“Artemisia”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello (Parte terza)
A conferma del carattere forte e indipendente, Artemisia in quel periodo, tra
le altre opere, dipinse due tele di grande potenza espressiva, ricche di
chiaroscuri con un preciso richiamo al suo vissuto personale: Susanna tra i
vecchioni e Giuditta che decapita Oloferne. Nel primo volle rappresentare il
drammatico ricatto subito, raffigurato dalla bellissima eroina biblica mentre
fa il bagno; il secondo la decapitazione di Oloferne mediante una
rappresentazione così realistica che quasi si vede il sangue fuoriuscire dalla
testa del generale assiro e macchiare il lenzuolo sul quale era disteso.
Non c’è dubbio che quelle opere rimasero come un segno distintivo di riscatto
della sua vicenda personale.
Mio padre si impegnò a far cancellare il disonore di mia sorella, dandola in
sposa al toscano Pier Antonio Stiattesi, modesto pittore, di dieci anni più
grande. Artemisia pur non amandolo acconsentì al matrimonio con la
dignità e la forza d’animo che aveva dimostrato durante i terribili giorni del
processo.
L’anno 1612 segnò la fine di un periodo difficile per mia sorella Artemisia,
che si preparava a lasciare Roma per raggiungere Firenze con il suo sposo.
Già da qualche tempo prima, mio padre aveva indirizzato una lettera alla
granduchessa Cristina di Lorena segnalando con orgoglio il talento della
figlia.
Ora Artemisia con l’aiuto del marito sperava di ottenere importanti
commissioni.
Per me che continuavo a lavorare nella bottega di mio padre si preparava un
tempo grigio. I miei quindici anni non mi permettevano altro che qualche
piccola scappatella. Mi restava vivo il rimpianto di mia madre e di non
avere più a casa Artemisia.
Dopo aver lasciato la casa di via della Croce, da
alcuni mesi ormai abitavamo nei pressi della chiesa di Santo Spirito in
Sassia, dove si era celebrato il matrimonio di mia sorella. Mi feriva molto il
fatto che il Tassi fosse stato liberato e continuasse con la sua solita
spavalderia a circolare per la città. Il pensiero di aver accettato qualcosa da
lui, stupratore di mia sorella, mi perseguitava procurandomi rimorso e
disprezzo. Ancora qualche giorno prima di quell’evento drammatico
quando al mattino presto Artemisia, accompagnata da Tuzia, era andata a
San Giovanni in Laterano, avevo visto il Tassi e un amico che attendevano
fuori della chiesa. La piazza era invasa da un gran numero di mercanti che
vendevano mercanzie varie e dolciumi. Scorgendomi lì vicino, il Tassi era
stato pronto a offrirmi una ciambella comprata sul momento, come quella
che mi aveva dato il giorno prima per estorcermi il segreto della visita in
chiesa progettata da Artemisia.
Tornando verso casa, lungo la via Merulana, in un punto in cui non c’erano
fabbricati ma siepi e vigne, dopo che il suo amico con una scusa tratteneva
me e Tuzia, aveva molestato Artemisia, che lo aveva respinto, come poi
piangendo raccontò alla sua amica.
A Firenze Artemisia rifiorì. Grazie al marito fu introdotta alla corte di
Cosimo II, ebbe un gran numero di committenti importanti che
apprezzavano la sua arte. Presso i salotti fiorentini conobbe nobili e
personaggi di gran fama come Galilei e curò la sua formazione culturale
con impegno di autodidatta, leggendo e scrivendo.
Il granduca fu un convinto sostenitore della sua arte e la fece ammettere
all’Accademia delle Arti e del Disegno fiorentina, come prima e unica
donna.
Di tanto in tanto leggevamo queste notizie con grande soddisfazione nelle
lettere che ci faceva pervenire. Mio padre apprezzava i suoi progressi, ma
poi si chiudeva nel suo isolamento e lavorava, forse anche con un po’ di
invidia. Io, a suo giudizio, ero perduto. Non avrei potuto essere altro che
uno dei tanti modesti pittori senza talento che giravano per la città, senza
mai trovare un committente.
Mio padre, dopo il fallimento del sogno di poter lavorare a Firenze presso la
corte del granduca, continuò a tenere aperta la bottega a Roma, confidando
sull’aiuto dei suoi tre figli maschi. Ciascuno di noi cominciava a mostrare le
proprie inclinazioni. Giulio, fisicamente più robusto, si era assunto il
compito di stare sulla difensiva per scoraggiare ogni eventuale attacco da
parte di pittori nemici e soprattutto da una probabile vendetta di Agostino
Tassi. Marco, il più piccolo, era incaricato della preparazione dei colori e di
collaborare con gli apprendisti; io, invece, che come pittore non avevo
talento, mi occupavo delle relazioni perché mi piaceva trattare con i vari
possibili acquirenti, negoziare, illustrare con termini tecnici appropriati la
qualità di una tela.
Quando Artemisia, dopo sette anni tornò a Roma in una fastosa carrozza,
prese alloggio in una casetta a due piani nei pressi di via del Corso. Con lei,
oltre al marito e all’unica figlia sopravvissuta Prudentia, c’era un suo
giovane ammiratore, Francesco Maria Maringhi, discendente di una antica
aristocratica famiglia fiorentina, che si diceva fosse il suo amante.
A Firenze negli ultimi anni aveva condotto una vita molto dispendiosa:
vestiti, gioielli e arredamento della casa, avevano assorbito tutti i proventi
derivati dalla vendita dei suoi quadri. Ma nonostante la generosità del suo
illustre protettore Michelangelo Buonarroti, pronipote del grande artista, era
stata costretta a lasciare Firenze per sfuggire ai suoi creditori.
A Roma si rese conto che altre correnti artistiche si erano fatta strada e
soprattutto che non poteva più sperare in prestiti sostanziosi da parte del suo
protettore. Suo marito che fino ad allora aveva volutamente ignorato la
relazione amorosa tra lei e il giovane fiorentino decise di mettersi da parte
definitivamente e lasciò la città.
In quel tempo io provavo a vendere ad aspiranti nobili o a improvvisati
collezionisti d’arte sprovvisti di un minimo di conoscenze tecniche
pittoriche, qualche piccola tela che dipingevo in gran segreto. Riuscivo
spesso a venderne qualcuna sfruttando la loro ambizione, il nome F.
Gentileschi e soprattutto la mia eloquenza. Ma il mio impegno era
particolarmente rivolto a tenere i contatti con i mercanti d’arte, con i
segretari dei vari nobili, dei monsignori, spesso per sollecitare il pagamento
dei quadri acquistati alla bottega di mio padre.
Dopo mie insistenze, mio padre si era finalmente convinto che il mercato di
Roma non era più quello di un tempo. La stessa mia sorella Artemisia ne
era convinta e già meditava un suo trasferimento a Napoli. Esposi a mio
padre il progetto che avevo in mente. In qualità di suo agente ufficiale avrei
preso contatto con vescovi, canonici, priori e badesse per ottenere
commissioni presso chiese, conventi e monasteri. Cercavo anche di
sottolineare il fatto che per la gloria futura era più sicura un’opera eseguita
in quei luoghi piuttosto che una tela venduta a un collezionista, sia pure
importante. Gli facevo notare che, alla sua morte o in precarie condizioni
economiche, il collezionista o i suoi creditori, mettendo tutto all’asta,
finiscono con il disperdere la collezione. Certo in cuor mio mi rendevo
conto che ciò che proponevo gli sarebbe costato una enorme fatica per il
lavoro da eseguire spesso in locali bui, freddi, umidi e in bilico su
impalcature pericolose.
Infine riuscii a spuntarla. Mi diede alcuni rotoli di suoi disegni che protessi
con cura e partii con la mula verso il nord. Mi sentivo libero, felice e
fiducioso nella buona riuscita dell’impresa.
Quella mattina di tarda primavera, ritto sulla mula, uscivo da Porta del
Popolo. Mostrai alle guardie il mio salvacondotto che il canonico di Santo
Spirito in Sassia mi aveva procurato e uscii dalla città. Ero giovane e forte,
ma non avevo voluto trascurare di portare con me una pistola. Inoltre
tenevo ben in vista un pugnale con una impugnatura di avorio su cui da
tanto tempo avevo messo gli occhi, quando stava ben esposto sul banco di
un mercante mio amico. Sapevo che bande di briganti infestavano le
campagne, per cui volevo essere preparato ad ogni evenienza.
A poca distanza dalla città si incontravano miseri contadini, scalzi, vestiti di
stracci, seguiti dalle loro donne e da un gran numero di bambini. Si
fermavano, restavano in attesa del passaggio di qualche carrozza elegante
dalla quale speravano che qualcuno si affacciasse per ottenere una generosa
elemosina.
Sebbene io non fossi né nobile, né ricco e quindi non
responsabile del loro stato di miseria, un moto di pietà e di vergogna mi
spinse a fermarmi per dare una moneta e un tozzo del mio pane a una donna
che mi tendeva la mano e con l’altra reggeva un bambino ancora in fasce.
Verso il tramonto giunsi in vista di Farfa. Da ragazzo avevo seguito mio
padre che era stato incaricato di dipingere le tre cappelle laterali della
navata della chiesa. Certamente il nome di Orazio Gentileschi doveva dire
qualcosa ancora ai monaci cistercensi, per cui in nome di quel servizio
intendevo chiedere ospitalità per quella notte.
Mi aprì un vecchio monaco, il quale quando sentì il mio nome si rallegrò e mi abbracciò. Si ricordava perfettamente di quel ragazzo che tutto il giorno correva dietro al padre, porgendogli pennelli, preparando colori, mescolando oli, secondo gli ordini del padre. Corse ad avvisare il priore, il quale essendo arrivato da poco a
Farfa, non aveva conosciuto mio padre, ma apprezzava l’opera che aveva
prodotto per il monastero.
La mattina seguente, dopo aver ringraziato il priore, ripartii dirigendomi
verso le Marche, dove sapevo di trovare chiese parrocchiali di importanti
comuni e conventi di frati e di suore.
Già da allora amavo la libertà del vivere, del viaggiare. In fondo ero
contento di non aver ricevuto in dono dalla sorte quel talento che mio padre
aveva presto scoperto in Artemisia. Mi ero fatto ormai consapevole che quel
talento l’aveva resa ancora più sottomessa a mio padre, non solo come
donna, ma anche come artista. Lui gioiva quando riusciva a riprodurre quei
colori straordinari, giallo ocra, rosso vermiglio, verde bottiglia, per le vesti
sontuose dei personaggi che raffigurava. Ma non le risparmiava critiche
severissime, fino a quando poco alla volta non si rese conto che l’allieva
stava superando il maestro.
Da quel momento gli nacque una forma di gelosia, di rabbia al vedere come Artemisia riusciva a impadronirsi e, a suo dire, a rubare composizioni da lui ideate. Certamente fu questo sentimento negativo nei suoi confronti quando quel giorno che andammo a Firenze per incontrarla nel periodo del suo enorme successo, presso la corte del granduca di Toscana e i nobili fiorentini, si rifiutò di vederla.
Ricordo che io l’abbracciai con tenerezza e la confortai sia per il lutto recente per la
morte quasi contemporanea dei suoi due bambini e sia per il carattere
scontroso e violento del nostro genitore.
Quella mattina, dunque, mi sentivo libero dalla opprimente pressione di mio
padre che finalmente ero riuscito a convincere che io potevo essere meglio
di aiuto più che in bottega, andando in giro come agente. E questo ora mi
lasciava respirare, mi lasciava il tempo di contemplare la natura, i fiori, i
canneti, i boschetti.
Se non incontravo anima viva, mi piaceva parlare con la mia mula, la
ringraziavo, le chiedevo se desiderava riposare, la mia mula che mi portava
lontano da Roma, attraverso sentieri appena tracciati, colline, pianori, strade
che si affacciavano sui greti di torrenti. Dinanzi a certi panorami con
boschi, campi coltivati, vigne, a volte mi veniva voglia di sedermi e
tracciare qualche disegno.
Un giorno incontrai un pastore con un piccolo gregge di pecore. Gli chiesi
se nelle vicinanze ci fosse un paese, una chiesa, un convento. Il pastore mi
guardò dapprima con un po’ di diffidenza, poi sentito che venivo da Roma e
pensando che fossi un personaggio importante, inviato dal papa, alzò il
lungo bastone che teneva in mano per difesa, si piegò sulle ginocchia e
indicandomi la direzione, mi disse che superata la collina, avrei visto di
fronte a me il paese di Matelica.
Dall’alto della collina vidi alcune case sparse e in lontananza un piccolo
paese.
Il mio salvacondotto mi fece accedere senza difficoltà in città e, ad appena
pochi passi dalle mura, mi trovai dinanzi una chiesa con a fianco una grande
costruzione. Su una iscrizione in pietra lessi: Monastero delle suore clarisse.
Una suora da dietro la grata della finestra mi aveva già visto dinanzi alla
porta e, incuriosita dal mio aspetto, prevenne la mia richiesta e mi domandò
se avessi bisogno di aiuto. Spiegai la ragione del mio viaggio, mostrai il
mio prezioso salvacondotto che aveva in vista lo stemma dello Stato
Pontificio e finalmente mi fece entrare. Si affrettò ad avvertire la badessa.
Subito dopo apparve una giovane suora alta, dagli occhi luminosi che mi
accolse con gentilezza. E quando pronunciai il mio nome, le si accese un
sorriso, dicendo che lei aveva avuto occasione di ammirare qualche bella
tela del maestro Orazio Gentileschi.
Pensai, dunque, che il mio compito di parlare in favore della pittura di mio padre sarebbe stato piuttosto facile.
Mentre parlavamo, il coro delle suore in preghiera si faceva sempre più
vicino. E allora si scusò in fretta, dicendomi di tornare verso l’ora del
tramonto, quando avremmo potuto parlare con più tranquillità, dopo le
orazioni e la cena.
Per tutto il giorno mi risuonarono nelle orecchie la sua voce, le sue parole
che rivelavano l’origine veneziana. Gli occhi azzurri mi spingevano a
indovinare quale potesse essere il colore dei suoi capelli. Pregavo il sole di
accelerare la sua corsa verso il tramonto.
Giunsi al monastero con un largo anticipo e mi disposi ad aspettare. Poi
finalmente la suora portinaia mi fece entrare e mi accompagnò fino alla
stanza della badessa. Mi sembrò ancora più bella rispetto al mattino e
vedendo che la guardavo senza dire nulla, ruppe il silenzio dicendomi di
mostrarle i disegni che avevo con me. Li guardò attentamente, li ammirò e
lodò il lavoro di mio padre, definendolo un grande artista.
Poi mi invitò a sedermi accanto a lei e senza aspettare che le facessi alcuna
domanda, mi disse che era convinta che il monastero potesse ricevere lustro
da un’opera di Orazio Gentileschi.
Accortasi che restavo affascinato dalla sua lingua armoniosa, aggiunse con mia viva sorpresa che a Firenze, prima di entrare in monastero, aveva visitato la bottega di Artemisia. Le sue tele l’avevano attratta in modo irresistibile. Un talento davvero eccezionale come la sua storia personale che era nota a tutti.
Suo padre, a seguito di una sfortunata serie di rovesci commerciali, non
potendole assicurare una dote per il matrimonio, l’aveva destinata alla
monacazione. Lei purtroppo non aveva potuto sfuggire a quella sorte e ora
si trovava lontana dalla vita che aveva sempre sognato. E mentre così
parlava, si era slacciata la cuffia e un mare di capelli biondi ondulati le
scese sulle spalle.
Non so come, ma una forza irresistibile mi sollevò dalla sedia e le carezzai
quei capelli. Poi, impaurito, la guardai e vedendo due lacrime che le
solcavano il viso, mi avvicinai e la baciai.
In groppa alla mula lasciavo il monastero ormai avvolto nell’oscurità. Prima
di svoltare l’angolo per tornare alla locanda dove avrei passato la notte, mi
girai indietro e alla luce di un lume alla finestra del primo piano, mi parve
di scorgere un’ombra, alzai il braccio in segno di saluto.
Uscendo da Matelica, mi avviai verso Fabriano, dove sapevo di trovare
belle chiese e monasteri. Con un po’ di fortuna, pensavo che se avessi
trovato un altro committente, avrei già potuto tornare a Roma e convincere
mio padre ad accettare le offerte nel territorio delle Marche. Coltivavo il
desiderio di poter rivedere così la badessa delle clarisse di Matelica!
Contavo molto sulla città di Fabriano. I suoi cittadini vantavano belle opere
d’arte; là era nato l’illustre pittore Gentile, che nel secolo scorso aveva
lasciato gran fama di sé. Ecco speravo che in quella città avrebbe potuto ben
figurare un’opera di mio padre.
Fui fortunato perché arrivando in città seppi che il vescovo era alla ricerca
di un pittore per la realizzazione di una Maddalena Penitente per la chiesa
di Santa Maria Maddalena, sede dell’Università dei Cartari.
Quando mostrai i disegni di mio padre, il vescovo e la commissione di
prelati furono ben impressionati e qualcuno disse che a Roma aveva
ammirato qualche sua bella tela.
In pochi giorni, dunque, svolsi il mio compito. Prima di lasciare la città un
monsignore mi parlò dell’ordine religioso dei Silvestrini che proprio in quei
giorni desideravano decorare la chiesa di Santa Maria del Campo della
vicina cittadina di Sassoferrato. Decisi perciò di procedere verso quella città
come ultima tappa prima di iniziare il viaggio di ritorno.
Giunto là, trovai una città molto attiva, dappertutto banchi di merci di ogni
tipo, specialmente di oggetti di pelle, lavorati artisticamente.
In alto sorgeva un castello e attorno degradando innumerevoli case, ciascuna con il suo orto.
La chiesa sorgeva vicino a un piccolo ponte sul torrente che versava le
sue acque nel fiume Sentino e aveva a fianco una lunga costruzione in
pietra viva che accoglieva i monaci. Parlai con il priore della chiesa, il quale
mi confermò l’intenzione di decorare la chiesa, ma non possedevano ancora
la giusta quantità di scudi d’oro che ritenevano necessaria per dare inizio ai
lavori.
– “Speriamo di poter trovare presto un benefattore o un pittore della nostra
città che possa accontentarsi di una somma modesta”.
Mentre così parlava, il priore vide passare fra la gente un ragazzetto di circa
dieci anni. Lo fece chiamare e quello, avvicinatosi, salutò rispettosamente.
Il priore gli pose una mano sulla spalla: “Ecco, disse, forse sarà lui il nostro
pittore. E’ il più bravo apprendista nella bottega del maestro Tarquinio”.
Io feci presente che Orazio Gentileschi avrebbe lavorato a Fabriano su
richiesta del vescovo e chissà forse avremmo potuto parlarne più avanti.
Prima di andare via, chiesi il nome di quel ragazzo. – “Ah, disse, si chiama
Giambattista Salvi”.
[Continua]