“Artemisia”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello (Parte seconda)
Un pomeriggio girovagavo con certi amici, quando vidi venire da Piazza
Navona una piccola folla: davanti riconobbi mio padre che stava in mezzo a
due guardie che lo avevano arrestato. Corsi subito a casa a portare la brutta
notizia a Artemisia, la quale però non mi parve molto turbata. Forse si
aspettava che un evento del genere potesse accadere da un giorno all’altro,
visto che nostro padre frequentava amici niente affatto raccomandabili. Ma,
come più tardi si seppe, l’arresto e il processo che ne seguì, furono causati
da una denuncia piuttosto banale, almeno così ci sembrò allora.
Il pittore Giovanni Baglioni si era sentito diffamato da un sonetto che era apparso
sulla statua di Pasquino. Baglioni era un pittore molto noto e apprezzato da
nobili e cardinali, per cui non poteva correre il rischio di vedersi distruggere
la reputazione. Si era rivolto al papa Clemente VIII, sicuro di ricevere
sostegno e solidarietà, perché il pontefice aveva emanato disposizioni
severissime per i cosiddetti poeti che infangavano con versi osceni e
ripugnanti il prestigio di un noto personaggio, da quando lui stesso era stato
vittima di tali iniquità, dopo la condanna a morte di Beatrice Cenci e della
sua famiglia. Si scriveva, infatti, che non aveva fatto nulla per evitare quella
condanna, perché così poteva appropriarsi dell’immenso patrimonio dei
Cenci.
Il processo, nel quale era coinvolto anche il Caravaggio, si concluse
tuttavia senza gravi conseguenze per mio padre, che fu subito scarcerato.
Ricordo che mio padre era venuto in aiuto del Caravaggio anche in un
precedente processo, quando il pittore fu denunciato dalla proprietaria della
casa dove alloggiava, perché accusato di non pagare l’affitto. Il Caravaggio
si era poi vendicato, facendo rompere a sassate i vetri delle finestre di casa
della proprietaria, ricorrendo all’aiuto di una squadra di ragazzi, tra i quali
ero stato coinvolto anch’io.
Artemisia si faceva sempre più bella e sempre più abile nella pittura.
Cresceva perciò la gelosia di mio padre. Mi aveva dato l’incarico di
riferirgli tutto ciò che diceva e faceva, se si affacciava alla finestra o se
varcava l’uscio di casa da sola. Allo stesso tempo aveva pregato una vicina
di nome Tuzia, una donna di circa trent’anni, madre di due bambini, di
vigilare Artemisia soprattutto quando lui non era in casa.
Con questa donna, ancora giovane e di bello aspetto, Artemisia si confidava
e la riteneva un’amica fidata. Approfittando dei lunghi periodi di assenza di
mio padre, Artemisia poco più che sedicenne diede una prova eccezionale
del suo talento di pittrice.
Mi ero accorto che Tuzia faceva da modella con il suo bambino piccolo e
Artemisia la ritraeva come una dolcissima Madonna con bambino. La sera,
prima del ritorno del padre, Artemisia nascondeva la tela per poi riprenderla
il giorno dopo. Io non osavo riferire a mio padre quel segreto. Ma quando
una sera lo scoprì, preferii restare fuori di casa e saltare la cena. Poi seppi,
invece, che mio padre era rimasto affascinato e commosso dinanzi a quella
toccante composizione, a quei colori vivaci, a quell’arte così vicina alla
lezione delle sue opere e, attraverso queste, al realismo del maestro
Caravaggio e così lontana da quell’ideale devozionale che la chiesa della
Controriforma esigeva dai pittori al suo servizio. La Madonna, se era
lontana dal sacro, era invece una madre reale nell’atto naturale di allattare il
bimbo con delicata tenerezza.
Fu così che mio padre, Orazio Gentileschi, vinse ogni pregiudizio verso la
donna che, in possesso di eccezionale talento, può dedicarsi alla pittura. Che
strano destino il suo! Avrebbe voluto che a seguire la sua strada fossi stato
io, il maggiore dei maschi, ma presto si era accorto che in me non c’era
quella stessa fiamma che ardeva in Artemisia. Decise che per me sarebbe
stata sufficiente quel po’ di tecnica che via via andavo apprendendo e che
invece per la figlia fosse necessario curare la preparazione.
Si era legato di amicizia con Agostino Tassi che in quel momento a Roma
vantava molte importanti protezioni, nonostante la sua vita di violento e di
smargiasso. Come pittore godeva di grande fama di esperto di prospettiva e
creatore di illusioni prospettiche, per cui riusciva ad ottenere numerose
commissioni per dipingere pareti e soffitti dei nuovi e sontuosi palazzi che i
nobili facevano a gara di elevare per dimostrare il potere dello loro
famiglie.
Quale migliore maestro, dunque, per la diciottenne geniale Artemisia?
Il Tassi accettò volentieri l’incarico, affascinato dalla bellezza di Artemisia,
che aveva avuto modo di ammirare durante i lavori di decorazione del
Casino delle Muse del palazzo di proprietà del principe Scipione Borghese,
nipote del pontefice Paolo V. Mio padre, infatti, aveva voluto Artemisia,
come modella per rappresentare una suonatrice e il Tassi al vederla così
bella e altera, non poté fare a meno di innamorarsene. Ma Artemisia non lo
degnò neanche di uno sguardo di incoraggiamento, perché aveva già una
sua passione segreta per un certo Geronimo, un giovane di ottima famiglia,
timido, dai modi gentili.
Artemisia lo aveva notato passare per strada ed era bastato che il giovane
avesse alzato lo sguardo verso la finestra per invaghirsi di mia sorella.
Debbo confessare che in quella circostanza non solo fu complice Tuzia, ma
anche io.
Avevo circa tredici anni, allora, e siccome cominciavo a sentire un grande
affetto e apprezzamento per la bravura di Artemisia, mi umiliai fino al
punto di rassegnarmi a portare di tanto in tanto certi bigliettini che il
giovane scriveva a Artemisia, la quale li leggeva con l’aiuto di Tuzia.
La complicità della donna consistette nel fatto che il giovane Geronimo
ebbe la possibilità di mettere piede nella bottega quando mio padre era
assente. In quelle occasioni io mi incaricavo di trascinare via i miei due
fratelli più piccoli, Giulio e Marco, e un paio di ragazzi apprendisti che
aiutavano in bottega.
Quando un giorno mio padre tornò prima del solito e sorprese il giovane a
colloquio con Artemisia, si infuriò al punto da prendere il bastone della
scopa e darlo più volte sulla schiena del poveretto, costringendolo alla fuga.
A calmare l’ira di mio padre valsero ben poco le assicurazioni di Tuzia che
diceva di essersi allontanata per assistere i suoi bambini e i suoi giuramenti
che tra i due c’erano stati solo brevi e innocenti colloqui, mentre Artemisia
dipingeva. Quel bastone, la sera al mio rientro purtroppo lo sentii anch’io
più volte sulla mia schiena.
Il nome di Artemisia era sulla bocca di tutti, non solo come abile pittrice,
ma come modella che si prestava a farsi raffigurare priva di veli. Si
pensava, dunque, a una giovane libera quasi come una cortigiana. Questo
non era assolutamente vero. Un innato senso di castità la manteneva sempre
in uno stato di pensosa riservatezza, senza nulla mai concedere alle lusinghe
di corteggiatori improvvisati.
Il più audace di costoro fu il Tassi. Era un uomo basso, tarchiato, già avanti con gli anni, privo di scrupoli morali.
A Roma aveva subito un processo per l’accusa di adulterio e incesto, accusa
molto grave per la quale fu condannato, ma grazie alla protezione dei nobili
per i quali lavorava, restò libero di commettere impunemente altri reati.
Un giorno di maggio del 1611, il Tassi approfittando della complicità di
Tuzia, alla quale promise del denaro, si introdusse in casa, entrò nella
bottega dove Artemisia stava dipingendo e, toltile dalle mani pennelli e
tavolozza, nonostante la resistenza di mia sorella, la stuprò.
Quel giorno ero andato a portare il pranzo a mio padre che lavorava su una impalcatura, dalla quale con un pretesto l’amico Tassi si era allontanato. Aspettai che il padre consumasse il pasto e poi tornai a casa. Sulle scale vidi che Tuzia e
Tassi parlavano animatamente, ma al mio apparire si separarono in fretta.
Quando entrai, trovai Artemisia che piangeva in un angolo. Raccolsi i
pennelli, la tavolozza e alcune tele rovesciate e, visto che non voleva
rispondere alle mie domande, la lasciai e corsi da Tuzia. Mi disse che era
meglio occuparmi d’altro, che non potevo capire certe cose e che si trattava
di una crisi di pianto di cui spesso le donne sono vittime, ma di breve
durata.
In effetti, qualche ora dopo, trovai Artemisia intenta a dipingere. Quando mi
avvicinai, si asciugò la mani sul grembiule e mi accarezzò i capelli.
La sera nemmeno il padre si accorse di nulla.
Evidentemente Tuzia era riuscita a rassicurarla con le sue ciarle e promesse, le stesse che Tassi aveva fatto a Artemisia, ferita nel suo onore e sconvolta e cioè che il matrimonio riparatore avrebbe salvaguardato la sua reputazione.
Nei mesi seguenti, ricordo che il Tassi continuò a incontrarsi con Artemisia.
Mio padre aveva intuito qualcosa, ma la prudenza lo tratteneva per via degli
interessi comuni. Il Tassi riusciva a procurarsi con il suo carattere
estroverso e la sua maestria un gran numero di commissioni da parte della
nobiltà romana.
D’altra parte, come più tardi emerse, Artemisia sperava
nella riparazione del matrimonio. Quando apprese con certezza che Tassi
era sposato e che forse era il mandante dell’assassino della moglie e che
aveva come amante Costanza, la giovane quindicenne sorella minore della
moglie, non poté più fare a meno di confessare tutto al padre. Questi,
dunque, si sentì in obbligo di denunciare il Tassi, sia per stupro di Artemisia
e sia per furto, poiché era scomparsa una sua tela di grande dimensione.
Il processo si svolse tra il marzo e il novembre del 1612 e fu una prova
durissima per Artemisia che dovette strenuamente, anche sopportando la
tortura voluta dai giudici, difendersi dal tentativo del Tassi di negare il fatto
e dalle accuse di donna cortigiana, prostituta, da parte di vari testimoni
pagati dal pittore. Quella esperienza segnò per sempre la vita personale e
artistica di Artemisia.
Volevo bene a mia sorella e desideravo venire a conoscenza dell’andamento del processo.
Durante gli interrogatori degli accusati e dei testimoni, solo pochi
interessati potevano assistere; in un momento in cui la porta della sala era
rimasta socchiusa, potei guardare in faccia quell’odioso smargiasso e le
spalle di Artemisia, seduta dinanzi ai giudici. Poi scoprii che passando dal
cortile e arrampicandomi fino a una finestrella, potevo gettare lo sguardo
all’interno della sala, dove si svolgevano gli interrogatori. Fu così che
durante un interrogatorio vidi il triste spettacolo della tortura. Avevano
legato i polsi di Artemisia con una corda e aiutandosi con un randello
stringevano i pollici delle mani fino a farli sanguinare. Solo allora si
fermarono. Artemisia non emise un lamento. Sconvolto, non volli più
assistere agli interrogatori.
A casa spesso, mentre mio padre con il suo carattere introverso continuava
il suo lavoro, io stavo accanto a mia sorella, le prendevo le mani avvolte in
fasce e con delicatezza gliele carezzavo e le facevo coraggio, dicendole che
appena guarita avrebbe potuto riprendere i pennelli. Lei mi guardava e
sorrideva, forte e decisa a lottare contro quell’uomo spregevole per
dimostrare che lei era una pittrice al pari se non meglio di un uomo.
Tutta Roma in quei giorni parlava del processo. La maggior parte della
gente era convinta che il disonore l’avrebbe sepolta.
Ma così non fu. Artemisia ne uscì vincitrice, anche se la sentenza di
condanna del Tassi non produsse alcun effetto pratico per le solite
protezioni di cui godeva il pittore.
Il suo carattere ribelle la spinse a opporsi con fermezza alla opinione
corrente che la gente aveva nei confronti della donna e cioè che il suo ruolo
era soltanto all’interno della famiglia o del convento, altro spazio non c’era.
[Continua]