“Bar Florida” il nuovo libro di Paolo Vincenti (Agave Edizioni, 2022)
Dalla Premessa dell’autore:
Il presente libro si pone in stretta continuità col precedente, Al mercato dell’usato (Catalepton), in quanto nasce dal medesimo motus animi e dalla analoga esigenza di porre mano al materiale già pubblicato. L’insoddisfazione, l’esasperata quanto vana ricerca del libro perfetto, il desiderio di cambiamento sono i sentimenti che soggiacciono alla stesura di questo volume, che raccoglie brani restati fuori dalla precedente raccolta. Una summa, stavolta conclusiva, di quei testi in prosa e in versi che, più o meno ritoccati, penso possano essere soddisfacenti. Un tarlo, quello del perfezionismo, che attanaglia molti scrittori e protagonista delle due prose finali, Vocazione e mestiere dello scrittore e La scrittura del tarlo (originariamente pubblicate entrambe in rivista), al centro delle quali è la figura di uno scrittore di fama ed eccezionale talento al cui confronto l’autore prova un certo senso di inadeguatezza e insieme la consapevolezza della impossibilità di raggiungere le vette del genio; al tempo stesso, è percepibile una malcelata ironia, che rasenta lo sberleffo, se si pensi ai toni enfatici e troppo ridondanti, per non essere quasi caricaturali, coi quali lo scrittore protagonista viene descritto.
Canto d’amor perduto, tratto da La bottega del rigattiere (2013), ha per protagonista Lino, il mitico cantore, figlio di Apollo, ed è un inno alla giovinezza perduta. Mi è sembrato opportuno inserire questo brano in apertura quasi fosse l’invocazione alla musa degli antichi poemi greci, perché sia Lino protettore ed auspice della raccolta. In Di amore vero (da La bottega del rigattiere), brano non privo di un fondo di ironia (soprattutto laddove viene citato, ma del tutto decontestualizzato, il Salento), è presente un rimando al famoso film di Peter Howitt, Sliding doors.
Il suicidio di Nanni (sempre da La bottega del rigattiere) è un puro divertissement, che sfiora il nonsense, così come Psico l’abile forever.
Come Salgari, che proviene dallo stesso libro del 2013, è un brano che fa sorridere nella sua ingenuità ma è uno dei primi in assoluto che io abbia scritto (avevo circa vent’anni) e per questo l’ho inserito.
Il Signore del Fuoco (tratto da Di tanto tempo, 2010) è una prosetta che fa il paio con la poesia Brucia, che è invece inedita (Pyreus è un personaggio ripescato da un vecchissimo fumetto della Marvel). Anche Fiori, abbondantemente rimaneggiata, è tratta da Di tanto tempo (Questi sono i giorni), il libro del 2010. Quanto ai racconti, da Gardner (come deve andare…) a Uno strano rigattiere, passando per I disastri del progresso sull’isola di Lilliput (tratti dal libro Di tanto tempo), su di essi non mi dilungo e rimando ai commenti nella Postfazione.
In Here comes the Tarzan, si mette in scena il celebre personaggio, inventato dallo scrittore americano Edgar Rice Burroughs, collocato in un contesto drammaticamente attuale.
Prosastica, Una giornata cubista (un po’ menefreghista) e Dolce, lievemente ritoccati rispetto alle versioni originali, sono tratti da Di tanto tempo (Questi sono i giorni).
Troy (da La bottega del rigattiere) è un divertissement colto in cui si dà fondo all’umore comico e tagliente. Se non l’hai capito è una prosetta pirotecnica e sarcastica in linea con la mia scrittura degli esordi.
Si beve e Dolce Bacco, inedite, rientrano, invero con poca originalità, nel filone delle “dionisiache”: un filone che è stato per me molto prolifico negli anni e nel quale si ascrivono: Sera dionisiaca, Strega, Bacco perbacco! (da L’una e due), Brindisi, Primavera greca, Cachinna, Banchetto (da L’una e tre), E tricche ballacche, Conviviale, Dionisiaca, Simposio, Il tempo di Dioniso, Canti e ri-canti (Orfici), Notte dionisiaca, Morsi e ri-morsi, Vendemmia, A banchetto, Ai vecchi tempi, Pizzica (La notte di San Paolo), Tarantancora (da La bottega del rigattiere e poi da Al mercato dell’usato). Sallentum, pubblicata in rivista, è una dichiarazione d’amore nei confronti della terra madre ma al tempo stesso un duro atto di accusa contro le sue storture, corruzioni e credulonerie.
Chiude il libro la prosa In transito (precedentemente pubblicata in rivista).
La principale esigenza alla base di questo libro, dunque, è stata quella di revisionare i testi scritti in passato, alla ricerca di quella pulizia formale di cui li ritenevo manchevoli: “maiore cura quam ingenio”, avrebbe detto Quintiliano, ossia con maggiore cura per l’aspetto formale che con ispirazione, forse. E in effetti la mancanza di vero talento è un tema caro alla mia scrittura, me ne soffermo in particolar modo nel racconto L’istrione e poi nelle già citate prose finali. L’impossibilità di avvicinarmi al genio, di sfiorarne l’ala, ha perseguitato in passato i miei giorni, ha funestato le mie notti. Oggi, finalmente affrancato dall’avvilimento, posso ben dire di me, pacificato e consapevole, di essere quello che l’immenso Leonardo definiva un “bon litterato sanza naturale”, dove al termine “natura” si potrebbe giustapporre quello di “ingegno”.
Avrei voluto intitolare la presente raccolta Stromata, titolo che si traduce con “tappeti”, un’opera dello scrittore cristiano Clemente Alessandrino, del II Secolo d.C.. Poi, per tema che il solito criticone, quello che i latini definivano subductisupercilicarptor, ossia “colui che aggrotta le sopracciglia” (a cui ho dedicato una spassosa poesia nella mia raccolta Saturae del 2021) potesse accusarmi di eccessiva erudizione, ho pensato di intitolarlo Silvae, come la celebre opera di Papinio Stazio. Ma convinto che anche in questo caso non sarei stato risparmiato dall’accusa di pedanteria, ho scelto il titolo Bar Florida, che suona più moderno e meno impegnativo, anche se nel termine florida vi è un rimando ai “fiori”, ossia le opere principali della letteratura latina, e quindi al “florilegio”, nel senso di antologia di brani di varia natura.
Voglio infine ringraziare Anna Stomeo e Carlo Stasi per i preziosi scritti, iniziale e finale, che arricchiscono questo libro.
Prefazione di Anna Stomeo:
Il file, dal titolo Bar Florida, che Paolo Vincenti mi consegna, col privilegio di una prima lettura e l’impegno di un primo commento, è denso di scrittura e di richiami. Già al primo sguardo distratto, ne rilevo la consueta complessità (l’alternarsi di poesia e prosa, le citazioni, le riscritture e gli adattamenti) e mi approccio ad una lettura che prevedo impegnativa, ma che so comunque coinvolgente, giacché la complessità non è mai per Vincenti sinonimo di mera giustapposizione.
Conosco Paolo Vincenti da poco/molto tempo, l’ho scoperto poeta e scrittore inquieto e raffinato, acuto cultore dei Classici greci e latini, animato dal demone della sperimentazione e saldamente ancorato ai canoni imprescindibili della ricerca. Ho recuperato la lettura di gran parte dei suoi scritti di poesia e di prosa pubblicati nell’arco degli ultimi quindici anni e ho intavolato con lui una conversazione a tutto campo sulle impervie modalità di fare arte, letteratura e cultura nel mondo intellettuale salentino che ci circonda. Un mondo riscattato dalla globalizzazione all’ipoteca di quel depensamento di cui parlava Carmelo Bene, ma, per molti versi, ancora caratterizzato da un conformismo di ritorno, spesso incapace di apprezzare la pluralità e la complessità degli approcci e delle suggestioni, anzi spesso pronto a scambiare pluralità e complessità per un banale eclettismo o per una rassicurante e distanziante eresia. Un equivoco interpretativo, questo dell’eresia, di cui sono, e sono stati, vittime molti autori salentini, compreso, post mortem, lo stesso Carmelo Bene, ancora di recente etichettato da qualche sedicente critico suo conterraneo come eretico (ma eretico rispetto a cosa?) e collocato, con inspiegabile ‘orgoglio’, tra le ‘altre eresie salentine’ (?). Come dire: non comprendo e non seguo l’essenza della tua proposta artistica, che, comunque, accetto ed esalto, ponendola nel ‘limbo’ dell’eresia e tenendola così alla dovuta, ‘civile’ e conformistica distanza.
Il rischio di questo equivoco, che pone l’artista in una posizione comunicativa quanto meno ambigua, offuscandone l’autentico messaggio, lo corre, in vita, come testimoniano le tante occasioni di presentazione e discussione delle sue opere, anche Paolo Vincenti, la cui scrittura poetica e letteraria si alimenta di una creatività prolifica e rigenerante e di un impegno intellettuale per niente riducibile agli schemi tradizionali. Ma egli non si scoraggia davanti a tale rischio, che intuisce e volutamente ignora. Anzi, per così dire, gioca d’anticipo, non solo revisionando i propri testi già pubblicati e riproponendoli dopo un bagno di quella che definisce «pulizia formale», ma anche sottoponendo la propria ispirazione ad una decifrazione auto-critica tanto puntuale quanto spietata. Ne nasce una scrittura per molti versi performativa, in cui la presenza dell’autore è trascinante, al punto da coinvolgere il lettore in un percorso conoscitivo e creativo inedito, che l’autore sceglie di guidare, con umiltà e impegno certosino, chiarendone empaticamente ogni passaggio. È ciò che avviene in questo Bar Florida, ed è ciò che è avvenuto di recente con Al mercato dell’usato (Catalepton) (2021): due pubblicazioni «in stretta continuità» dove l’Autore pone mano al materiale già pubblicato con la medesima esigenza di perfezione non solo formale, ma conoscitiva. Andare oltre il già scritto, con un senso di inadeguatezza, ma anche di potenza ri-creatrice, “lasciar parlare la parola da sola nello scritto”, avrebbe detto J. Derrida, per poi poterla riafferrare come oggetto del desiderio. Un’esperienza che ci piace definire semplicemente scrittura complessa e che si traduce in un azzardo, giacché comporta il rischio dell’incomprensione, della perdita di qualche passaggio fondamentale, se il lettore non riesce a penetrare la sottile autoironia che l’attraversa («L’impossibilità di avvicinarmi al genio, di sfiorarne l’ala, ha perseguitato in passato i miei giorni […] Oggi finalmente affrancato dall’avvilimento […] pacificato e consapevole […] di essere quello che l’immenso Leonardo definiva un “bon litterato sanza naturale” dove al termine natura si potrebbe giustapporre quello di ingegno» dice di sé, con ineguagliabile verve, nella Premessa dell’Autore alla presente raccolta).
Paolo Vincenti è autore che assegna al linguaggio un ruolo di primo piano. La sua vasta produzione poetica e letteraria, affiancata egregiamente da quella propriamente saggistica del ricercatore, si alimenta di continue sollecitazioni colte e di richiami puntuali agli universi linguistici più vari: dai classici greci e latini, vissuti nel presente quotidiano come memoria etica e non come semplice riattualizzazione, alle suggestioni verbo-visionarie del postmoderno e della autonomia delle forme artistiche, alla tentazione, mai sopita, della riscrittura come reinvenzione. Nella presente raccolta, forse più che in altre, il linguaggio apre, per Vincenti, ai mondi possibili del letterario e ai territori dell’alterità del quotidiano, con cui l’Autore instaura una relazione dialettica ricca di riflessioni e aperture, ponendoci di fronte a esempi spiazzanti di intertestualità attiva ed operante. Il medium totale del linguaggio, come impasto di parole e di richiami storicamente determinati, e come forma/sostanza che rompe le distanze cronologiche per farsi continuità eternizzata e continuamente riattualizzata nei suoi contenuti più dirompenti (dal mito alla satira),si potenzia in una scrittura intesa sempre come esito estremo del bisogno di confronto e di critica. In questo libro, infatti, Vincenti sembra potenziare quelle doti espressivo-comunicative e ricettive capaci di metterlo in relazione proficua e critica contemporaneamente con più autori, antichi e moderni, da Erodoto ad Eraclito, da Bulgakov a Salgari, dall’istrione di William Pryn e al vampiro di Polidori, fino alle visioni incontenibili e alla vicenda esistenziale di G.K. Chesterton. Autori che riemergono dalla insaziabile cultura letteraria di Vincenti e che entrano con leggerezza nel ballo infinito delle citazioni e dei ritorni, dove ogni richiamo diventa interpretazione e crea nuove dimensioni. Un mondo sommerso che si risveglia e riemerge attraverso l’acuta e prorompente provocazione linguistica di Paolo Vincenti, ben convinto dell’assunto postmoderno che ogni scrittura è ri-scrittura. Ed implica decostruzione e differimento, o differenza, per dirla con J. Derrida. Perciò Bar Florida si propone come un gioco semantico che apre a molte determinazioni, un titolo ricavato ‘per esclusione’, come documenta lo stesso autore nella Premessa, e una raccolta di scritti in versi e in prosa in parte già pubblicati, ma mai assestati e sempre riveduti dall’Autore che li considera oggetto di una vera e propria ossessione perfezionista, ma anche di una sfida semiotica, giocata al limite della visione sincronica (forse di memoria desaussuriana), in cui la lingua e il suo esercizio sono veicolo indiscusso di senso. Infatti la ricerca (che, a volte, si fa vero e proprio inseguimento) del senso costituisce la cifra dell’intera opera letteraria e poetica di questo intellettuale rigoroso e artista libero da condizionamenti di luogo e di tempo, la cui attività instancabile e provocatrice incrocia le congiunture culturali più accattivanti e suggestive del passato e del presente, scontrandosi, come è giusto che sia per l’artista e per l’intellettuale autentici, non solo con le più trite visioni del conformismo d’antan, ma anche con la “banalità del bene” del lettore medio e volenteroso. Andare, con Nietzsche, oltre queste due derive è il vero obiettivo e il grande merito della scrittura di Vincenti, mai appiattita sull’ultima immagine e sempre rivolta a costruire decostruendo, assimilando e lanciando oltre il confine tutte le visioni e suggestioni che l’hanno determinata e la determinano. Una scrittura che ci piacerebbe definire ‘postmoderna’ se non fosse che tutte le etichette sbiadiscono al sole della lettura diretta. E che quest’ultima è poi l’unica autentica barriera critica capace di farci penetrare i significati dei testi. Di qui l’azzardo, e il cimento, di una sorta di certezza impossibile, di un continuo rimescolamento delle carte, che il lettore e l’autore necessariamente avvertono nell’incontrarsi all’insegna di questa scrittura che si alimenta di richiami diversi e profondi. Una scrittura in bilico tra riflessione e ironia, sempre aperta alle suggestioni dell’immaginario colto e della ricerca estetica. Complessa, appunto. Una scrittura di cui Paolo Vincenti è cultore e iniziatore, nella sua Bottega del rigattiere o Al mercato dell’usato, come nel Bar Florida, luoghi ‘del pensiero’, dove si forgia la scrittura del futuro, che nulla tralascia del passato, mentre obbliga il presente a dileguarsi sotto la sferza di un’autocritica sarcastica e dissacrante. Una scrittura che aspira al volo ininterrotto e coerente della libertà. Perciò Paolo Vincenti è sempre più in là della sua scrittura, pronto a progettare e riprogettare nuovi universi letterari e immaginativi, tanto imprevedibili, nelle loro interconnessioni, quanto pienamente aderenti all’esigenza conoscitiva del lettore e al saldo impegno intellettuale dell’autore. Una scrittura fertile, frenetica e puntuale, come quella stigmatizzata da Roland Barthes, in un suo famoso scritto autobiografico, con questa frase: “ Où aller? J’en suis là” (Dove andare? Io sono già là.)