esploratori Quarto, Marsala e Nino Bixio, e poi verso le Sciabiche un brulicare di torpediniere, caccia e navi ausiliarie. Verso il Casale una vecchia nave francese, la Renan, se ne stava acquattata, quasi estranea a tutto ciò che le era intorno. Più lontano, isolata presso il Forte a Mare, la Benedetto Brin attendeva il suo crudele destino. Dappertutto armi e uomini armati. Lì soldati che attendevano l’ora della partenza per i campi di battaglia; a dritta e a manca marinai intenti a lucidar cannoni e mitragliere, a ingrassare ingranaggi, a brandeggiare torri e lanciasiluri; ad esercitarsi senza posa nel maneggio delle armi, delle mine, delle bombe, di tutto l’armamentario della distruzione. Un arsenale in febbrile attività, dove tutto era volto a perfezionare e rendere più micidiali i congegni e le installazioni di morte. E furono queste navi, che, partendo da questo porto, affrontando gravi pericoli, salvarono l’esercito serbo, che dall’opposta sponda tendeva le braccia anelante e smarrito. Qui furono ospitati trecentomila profughi, molti dei quali non videro più la loro terra, quella terra che aveva incendiato l’Europa con la tragedia di Serajevo e che mai più doveva ricomporsi in unità indipendente.
A rendere ancora più suggestiva la zona del porto si erge verso il cielo, quasi a conquistare gli spazi, la magnifica Colonna Terminale della Via Appia, quella conservata nel posto di origine. L’altra adorna Piazza S. Oronzo in Lecce, dove fu trasferita, venduta, secondo la leggenda, dai brindisini per una corda di salame.
In quello spiazzo vi è la casa che accolse l’ultimo respiro dell’Immortale Cantore dell’Eneide. Tutto parla di Roma e dei Romani, perciò i brindisini possono, a giusto titolo, andare fieri. E taccio di altro perché qui non faccio, e non potrei farla, la storia di Brindisi e non narro le vicende di cui fu protagonista.
Il porto era la mia passione e tutte le volte che potevo correvo laggiù ad aggiornarmi, a raccogliere notizie, a vedere le novità. Quando la scuola era al Vescovado, con un salto raggiungevo la Salita Colonne e il porto mi si offriva quasi nella sua interezza. Più tardi, trasferitici al Palazzo Guerrieri, mi era ancora più agevole la quotidiana visita. Percorrevo in men che non si creda l’intera Via Carmine, a Piazza Sedile imboccavo Via Filomeno Consiglio e finivo dritto al porto; indi, con una piccola deviazione, ero già a scuola – dove giungevo sempre in anticipo.