Breve storia della gondola tra sfarzi e asimmetrie
di Gustavo Vitali
Di recente nel sito di Antenna 3 ho letto un interessante articolo corredato da un video: si parla dello “squero” quattrocentesco di Casal ai Servi in Venezia dove fino al 1920 si sono costruite e si fatta la storia della gondola.
Lo “squero” e le gondole
Per i non veneziani lo “squero” è un cantiere navale.
Oggi quello di Casal ai servizi sopravvive grazie all’opera di molti volontari e tra costoro quelli dell’associazione Arzanà che ha come fine statutario lo studio, il restauro e la conservazione delle imbarcazioni tradizionali della laguna di Venezia. Arzanà è anche il nome antico dell’Arsenale di Venezia tramandato da Dante Alighieri nella Divina Commedia.
In questo cantiere hanno lavorato fior di mastri d’ascia e in particolare Beppo Casali detto “Il Grando” al quale si deve la tecnologia dell’attuale gondola, cioè un’imbarcazione asimmetrica per facilitare la voga da parte di un solo uomo. Siamo verso la fine dell’800 e fino ad allora per far navigare una gondola erano quasi sempre necessari due rematori, ma anticamente se ne erano incrociate certe capaci di trasportare addirittura trenta passeggeri. Di conseguenza aumentavano i remi, fino a dodici, come l’antica “dodesona”.
Con il tempo questo natante era stato sempre di più adibito al trasporto di persone o come mezzo di rappresentanza, lasciando le merci a barche più grezze. Le une e le altre indispensabili in una città con pochi ponti a collegare le isole, calli spesso strette come pertugi e dove le vie d’acqua erano più agevoli rispetto a quelle di terra. I veneziani fin dai tempi dei primi insediamenti in laguna si erano assuefatti all’acqua e all’uso delle barche.
Evoluzione della gondola
Pare che il nome gondola, o “zondola”, o “grondola”, sia antichissimo, addirittura di origine persiana. Con il significato di barca era apparsa nel latino di Giovenale, la “gondeia”, e nel greco antico, “kondy”, una specie di piccola tazza.
La forma, un tempo corta, poco slanciata, tozza, scarna, si evolverà nei secoli fino a raggiungere dimensioni ragguardevoli con rivestimenti in stoffe pregiate e damaschi. Le rappresentazioni pittoriche del XV e XVI secolo mostrano un’imbarcazione notevolmente diversa da quella attuale. Nel quadro di Vittore Carpaccio “Il Miracolo della Croce a Rialto”, o in quello quasi omonimo “Miracolo della Croce caduta nel canale di San Lorenzo”, opera cinquecentesca dell’artista Gentile Bellini, le gondole appaiono più corte, più larghe, meno slanciate di quelle attuali e prive di asimmetrie.
Poi la prua diventerà più stretta e le coperte, un tempo piatte e basse sul pelo dell’acqua, perderanno la loro forma originale per assumere quella spiovente. La forcola per l’appoggio del remo, dapprima piatta ed essenziale, assumerà con il tempo una forma a gomito.
Inoltre l’imbarcazione prenderà a esagerare in simboli e decori, tanto da costringere a più riprese il governo della Serenissima a tentare di metter freno con pene pecuniarie a quella che era diventata una competizione di sfarzo a tutti gli effetti. Pure il “felze” posto a metà barca, da semplice copertura ricurva e ricoperta di frasche, panno oppure legno per proteggere il passeggero dalle intemperie, ma anche da sguardi indiscreti, con il tempo assurgerà a ostentazione di lusso e potere. Arredato con un divanetto ricoperto, come tutto l’interno, con tessuti pregiati quali rasi, sete, broccati, ecc., aggiunta di specchi e finestrelle di vetro molato e ricercate passamanerie in nero con fiocchi in seta al termine, fino trentasei tra piccoli e grandi, andrà in pensione nel corso dell’800 per lasciare posto alla gondola tutta aperta come la conosciamo oggi.
I legni della gondola
Per forgiare il remo, lungo dodici piedi veneti, cioè oltre quattro metri, era stato dapprima utilizzato il legno di acero. Successivamente si passerà alla spaccatura di faggio, cioè il tronco dell’albero spaccato con dei cunei per la lunghezza in quattro parti per ricavarne altrettanti remi totalmente lisci, senza tacche, giunture e con un “coltello” più largo applicato in fondo, cioè la pala.
Lo scafo si evolverà in asimmetrie che gli consentiranno di navigare immerso nell’acqua solo per tre quinti, con il vantaggio che la voga richiederà uno sforzo ridotto.
Poi l’evoluzione assurgerà ad arte, un’opera unica, inimitabile e la gondola sarà assemblata con otto diversi tipi di legno: rovere perché duro, olmo perché elastico, abete perché leggero, ciliegio perché si può curvare con il fuoco delle canne di palude, larice perché resinoso, mogano perché privo di nodi, tiglio perché non si altera con le escursioni termiche, noce perché duttile. In tutto la compongono 280 pezzi per una lunghezza tra i 10,80 e 11 metri, larghezza da 1,40 a 1,60 metri, lato sinistro più largo del destro.
Le spose in gondola
La gondola si era ritagliata un suo spazio perfino nelle cerimonie nuziali: infatti era usanza che le spose andassero a visitare le parenti chiuse nei monasteri. Fino al Rinascimento lo avevano fatto sedute in bellavista su un “trasto”, cioè una panchetta, nel bel mezzo della gondola. Dal ‘600 la consuetudine era continuata con le spose accomodate su un ricco tappeto all’interno del “felze” tenuto aperto perché tutti potessero ammirarle.
Norme suntuarie
Nel 1562 i Provveditori alle Pompe, avevano indicato delle linee generali per contenere esibizioni sfacciate nel vestire, mangiare e quant’altro, facendo rientrare pure le gondole nel provvedimento. Con norme suntuarie si tentava di arginare lo sfarzo probabilmente per evitare la dilapidazione di capitali distratti dagli investimenti commerciali, linfa vitale della repubblica; o forse perché l’esibizione di un esagerato sfoggio di ricchezza poteva generare turbamenti sociali in quella parte di popolazione che non poteva permettersi tale tenore. Purtroppo il provvedimento, come tutte le disposizioni contro il lusso, si era rivelato abbastanza inutile perché molti preferivano pagare le multe piuttosto che rinunciare agli addobbi.
I colori della gondola
Dalla “Cronaca Sagontina” gli storici hanno dedotto che fin dai tempi antichi le gondole fossero colorate, prima di diventare sempre più lussuose, tappezzate di stoffe preziose e con profusione di dorature, simboli di potere e di agiatezza.
Sempre nell’ottica di lotta a sfarzosità e lusso, il senato veneziano a partire dal 1609 aveva reso obbligatorio il nero come colore per l’intera imbarcazione, operazione tecnicamente facile visto che nera era già la pece usata per impermeabilizzare i legni. Fissate per legge anche le misure delle gondole private e il rivestimento in semplice panno di lana di uguale colore in luogo dei damaschi e dei tessuti costosi.
Invece l’ipotesi che con il nero si fosse voluto commemorare, a partire dal 1630, le migliaia di persone uccise dalla peste, non ha trovato fondamenti storici.
Un condensato di simbologia
Con il trascorrere del tempo i “ferri” di prua e di poppa, da sottili astine metalliche, assumeranno via via dimensioni sempre più grandi e un carattere ornamentale sempre più spinto. Soprattutto quello di prua, con funzioni pratiche di bilanciare il peso del gondoliere a poppa, diventerà un riassunto di simboli a richiamare il Canal Grande, il corno ducale, cioè il copricapo del doge, il ponte di Rialto e il bacino di San Marco nella parte alta; l’isola della Giudecca nella protuberanza verso poppa e i sei sestieri in quelle verso prua, inframezzate da altri tre decori, detti “foglie” che rappresentano le isole di Murano, Burano e Torcello. Il ferro di poppa, più piccolo di quello di prua e con la principale funzione di proteggere l’imbarcazione dagli urti, è detto “rìço” ed è la parte più alta della gondola.
Chi costruiva e chi remava sulle gondole della Serenissima
Negli “squèri”, parola dall’etimo incerto forse derivante dal greco “eskharion”, cioè cantiere, forse dallo strumento usato dai carpentieri, la “squara”, sapienti “squeraroli” varavano gondole da mare e da canale. Le prime, destinate al servizio ausiliario di trasferimento di passeggeri e merci dalle navi al porto e viceversa, erano piuttosto grandi. Quelle per le persone più piccole e agili per navigare nei canali più stretti. Si costruivano pure le gondole private per chi poteva permettersi il lusso di possederne una e i più ricchi anche più di una.
Alla voga sulle gondole “de’ casada”, cioè quelle private delle famiglie nobili, specie nel corso del XVI secolo era frequente trovare schiavi con lo stemma di famiglia bene in vista sull’uniforme e sulla stessa barca. Sovente questo compito era affidato a tartari, circassi o mori.
Di tutto questo parlo nel libro Il Signore di Notte, un giallo nella Venezia del 1605, mentre il protagonista, Francesco Barbarigo, nel ruolo di investigatore viaggia ora verso nuove indagini, ora verso un amore stravagante.