IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Barabba e il Cireneo un racconto di Vincenzo Fiaschitello: prima puntata

Il-Cireneo

Il-Cireneo

Percorreva in discesa la collina del Cranio, scansando i sassi che la folla aveva fatto sollevare lungo il sentiero, dietro ai condannati e ai soldati romani della scorta. A terra c’erano ancora i segni del pesante patibolo (1), che aveva contribuito a portare aiutando il flagellato, sfinito per l’immenso sforzo.

Il cielo si era improvvisamente oscurato e annunciavano un violento temporale i lampi che squarciavano le nuvole.

Simone, il Cireneo, non aveva voluto aspettare oltre. Aveva visto come i fabbri e gli assistenti con perizia e estrema indifferenza avessero usato i loro attrezzi: chiodi, martelli, corde, scale. E dopo avere assistito al sollevamento del corpo del condannato sul palo centrale e aver dato un ultimo sguardo a quel volto martoriato, era andato via. Non aveva voluto attendere il suo ultimo respiro, d’altronde pensava che ne aveva avuto abbastanza del suo fiato in faccia mentre lo aiutava nella dura salita. Quel fiato non era affatto puzzolente, ma piuttosto carezzevole, odoroso. Non poteva essere quello di un assassino, di un brigante, di un ubriacone. Più di una volta i loro sguardi si erano incrociati: nessun odio trapelava dai suoi occhi verso i suoi aguzzini, ma pietà, amore infinito verso quella folla vociante e ostile che lo circondava, nella quale si riconoscevano i caporioni che il Sinedrio aveva mandato per aizzare il popolo a chiedere la condanna a morte di quell’uomo dinanzi al Prefetto Pilato.

-“No, non poteva essere colpevole di nulla”, diceva fra sé Simone, quell’uomo così semplice, schietto, coraggioso, che si offriva alla violenza, alla rabbia incomprensibile della gente come un agnello innocente. E non poteva essere nemmeno un re, il re dei giudei, come stava scritto sulla tavoletta che gli avevano appesa al collo e che, lungo il percorso aveva più volte sbattuto sulla sua fronte, ferendola.

Scendeva, e si asciugava una riga di sangue sul volto: il suo sangue mescolato con quello del condannato colato dalle numerose, terribili ferite della flagellazione.

Il suo animo si era incupito e più rifletteva su quanto gli era capitato quel giorno, più gli cresceva la rabbia per l’ingiusta violenza subita, che il decurione di quella scorta gli aveva inferta.

Perché proprio lui?

Lui passava di lì per caso e, attratto dalle grida e da quel corteo, si era avvicinato per curiosità.

E’ vero che quella richiesta di aiutare a portare il patibolo di legno era perfettamente legittima, poiché da quando gli era stata concessa la cittadinanza romana, aveva imparato a conoscere le leggi dei romani e i loro costumi. Ma lui non poteva essere un àngaros, cioè un portatore forzato. Lo aveva gridato in faccia al graduato, ma quello, puntandogli sul petto la lancia, non aveva creduto alle sue rimostranze di essere cittadino romano e lo aveva obbligato ad eseguire l’ordine. Era un costume, sancito dalla legge, che consentiva agli ufficiali e ai soldati romani di imporre un lavoro forzato a tutti coloro che appartenevano alle popolazioni conquistate. Ora, a lui Simone, cittadino romano, non poteva essere inflitta quella umiliazione.

Giunto nelle vicinanze del Tempio, Simone ammirò le quattro torri della Fortezza Antonia dalle cui sommità si doveva certamente dominare tutto il recinto del Tempio e la città. Lì fece la sua denuncia e, data un’ultima occhiata al luogo dove la mattina Pilato aveva consegnato agli ebrei il Nazareno, percorse il lithostrotos, l’ampio luogo pavimentato con grosse pietre, particolarmente apprezzato dalla gente. Poi si diresse verso la città bassa, dopo aver superato la Porta d’Efraim, lungo il muro di cinta del Tempio e il Sinedrio.

Si aggirò per le viuzze. Alcuni bambini giocavano a rincorrersi dinanzi alle loro case, qualcuno accendeva i primi lumi.

Simone si ricordò che dal mattino presto non aveva più toccato cibo e chiese ad un passante di indicargli una taverna.

-“Impiccateli tutti, inchiodateli alla croce! Questa è la fine che devono fare tutti i malfattori”.

Così gridava al suo vicino di tavolo un tale con gli occhi arrossati dall’ira, la barba grigia e un turbante in testa.

-“Ma questa volta la giustizia non è stata giusta, te l’assicuro!”

-“E perché? Forse perché tra due ladroni e vagabondi che conoscevo bene è stato crocifisso anche un mago, un indemoniato che a modo suo diceva di scacciare i demoni?”

-“Non dire sciocchezze! E’ il vino che hai trangugiato che non ti fa ragionare. Questo profeta che chiamavano Gesù era un predicatore di pace, di amore, anche verso coloro che ci fanno del male”.

-“Sì, mi è capitato qualche volta di ascoltarlo, diceva di porgere l’altra guancia se qualcuno ti colpiva. Vorrei proprio vedere come si fa a non ripagare con la stessa moneta!”

Nel frattempo Simone era andato a sedersi lì accanto, in un angolo e aspettava il taverniere. Questi venne quasi subito e Simone ordinò un piatto di legumi e un boccale di vino. Poi, guardando quei due che discutevano a voce alta e avevano vuotato i loro boccali, disse al taverniere di portare del vino anche per quelli. I due, interrotte per un attimo le loro dispute, guardarono con simpatia lo sconosciuto e ringraziarono.

Uno dei due vide in Simone un possibile alleato.

-“Amico, giudica tu. Ti sembra che il Prefetto Pilato questa mattina abbia fatto trionfare la giustizia? Lo ritiene un uomo innocente, privo di quelle colpe di cui il Sinedrio lo accusa, e tuttavia lo fa flagellare fin quasi a ucciderlo e lo consegna alla folla per crocifiggerlo. Ti sembra che abbia agito correttamente questo illustre rappresentante del popolo romano? Puah… il diritto romano!”

Prima che Simone possa rispondere, interviene l’altro:

-“Tu non ti rendi conto del grave pericolo che quell’uomo ha fatto correre non solo al popolo ebreo, ma anche a Roma. Come si fa a non punire con la morte chi si proclama re?  Voleva forse annullare l’autorità del Sinedrio e ignorare la religione dei nostri padri, di Abramo Isacco Giacobbe? Voleva forse liquidare l’autorità dell’aquila romana in questo paese?”

-“Ma nulla di tutto questo. Lui annunciava un regno dei cieli, un regno spirituale e, infatti, non aveva un seguito di guerrieri, ma gente umile, pescatori, gente povera, ammalati, storpi, ciechi, che chiedevano di essere guariti, di alleviare le loro sofferenze. E lui era pronto, misericordioso, disponibile a condividere il dolore degli altri, a perdonare senza badare se a chiedere la grazia fosse un peccatore, un pubblicano o una prostituta. A Giairo, una autorità nella sinagoga, ha perfino risuscitato la figlia. E poi costui ha dovuto giustificarsi dinanzi al Sinedrio che giudicava il falegname di Nazareth, un imbroglione, un mago, invece che il Messia come continuava a vantarsi tra la gente”.

-“A me questa storia dei miracoli, tanto acclamati dai suoi seguaci, non convince. Chi ci assicura che lo storpio che ha guarito non fingesse? Chi ci assicura che il cieco ha veramente acquistato la vista? Chi ci assicura che la figliola di Giairo fosse veramente morta e che invece non dormisse? Gli indemoniati? Ah, te li raccomando quelli! Pazzi furiosi, senza cervello, che si rotolano per strada, in casa. Ce ne sono stati sempre. Ma lui, con il segno delle mani, con la sua parola, li fa fuggire e li fa entrare in un branco di porci che vanno a suicidarsi. No…no e poi no! Non sarebbe stato più credibile se, per esempio, a un tale senza un braccio, glielo avesse improvvisamente fatto spuntare; se a un tale, privo delle gambe, gliele avesse fatte crescere di colpo. Quelli sì, li avrei considerati veri miracoli: tutti li avrebbero visti, controllati, giudicati”.

-“Ma tu, amico, perché non parli? Non vuoi dare il tuo giudizio? Perché non ci dici chi sei e da dove vieni? Ecco, siediti al nostro tavolo!”

Simone aveva tenuto tutto dentro di sé, ma ora non poteva più trattenersi, aveva bisogno di confidarsi.

-“Ho toccato il suo sangue; le mie mani, il mio volto, sono stati a contatto con le sue ferite”.

-“Ma parli proprio del Nazareno crocifisso stamattina? “, dissero a una voce i due!

“Sì, proprio di lui, di quell’uomo flagellato così duramente e io sono stato costretto a portare per un lungo tratto il patibolo accanto a lui. Da quando sono sceso da quel colle non sono più lo stesso. Lungo la strada sentivo una ribellione dentro di me: avevo subito l’affronto di una umiliazione. Io sono cittadino romano!” E tirò fuori dal petto un collare con un medaglione su cui era impressa l’effigie dell’imperatore Tiberio.

“Quell’ignorante di decurione non me ne ha dato il tempo e mi ha puntato al petto la sua lancia. Così ho dovuto ubbidire. Appena assolta quella imposizione, mi sono diretto verso il Tempio con l’intenzione di denunciare il responsabile della scorta al tribuno, comandante della coorte acquartierata presso la Fortezza Antonia, o se possibile direttamente al Prefetto. Il centurione, sentita la mia richiesta, ha fatto una smorfia e mi ha invitato ad aspettare in un angolo dove era situato il corpo di guardia. Era già da oltre un’ora che attendevo, quando è scoppiato un terribile temporale che non ricordo di aver mai visto uno simile in vita mia e, subito dopo, la terra ha tremato”.

-“Sì, anche io ho sentito e ho provato un grande terrore”.

-“E io sono fuggito fuori di casa, ma tutto attorno a me si muoveva paurosamente”.

Simone riprese il suo racconto.

-“I soldati abbandonarono il posto di guardia e si precipitarono fuori nel cortile. Lo stesso feci io. E il mio pensiero, in quel momento, corse fino al colle del Cranio, a quell’uomo crocifisso in mezzo a due ladroni. Rientrati al palazzo, mi disposi ad aspettare con pazienza, quando improvvisamente comparve un uomo dall’aspetto imponente, autorevole, che teneva appoggiata una mano sulla daga allacciata al suo fianco. Subito i soldati scattarono in piedi e salutarono il tribuno, seguito da un centurione. Anch’io mi alzai prontamente e, dopo aver salutato rispettosamente quell’uomo, esposi la ragione della mia visita”.

-“Così tu hai aiutato il flagellato a portare il patibolo. Hai fatto bene, perché era ridotto molto male dopo la flagellazione. Ma qualcuno dei miei soldati che non ha ubbidito agli ordini verrà punito, come pure il decurione, responsabile della scorta che ti ha imposto quell’obbligo, visto che tu sei cittadino romano, come mi ha riferito il mio centurione. Ora, però, è meglio non disturbare il Prefetto. In questo momento, come puoi sentire, è impegnato con la moglie Claudia Procula”.

-“Ecco il cielo e la terra si sono ribellati alla tua azione sciagurata. Sei un uomo pavido e presuntuoso! Te l’avevo raccomandato stamane  di mandare libero quell’uomo. perché non l’hai fatto? Ora temo che qualche grave disgrazia cadrà sulle nostre teste. Dovevi liberarlo…liberarlo e avere un po’ di coraggio contro quella serpe di Hanna”.

Gridava e, sciogliendosi i capelli e correndo da una stanza all’altra, rovesciava a terra tutto ciò che trovava dinanzi, anche due preziosi vasi che finirono in cocci. Pilato le andava dietro, inebetito, completamente smarrito in mezzo a quel terribile trambusto. Sotto, nel cortile, un drappello di soldati, facendo finta di esercitarsi con le lance, udendo le grida della donna e la voce stridula e piagnucolosa del Prefetto, ridevano alzando la testa verso il porticato della splendida reggia. Il tribuno, resosi conto di quel che accadeva, ordinò al centurione di fare allontanare immediatamente il drappello di soldati, perché non venisse leso ancora di più il prestigio di Pilato.

-“A quel punto”, continuò il Cireneo,  “mi sentivo da un lato soddisfatto, dall’altro pieno di angoscia per le sofferenze e la morte di quell’innocente”.

-“Bene, hai espresso perfettamente il tuo giudizio. E’ stata una vera infamia consegnarlo all’odio del Sinedrio e consentire la sua crocifissione, soprattutto se si tiene conto dell’ultimo ingenuo tentativo del Prefetto di salvarlo. Il veleno contro il falegname di Nazareth era così evidente che dinanzi all’alternativa di salvare Gesù o Barabba, il popolo urlò  Barabba.

Al sentire il nome di Barabba, Simone impallidì e ebbe un sussulto.

Il chiasso nella taverna era cresciuto, quasi diventato insopportabile, per l’arrivo di numerosi clienti che si avventarono sulle ultime seggiole rimaste ancora libere.

Un gruppo di giocatori nell’angolo più buio della taverna imprecava e si azzuffava gridando e facendo rovesciare sgabelli e vivande. Altri chiamavano a gran voce il taverniere affinché portasse qualche lucerna o altra torcia, là dove il buio era più fitto.

I due si accorsero del turbamento di Simone e non esitarono a chiedergli il motivo.

“Barabba…Barabba”…,ripeteva Simone, calcando la voce su quella

B ripetuta ben tre volte in quel nome. “No, aggiunse Simone, “non lo conoscevo, ma il suo nome ha avuto da lungo tempo nella mia casa un suono lugubre, doloroso. Fu lui, il brigante ladro che una sera assassinò mio padre per derubarlo del denaro che aveva riscosso per la vendita del pesce. A quel tempo mio padre viveva con la mia famiglia, mia moglie e i miei tre figli: Sara, Alessandro e Rufo. Avevamo  una grande e bella casa a Betsaida, sul lago di Tiberiade. Il commercio del pesce che abbondava in quel lago ci consentiva un buon tenore di vita. Poi quella tristissima sera ci cambiò la vita. Fummo costretti a lasciare tutto e quel poco che rimase, dopo il pagamento dei numerosi creditori, mi consentì di comprare un campo, appena fuori le mura di Gerusalemme.  Sapevo che Barabba, dopo altri numerosi delitti e ruberie, era stato catturato e tenuto finalmente in prigione, in attesa di condanna. Potete, quindi, immaginare come la notizia della sua liberazione al posto di un uomo mite e innocente, mi sconvolga”.

Gli interlocutori del Cireneo avevano ascoltato quella storia in rispettoso silenzio. Al ricordo del padre, Simone si commuoveva sempre e diceva che se un giorno avesse incontrato Barabba, l’avrebbe sicuramente ucciso.

Quella sera, stranamente, Simone, pur se commosso fino alle lacrime, si accorse che nella sua mente non passò alcun pensiero di vendetta. Piuttosto avvertì un senso di pietà verso quell’uomo che ora aveva aggiunto, involontariamente, alla sua carriera di assassino un altro “delitto”. Doveva sentirsi in colpa se il popolo aveva scelto di liberare lui, noto malfattore e assassino, anziché Gesù.

Ora, man mano che passavano le ore, il pensiero della morte in croce di quell’uomo che aveva aiutato, anche se costretto, liberava il suo animo da una infinità di scorie: vendetta, egoismo, orgoglio, ateismo.

Uscito dalla taverna, Simone vagò tutta la notte per le stradine del centro di Gerusalemme, viuzze che i soldati chiamavano budella.

Di tanto in tanto incontrava piccoli gruppi di persone dinanzi alle case che commentavano quanto era accaduto.

-“Io lo conoscevo e per diversi giorni sono andato ad ascoltarlo quando parlava alle folle. Le sue parole e i suoi miracoli straordinari lo facevano amare. Non capisco come la piazza in così breve tempo abbia potuto cambiare opinione. E’ successo di tutto nel cortile  dinanzi alla scalea del tribunale: urla, fischi, suoni di corno come muggiti di toro, assordanti , furiosi e ritmati colpi metallici che rimbombavano in mezzo alla folla fino allo stordimento. E intanto da ogni lato si moltiplicavano i drappelli di soldati che, ubbidienti agli ordini secchi dei decurioni, circondavano come meglio potevano la folla, tenendola lontano, con le lance abbassate, dalla scalea dove si affacciava il Prefetto, al quale venivano indirizzate minacce se non avesse ascoltato la volontà del popolo”.

Le donne si scioglievano in lacrime e rientravano in casa.

Simone aveva dentro di sé il fuoco. Albeggiava e non provava ancora alcun bisogno di dormire. A un tratto sentì la propria voce:

-“Galileo, perché i tuoi occhi sono ancora fissi su di me? E’ stato solo il caso che la mia strada si sia incrociata con la tua. Dapprima controvoglia, maledicendo la sorte, ti ho aiutato a portare quel legno, ma via via che i nostri sguardi si incontravano, mi sentivo sempre più disponibile, più convinto, in dovere di spendere le mie forze per te, che avevi versato già metà del tuo sangue, fino ad avvertire un senso di insufficienza e di inadeguatezza. Nulla  per me quell’aiuto temporaneo per un breve tratto di strada! Che evento dolorosissimo per te! E perché, poi? Eri innocente, come la stessa autorità dell’aquila romana aveva riconosciuto”.

Galileo, tu dici ora a me: “Camminando con me, hai trovato la tua via. Il tuo cuore è disposto a perdonare, persino Barabba, l’assassino di tuo padre. Hai deposto ogni pensiero di vendetta. Sei sulla strada dell’amore!”

Galileo, tu dici a me: “Vuoi sapere da me che cosa è l’amore?”

-“No… no… Galileo, non aggiungere altro. So già che cosa è l’amore, mi hai già fatto capire il suo significato, la sua logica folle: tu curvo sotto la croce spossato dalla sofferenza, invece di gridare la tua innocenza, hai voluto offrire la tua vita per me e per tutti. Me lo hai detto con il tuo sguardo, con i tuoi occhi profondi, illuminati da una luce misteriosa e sei stato capace, al termine della salita del colle, di rivolgermi persino un sorriso, un sorriso che ha annientato la mia incredulità, il mio ateismo, le mie ingiuste critiche alla mia sposa e alla mia figliola Sara, che prima di me ti avevano incontrato per le vie di questo paese. Ora conosco la tua legge, la legge dell’amore, che trasfigura il nostro cammino, bagnato dalle lacrime della sofferenza”.

Simone non si era allontanato molto dal Tempio, le stradine convergevano verso quel cuore della Città Santa. Il sole era già alto, i bambini giocavano per la via, gridando e correndo. A un tratto si fermò. Dinanzi a lui si apriva una piazzetta, dove si era radunata una piccola folla di ragazzi. Uno di loro, in cima a una piccola scalinata, avvolto in un lenzuolo bianco, diceva: “Ecco l’uomo”. Accanto a lui, un ragazzo con le vesti strappate e macchiate di rosso, con una canna in mano, barcollante, stava con la testa piegata verso terra. Gli altri ragazzi urlavano : “Crocifiggilo, crocifiggilo!”

La seconda e ultima puntata verrà pubblicata il 2 maggio

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