IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Avventura a Siberut

KEREI Siberut

KEREI Siberut

di Carmen Lafranconi

Quando partii con Annie da Milano in aereo, per l’Indonesia, quel freddo inverno, parecchi anni fa, non avevo mai sentito parlare dell’arcipelago delle Mentawai e nemmeno dell’isola di Siberut, dove vive uno degli ultimi popoli primitivi.
Con la mia amica francese, avevo stabilito un programma ben preciso, che comprendeva le isole di Giava, Sumatra, Samosir, Nias e Bali.

Dopo numerose ore di volo e molti scali, arrivammo a Giacarta, proprio al tramonto del sole. Dall’aereo, prima dell’atterraggio, il panorama era spettacolare.
Nuvole rosse e rosate sostavano tra le isole e l’oceano, creando un’atmosfera fiabesca.
Giacarta però si rivelò, come quasi tutte le grandi capitali, pericolosa, caotica e rumorosa. Non ci fermammo molto.

Dopo alcuni giorni, durante i quali visitammo la città e le nostre ambasciate, c’imbarcammo su un aereo della compagnia indonesiana “Mandala” per raggiungere Medan, nel nord di Sumatra.
La grande isola ci accolse in tutto il suo splendore, grazie ai colori della sua natura rigogliosa.
Su un vecchio autobus locale, visitammo buona parte di quell’isola felice ed infine arrivammo al villaggio di Tuk Tuk nell’isola di Samosir, sul lago Toba, il lago vulcanico più grande del mondo. Fu sulla riva di quel lago che incontrammo Marisa e Paola.

Fu una serata piena d’allegria e d’amicizia, con musica e canti, insieme ad un gruppo di giovani del luogo, miti discendenti dei tagliatori di teste.
Marisa con le note della sua chitarra accompagnava i nostri canti, che comprendevano alcune canzoni di De Gregori e di Battisti e quelli più tradizionali, in lingua indonesiana intonati dai loro amici.

Più tardi, sotto un cielo stellato, mentre le accompagnavamo con la nostra pila, nella capanna Batak sulla riva del lago, Marisa e Paola iniziarono a descriverci con grande entusiasmo l’isola di Siberut.
Ci raccontarono le notizie che avevano letto, prima di partire, su libri di antropologia riguardanti i primitivi di quell’isola.

Parlarono con fervore del loro desiderio d’incontrare tribù indigene incontaminate e di visitare l’isola, ancora intatta, coperta da foreste tropicali e da spiagge bianchissime.
Fu per questo che anche noi, dopo aver ricevuto il loro invito ad accompagnarle, decidemmo di rinunciare alla visita dell’isola di Nias, per seguire il loro sogno, avventurandoci in quel nuovo, sconosciuto viaggio.

Marisa e Paola erano partite da Torino proprio per raggiungere Siberut, nell’arcipelago delle Mentawai, situata a circa 150 Km. ad ovest della costa di Sumatra, Annie ed io invece ci arrivammo per caso, cambiando la nostra rotta all’ultimo minuto per aggregarci a loro.
Eravamo giovani, entusiaste e piene di aspettative, l’arrivo sull’isola però non fu tanto idilliaco. Arrivammo a Siberut su una delle piccole “navi” in verità vecchi barconi che, una volta alla settimana, si spostavano da Padang alle Mentawai. Un’imbarcazione certamente non adatta al turismo ma l’unica possibilità per noi di raggiungere l’isola. Una volta giunti in vista dell’isola, salimmo su una delle piccole canoe indigene (Sampan) costruite in un unico pezzo, l’unico mezzo possibile per sbarcare sull’isola.

L’isola ci lasciò senza fiato: era interamente ricoperta di foreste di pregiati alberi tropicali con grandi felci e meravigliose orchidee anche se non mancavano zone paludose ed un lungo fiume marrone, per le mangrovie, che percorreva tutta l’isola, unica via per raggiungere i villaggi dei primitivi o almeno era questo che ci avevano detto al distretto della Polizia indonesiana, che presiedeva in quel tempo l’isola per preservarla.

Riuscimmo però a trovare un’altra via, anche se molto pericolosa e adatta solo ai primitivi che conoscevano bene la zona. Eravamo giovani, coraggiose ed anche un po’ incoscienti e quando vedemmo un’agile figura poco vestita, sgaiattolare dal mercato costiero verso l’entroterra, tra la boscaglia intricata, non esitammo un attimo a seguirla.

La nostra richiesta di poter visitare l’interno dell’isola non era stata accolta dalla polizia che ci aveva ritirato i passaporti, raccomandandoci di non lasciare la zona costiera. Non potevano rimandarci a Padang perché l’imbarcazione che ci aveva portato era già ripartita e per almeno una settimana non c’erano barconi in arrivo o in partenza dall’isola.

Il giovane primitivo camminava rapidamente sopra alcuni grossi tronchi, sospesi sopra una palude rossastra, tra la folta vegetazione tropicale. Cercavo di non perderlo di vista, ero la prima della fila indiana e non era facile camminare sopra quei tronchi. Improvvisamente mi sfuggì un piede e mi sentii attirare nella melma paludosa con forza. Urlai nella direzione del ragazzo. Ero terrorizzata ed il ragazzo per fortuna si fermò e ritornò velocemente sui suoi passi raggiungendomi ed estraendo la mia gamba dalla “sabbia mobile”.

Poi tagliò da un albero di bambù delle lunghe canne, una per ognuna di noi e con pazienza riprese quella via, questa volta lentamente, in modo che noi potessimo restargli dietro facilmente, utilizzando la canna per mantenerci in equilibrio.

Ci condusse così al suo villaggio dove ci attendeva un’ultima prova prima di potervi accedere. Un lungo tronco d’albero faceva da ponte sopra uno strapiombo. I bimbi del villaggio correvano avanti e indietro ridendo, divertiti dalle nostre facce spaventate alla vista di quel ponte così rudimentale.

Fu il capo del villaggio, una persona apparentemente fragile e molto vecchio a venirci incontro ed ad accompagnarci per mano in quella non facile impresa.

Tra i primitivi un sorriso ed una parola “Anelewita” (benvenuto che comprende il concetto esistiamo anche noi) accompagnò ogni nostro incontro.

Trascorremmo la giornata con loro nella Uma, la grande capanna del villaggio, dove si riuniscono per le loro assemblee, accettammo i loro cibi, insegnando ai bimbi a cantare “bella ciao” e solo nel tardo pomeriggio il giovane ebbe l’incarico di scortarci fino al punto della costa dove l’avevamo seguito.

Ci ripulimmo alla meglio nell’acqua marina prima di raggiungere la zona della polizia dove eravamo alloggiate e dove subimmo un interrogatorio, che ci fece comprendere che la notizia della nostra fuga tra i primitivi s’era già sparsa nel villaggio della costa.

Questo però aveva fatto comprendere ai poliziotti che eravamo ben determinate a visitare l’isola e finalmente si decisero a fornirci, pagando, una barca con un indigeno che parlava anche indonesiano e un poliziotto che parlava un po’ d’inglese per farci le traduzioni, ci fecero acquistare i viveri necessari per il viaggio e finalmente iniziammo il nostro viaggio avventuroso per risalire il fiume e raggiungere i villaggi dei primitivi.

Il poliziotto sorrise nell’aggiungere che eravamo molto fortunate perché erano poche le guide disposte a risalire il fiume in quel periodo.

Aveva piovuto poco ed il fiume era in secca. Ciò complicava molto le cose aumentando i disagi ed i pericoli per la barca, a causa dei rami e dei tronchi che affioravano nel fiume per l’acqua troppo bassa, che poteva far incagliare il motore della barca e per le correnti, che non permettevano la risalita solo con i remi. Finalmente trascorse quella notte, che non fu una notte qualsiasi perché qualcuno cercò di forzare la finestra della nostra modesta stanza nell’edificio governativo, che ci ospitava tutte, per 1.000 Rupie a notte. Mi svegliai nel cuore della notte a causa di quel rumore. Non avevamo elettricità nella stanza, dove dormivamo tutte e quattro, su due semplici reti, senza materassi, fortunatamente ognuna nel suo sacco a pelo. Avevo con me sempre una pila ed un fischietto, che tenevo al collo come un portafortuna e che già mi era servito a Giacarta, per scoraggiare incontri pericolosi. Detti fiato al mio fischietto professionale, che squarciò il silenzio della notte con note estremamente alte e puntai la luce della pila verso la finestra, scorgendo, due mani piuttosto piccole, da ragazzo, che stavano ormai per aprire la finestra violata, ma all’udire quel fischio acuto e continuato, lasciarono la presa, mentre lo scalpiccio di qualcuno che correva a gambe levate, mi fece comprendere che quello sgradito ”ospite” non invitato, chiunque fosse, s’era spaventato e già era fuggito. Si svegliarono naturalmente anche le mie compagne a quel frastuono e passata la paura iniziale, cercammo di richiudere bene la finestra e riprendemmo il nostro sonno.

Quel lunedì mattina ci alzammo presto, non pensavamo più alla visita notturna perché eravamo troppo eccitate per l’imminente partenza, preparammo perciò i nostri zaini per il viaggio sul fiume e subito andammo al mercato ad acquistare tutti i viveri annotati sulla nostra lista ed una bella quantità di foglie di tabacco, per gli scambi, come ci aveva consigliato il poliziotto, perché i primitivi non sanno cos’è il denaro.

Ci presentammo al distretto di polizia già pronte ma il poliziotto ci spiegò che erano sorti problemi riguardanti la guida che ci doveva accompagnare. Purtroppo non era arrivata.
Solo nel primo pomeriggio fummo finalmente in grado di partire, ma la barca non era come ce l’aspettavamo.

La nuova guida non aveva l’aria molto sveglia e la barca era una piroga, come quella che ci aveva trasferito dalla nave alla spiaggia e non ci sembrava molto solida.
L’imbarcazione ondeggiava paurosamente mentre ci sistemavamo con i nostri bagagli.
Il poliziotto ci spiegò che dovevamo sederci nel centro ed ecco che la canoa riprese la sua stabilità, malgrado il peso che stava portando ed iniziò a scivolare tranquilla tra le scure acque del fiume.

Nursal, il nostro poliziotto, aveva poco più di 30 anni ma bardato nella sua uniforme con armi e munizioni, faceva impressione pure a noi e dunque pensammo che avrebbe spaventato anche i primitivi che dovevamo raggiungere.
Eravamo in ritardo sulla partenza e perciò riuscimmo facilmente a convincerlo a non fermarsi al primo villaggio, che era proprio Montei, dove temevamo che parlando con i primitivi, avrebbe scoperto il nostro segreto.

Sorrise enigmatico alla nostra richiesta, lasciandoci il dubbio che fosse già a conoscenza della nostra disubbidienza.
Giunti a Holu trovammo un villaggio fantasma, il fuoco era acceso ma le capanne erano completamente disabitate, come se quelle persone fossero fuggite poco prima del nostro arrivo. Questo fatto ci convinse che il motivo era l’uniforme e soprattutto le armi del poliziotto che avevano spaventato i miti primitivi, perciò mentre risalivamo deluse il fiume con la canoa verso Samene, il terzo villaggio, cercammo in ogni modo di convincere Nursal a togliersi la divisa e a far sparire tutte le sue armi e le sue munizioni dentro il nostro zaino.

Non fu facile, ma ci riuscimmo, e quel simpatico giovanotto finì per mostrarsi con una semplice t- shirt bianca ed un paio di calzoncini corti, finalmente un ragazzo come tanti, che non avrebbe intimidito noi e nemmeno i primitivi che ci apprestavamo ad incontrare.
L’ingresso al villaggio di Samene fu trionfale, l’intero villaggio ci venne incontro mentre scendevamo dalla piroga.

Davanti correvano i bambini, nudi ed allegri, con piccole grida argentine, cercando di toccarci e scappando via per poi ritornare ridendo a crepapelle, mentre noi aprivamo una scatola di biscotti e cominciavamo a distribuirne alcuni ai più piccoli.
Notammo subito una cosa particolare: i bimbi a cui avevamo donato i biscotti non si stavano abbuffando, invece dividevano il biscotto a metà, offrendola al bambino più grandicello che avevano accanto e che non aveva ricevuto il biscotto.

Durante tutto questo viaggio nei diversi villaggi si presentò sempre questa scena di bimbi che dividevano con gli altri i dolci o il cibo che gli donavamo.
Questo per noi fu una lezione di vita che proprio laggiù in mezzo a quelli che venivano definiti “primitivi” dovevamo imparare.

Il villaggio era composto da numerose capanne su palafitte e nel centro non mancava la grande

uma, la capanna della comunità.
Gli anziani del villaggio, tra i quali notammo il Kerei e gli ukkui, ci salutarono prendendo le nostre mani tra le loro e sussurrandoci “Anelewita” che significa, come ci spiegò la nostra guida – Esistiamo anche noi -.
Ci condussero sulla veranda della loro uma, che divenne la nostra capanna per tutto il tempo che ci fermammo in quel meraviglioso villaggio.
Ci portarono del cibo, quanto avevano di più prezioso: riso con piccole ostriche e cocco, il tutto adagiato con cura su una bella foglia di banano.
Per ringraziarli oltre a donare loro delle foglie di tabacco, appesi all’ingresso della grande capanna alcune cartoline illustrate a colori, con Lecco adagiata sul suo bel lago lariano ed una coloratissima regata di canottaggio, che fu particolarmente apprezzata da tutto il villaggio, venuto in processione ad ammirarla, sorridendo mentre la indicavano.
Quella sera il Kerei (che è lo stregone e il guaritore del villaggio) mi donò due bracciali in metallo, uno in rame e l’altro in ottone, finemente lavorati con delle tacche, prese le mie mani nelle sue e mi fece un lungo discorso, che purtroppo non fui in grado di comprendere, perciò gli sorrisi, m’inchinai leggermente e gli donai la mia collana di perline colorate ed alcune foglie di tabacco.
Nel bagliore del fuoco acceso, poco più tardi, assistemmo ad una delle loro assemblee, proprio sulla veranda della grande uma.
C’era tutto il villaggio, comprese le donne ed i bambini.
Non potevamo comprendere di cosa stavano discutendo, anche se restammo affascinati da come gesticolavano parlando, ma ci lasciarono a bocca aperta, quando ascoltarono in assoluto silenzio un bimbo di 4 o 5 anni, che diceva la sua nel bel mezzo della loro riunione e, ci stupimmo ancor di più, vedendo alcuni anziani rispondere a quel piccolo, con grande serietà.
Più volte nella vita, mi sono soffermata, come ora, a pensare a quei primitivi, all’incantevole natura dell’isola di Siberut e a ricordare alcuni preziosi momenti di quell’avventura.
Una delle immagini che più ritorna alla mia mente fu la serata magica al villaggio di Sarogdok. Ricordo ancora il felice momento quando Nursal ci comunicò che dall’altra parte del villaggio, oltre il fiume che dovevamo guadare a piedi, c’era una cerimonia importante e il Kerei ci aveva concesso l’onore di parteciparvi, ponendo un’unica inderogabile condizione – nessuno poteva fotografare la cerimonia, in nessun momento -.
Ci spiegò che era tabù, proibito dallo stesso Kerei.
Naturalmente eravamo tutte d’accordo e giurammo che non avremmo portato la macchina fotografica con noi.
L’importante era partecipare a quella cerimonia, che per noi valeva più di qualsiasi foto rubata, ne eravamo consapevoli.
Portammo invece un bel pacco di foglie di tabacco, per offrirle al Kerei ed agli anziani danzatori.
E’ come se il tempo si fosse fermato in quell’istante e quell’emozione sia rimasta così forte dentro di me da restare inalterata, per sempre.
C’è la luna piena ed il suono ritmato dei tamburi, pervade l’aria tiepida e profumata, rallegrando i cuori ed avvisando il villaggio di Sarogdok e quelli vicini che la cerimonia sacra sta per iniziare. Siamo sedute per terra, su una stuoia, una accanto all’altra, in reverente attesa, sulla veranda della grande uma, costruita con fusti di bambù e foglie di palma.
Molta altra gente del villaggio è accovacciata come noi per terra, occupando tutti i lati della capanna e certamente tra questi spiccano gli ukkui, gli anziani capi famiglia.
Il vero rito si svolge poco distante, in un angolo, dove si sono riuniti in circolo i musici con i loro tamburi e lì accanto a loro vi è l’imponente figura del Kerei, lo sciamano, il medico veggente, con accanto i suoi allievi ed il Rimata, il programmatore delle cerimonie, scelto tra gli anziani. Indossano tutti solo un perizoma vegetale, hanno una specie di coda, formata da piume e foglie colorate che completa, insieme al copricapo, il loro variopinto abito di cerimonia, così che tutti possiamo notare la magnificenza del loro vero abito, i loro tatuaggi, che i più anziani, portano con particolare orgoglio.
Ecco che il Kerei, il personaggio più importante della cerimonia, dall’aria nobile e saggia, con il copricapo più alto e colorato, viene verso di noi; si china lievemente con un saluto di benvenuto ed un sorriso che traspare dai savi occhi, prende le nostre mani tra le sue e con voce ferma ci sussurra il suo antico mantra: – Anelewita -.
I musici, presso il grande fuoco vivace, tendono la pelle di serpente dei loro tamburi affinché

possano vibrare meglio, e, poco lontano, vediamo una persona distesa su una stuoia, con aria sofferente.
Nursal, ci spiega che stiamo per assistere ad una antica danza: una cerimonia di guarigione. Il veggente stregone, danzerà con i suoi allievi, al ritmo dei tamburi tutta la notte, per convincere l’anima del malato a non lasciare il suo corpo.

Intanto lo sciamano raggiunge l’ammalato e si china su di lui con dolcezza, facendogli bere una pozione d’erbe curative mentre i tamburi continuano a battere il loro grido con ritmo incessante. Improvvisamente il volto dei danzatori e del Kerei, durante il ritmo cadenzato dei tamburi, inizia a trasfigurarsi così come il loro corpo. Danzano imitando il volo di uccelli atavici, facendoci venire i brividi, mentre richiamano in noi ancestrali momenti, sopiti sotto molti strati della nostra memoria. Non riusciamo nemmeno a chieder delucidazioni alla nostra guida su ciò che stanno rappresentando in quell’istante, perché la musica e quella danza sono ormai entrate anche in noi. Siamo come ipnotizzate, mentre seguiamo con occhi estatici quegli armoniosi movimenti cadenzati, alla luce guizzante delle fiamme.

Ogni tanto i suonatori di tamburo s’avvicinano al fuoco per tendere di nuovo le pelli di serpente, pochi minuti ed ecco che la danza riprende.
Stupore, rabbia, tristezza … nel momento clou, quando la danza è più spettacolare ed i tamburi raggiungono il massimo del ritmo, tutto si ferma … all’istante.

Nell’assoluto silenzio di quell’attimo il Kerei viene verso di noi e ci dice che abbiamo infranto la nostra promessa e che dobbiamo andarcene subito.
Non riesco a capire, non ho fatto fotografie e non ho visto nessuna di noi farne; eppure una delle ragazze ha fatto un’unica foto, di nascosto, senza flash e ciò è bastato a fermare la cerimonia.” Come riuscì il Kerei ad accorgersene?

Sono trascorsi decenni ed ancora me lo chiedo.
Io ero accanto a chi ha fatto la foto eppure non me ne sono accorta.
Non ho udito nemmeno il click perché il rumore dei tamburi era fortissimo in quell’istante, eppure lui l’ha percepito e ci ha rispedite subito alla nostra capanna dall’altra parte del fiume, noi quattro ed anche la nostra guida e Nursal.
Tutti colpevoli, anche se era stata solo una la persona ad aver trasgredito.
Fu terribile allontanarci da lì mentre tutta quella gente ci guardava con occhi tristi.
I tamburi attesero finché raggiungemmo l’altra metà del villaggio prima di riprendere a vibrare, con i loro ritmi sempre più alti, per tutta la notte, mentre a noi restava la nostalgia d’aver perso qualcosa di meraviglioso che avevamo solo sfiorato.
Il mattino seguente, al nostro risveglio, Nursal ci comunicò che dovevamo rientrare subito a Muara. Pioveva a dirotto, non sapevamo da quante ore.
Le grandi piogge erano iniziate e presto il fiume si sarebbe ingrossato troppo per permetterci di ritornare.
Infatti era già incredibilmente aumentato ed era cupo e minaccioso.
Arrivammo alla nostra imbarcazione, sotto l’acquazzone torrenziale, dopo aver salutato i primitivi del villaggio, che ci avevano preparato una colazione a base di sago e del tè.
In un attimo fummo tutti sulla piroga, bagnati fino al midollo perché l’acqua continuava incessante a cadere e nemmeno il mio k-way fu in grado di mantenermi asciutta.
Nursal cercò di aiutarci e ci offrì un telo cerato per avvolgerci un po’, riprendendo subito il suo posto di vedetta sulla punta della canoa.
Il poliziotto, con il remo cercava di spostare, con forza, tutti i tronchi, che affioravano in quelle acque ormai molto turbolente, piene di correnti e mulinelli.
Il viaggio proseguì nel silenzio e nella preoccupazione, perché ci rendevamo conto che sarebbe bastato anche solo un piccolo ostacolo a far capovolgere quella fragile imbarcazione.
Eravamo in balia della corrente che ci stava trascinando troppo velocemente.
Finalmente raggiungemmo uno dei villaggi che già ci aveva ospitati, dove ci accolsero in una capanna con un grande fuoco per farci asciugare gli indumenti bagnati, mentre fuori continuava senza sosta la grande pioggia.
Restammo alcune ore.
Il sole ricomparve all’improvviso, forte, caldo, asciugando tutto e rendendo meraviglioso il nostro rientro tra le mille tonalità verdi delle piante della giungla che risplendevano ai lati del fiume, mentre nell’aria riprendeva la musica degli insetti e degli uccelli, rompendo il silenzio, quasi un inno

di ringraziamento al sole, al quale sentimmo di poterci unire cantando una dolce canzone italiana. Fu impossibile questa volta non fermarci un poco al villaggio di Montei.
Qui i primitivi ci riconobbero e ci accolsero cantando in coro “Bella ciao”.
Nursal ci guardò con aria di riprovazione e ci fece capire che l’aveva sempre saputo.

Ci spiegò che proprio per quel motivo al distretto di polizia avevano deciso di accompagnarci dai primitivi.
Non si fidavano più di noi, che avremmo potuto combinar altri guai, rischiando la nostra vita. Aggiunse che era ben felice di riportarci alla nave, che quella stessa sera avrebbe lasciato l’isola. Eravamo stanche e non cercammo di replicare.

L’esperienza era stata intensa e molto faticosa, avevamo bisogno di fermarci un poco a riposare. La nave ci riportò verso Sumatra quella sera stessa.

Quando vidi l’isola allontanarsi e diventare un punto nell’oceano, mi resi conto dell’immenso dono che avevamo ricevuto e ripensai con consapevolezza a quel saluto di benvenuto che comprendeva tutto il loro mondo: Anelewita!

Siberut 1981

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Questo articolo ci è stato proposto dalla nostra redattrice di Genova Arch. Tiziana Leopizzi, desiderando presentare ai lettori de Il Pensiero Mediterraneo l’autrice Carmen Lafranconi, un flash del carattere di questa artista sensibile, intrepida e generosa.

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