“Artemisia”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello (Parte quarta)
Mi accinsi a tornare a Roma senza altre lunghe soste, ansioso di portare le
buone notizie a mio padre.
Egli mi ricordò che dopo il matrimonio di Artemisia, non trovando più
committenti a Roma, ci aveva portato con sé nelle Marche. Allora avevo
circa nove anni, ma ricordavo bene il territorio e soprattutto la grande città
di Ancona, dove mio padre aveva dipinto numerose tele. Ora portavo queste
nuove offerte di lavoro dalla generosa terra delle Marche, sicuro che le
avrebbe accettate con gioia. Non mi sbagliavo. Infatti quelli furono anni di
intenso lavoro, non solo presso le sedi che avevo segnalato, ma anche in
altre nuove che nel frattempo si erano aggiunte.
Al nostro ritorno a Roma, trovammo Artemisia con la sua bottega ben
avviata. Mia sorella, grazie alle protezioni che era riuscita a procurarsi,
riceveva continue commissioni. Si muoveva molto liberamente, ormai del
tutto padrona della sua vita.
Erano tempi molto difficili e complessi: alleanze, rovesciamenti di alleanze
da un giorno all’altro, inimicizie tra regnanti, duchi, principi, re, pronti a
tessere intrighi. Il tutto sotto il mantello della religione.
La parola d’ordine in tutta Europa era quella di mirare a dare il maggior lustro possibile al proprio regno, impero, ducato, marchesato e stabilire relazioni matrimoniali vantaggiose.
La caccia agli uomini illustri come letterati, scienziati, pittori,
era perciò aperta. C’era un interesse straordinario per accaparrarsi i migliori
uomini. I principi avevano bisogno di opere d’arte, capaci di stupire
ambasciatori e cortigiani.
A Roma giravano misteriosi personaggi che frequentavano ecclesiastici, nobili, artisti, disposti a sborsare una ingente quantità di scudi d’oro per l’acquisto di opere d’arte da inviare ai principi dei loro paesi, soprattutto di Spagna, di Francia, d’Inghilterra, delle Fiandre.
In questo clima sopraggiunse un evento a noi favorevole. Il granduca di
Toscana aveva segnalato alla regina di Francia Maria de’ Medici, il nome di
Orazio Gentileschi, come quello di un noto artista che certamente avrebbe
potuto essere accolto alla sua corte per produrre quei capolavori di cui
intendeva circondarsi. L’invito giunse di lì a poco e così mio padre e noi tre
figli ci trasferimmo a Parigi.
In quei mesi si andavano deteriorando i rapporti tra Francia e Inghilterra,
soprattutto per motivi religiosi. Il duca di Buckingham, ambasciatore
inglese, dopo molte insistenze e promesse vantaggiose, convinse mio padre
a lasciare Parigi e a trasferirsi a Londra. Qui trovammo una ottima
accoglienza e fummo ospitati nel castello di Greenwich. Mio fratello più
piccolo Marco fu accolto come paggio in casa del duca, con buone
prospettive per il futuro.
Il duca era un esperto d’arte e consigliava il re Carlo I per gli acquisti da
effettuare per la sua collezione. Al suo servizio come agente sul mercato
dell’arte aveva Nicholas Lanier, maestro di musica del re. Con il nostro
arrivo a Londra, il duca incaricò anche me come suo agente, suscitando la
gelosia del musicista.
Lanier a Roma si era fatto notare per vari acquisti di quadri e per avere
allacciato una stretta amicizia con Artemisia, al punto che molti erano
convinti di una relazione amorosa. La voce fu confermata quando
apprendemmo la notizia che Artemisia si era recata a Venezia, dove già da
qualche tempo si trovava Lanier.
Io, accompagnato da mio fratello Giulio che mi proteggeva ed era sempre
pronto a impugnare la spada, avevo raggiunto Genova, un mercato d’arte
molto attivo che richiamava acquirenti di opere d’arte da tutta Europa.
In quei giorni era morto senza lasciare eredi il duca Gonzaga di Mantova. Si
prevedeva, dunque, la possibilità che la sua ricchissima e preziosa
collezione con quadri di Tiziano, di Raffaello e di altri grandi artisti, venisse
messa all’asta.
Io con il mandato del duca di Buckingham ero pronto ad acquistare le tele più prestigiose per conto del re d’Inghilterra Carlo I.
Lanier ne era a conoscenza e su consiglio di Artemisia aveva preso già
accordi con la persona incaricata della vendita della collezione, mettendo
anche a disposizione per il deposito delle opere del duca di Mantova, un
grande magazzino di cui aveva piena disponibilità.
Mio fratello senza perdere altro tempo andò a Venezia con l’intenzione di
trovare un accordo con l’astuto inglese. Artemisia in segreto gli aveva dato
la possibilità di vedere le tele ammucchiate nel deposito. Seguì una accesa
discussione tra Lanier e mio fratello, che arrivò a minacciarlo, mettendo
mano alla spada.
Dopo quell’evento, né io, né Artemisia riuscimmo a sapere quel che
accadde a Giulio nel viaggio di ritorno.
Il merito dell’acquisto di buona parte della collezione del Gonzaga fu tutto
del Lanier, anche se sminuito dal fatto che alcuni quadri subirono gravi
danni nella stiva della nave che li trasportava e dalla morte del suo
protettore, il duca di Buckingham, pugnalato in parlamento mentre
annunciava una spedizione contro la Francia.
Il fascino di mia sorella, come donna e artista, aveva colpito anche il duca
d’Alcalà, ambasciatore di Spagna a Roma. Quando costui fu nominato
viceré a Napoli, la invitò a raggiungerlo.
Per i primi mesi non fu facile per Artemisia aprire bottega e crearsi una
cerchia di amicizie importanti, sia perché gli artisti locali erano
particolarmente avversi e facevano tutto il possibile perché i nobili e gli
ecclesiastici assegnassero le commissioni a pittori napoletani, sia perché lo
stesso duca d’Alcalà, in poco tempo, per contrasti con la nobiltà napoletana,
fu rimosso dal suo incarico di viceré e retrocesso alla vecchia carica di
ambasciatore.
Così a poco più di due anni, Artemisia restò senza il suo illustre protettore, che partiva portando con sé il più bello dei suoi autoritratti e lasciando una figlia di cinque anni avuta da mia sorella.
Ora Artemisia era tutta protesa ad accumulare quanto più possibile denaro
dalla vendita dei quadri, perché il pensiero era costantemente rivolto alla
costituzione delle doti per le due figlie con la speranza di maritarle a
personaggi nobili o dell’alta società.
Poiché sapevo quanto fosse difficile spesso ottenere il pagamento per le opere vendute, mi offrii di aiutarla.
Mi fece sapere che un giorno dovette ricorrere al vecchio amico Galilei per
pregarlo di intercedere presso la corte fiorentina allo scopo di sollecitare il
pagamento di una tela acquistata dal granduca, già da molto tempo.
A Londra lasciai il padre, che aiutato da vari apprendisti svolgeva ancora
con energia giovanile il suo lavoro tanto apprezzato dal re, e raggiunsi
Napoli.
Artemisia mi accolse benevolmente, mi introdusse nel suo giro di amicizie,
mi parlò dei suoi successi e dei suoi difficili rapporti con una larga schiera
di pittori locali. La sua bottega attirava ancora l’attenzione dei personaggi
importanti, ma mi mise al corrente che altri orientamenti artistici si
facevano strada e che lei tuttavia era riuscita ad apportare quei cambiamenti
necessari per arrivare ad espressioni più vicine al classicismo napoletano, in
forme più eleganti e raffinate, ben lontane da quelle tragiche del
Caravaggio.
Alcuni anni dopo, quando mi accorsi che mio padre non riusciva più come
prima a tener fede ai gravosi impegni assunti per conto della corte, decisi di
andare di nuovo a Napoli. Questa volta tornavo da Artemisia con una
missione ben precisa: portare Artemisia a Londra.
Il re di Inghilterra che conosceva la sua fama di grande artista chiedeva la
sua presenza già da tempo. Fui fortunato perché fermandomi a Genova ebbi
l’occasione di acquistare all’asta, per conto di re Carlo I, l’autoritratto
regalato da Artemisia al duca d’Alcalà che ora era stato costretto a cedere
per sue necessità finanziarie.
Quando arrivai a Napoli, lo feci vedere a Artemisia, dicendo che il re di
Inghilterra la desiderava a corte. Se, dunque, avesse accettato, Artemisia
avrebbe potuto lei stessa consegnare il quadro nelle mani del sovrano.
Poiché contavo tanto su una sua risposta positiva, non feci alcun cenno alle
condizioni di lavoro del padre, né alla difficile situazione politica e
religiosa.
Il papismo del re e della corte riceveva sempre più duri colpi.
Pubbliche e terribili minacce venivano lanciate contro i cattolici; tra gli
stessi protestanti crescevano discordie e odi con brutali aggressioni. Era
considerato papista anche colui che collezionava quadri e simboli cattolici e
solo per questo meritava la forca: calato giù ancora vivo, il condannato
doveva essere sventrato e decapitato. Erano segnali di odio e di morte che
certamente cominciavano ad avvelenare l’aria di Londra.
Comunque non feci cenno alcuno a quel che si temeva e pregai più volte
Artemisia di approfittare di quell’invito del re per consolidare ancora di più
il suo prestigio in Europa. Le lasciai l’autoritratto e ripartii per Londra.
Alla fine del 1638, dopo un viaggio avventuroso, finalmente Artemisia
giunse a Londra.
Ebbe una accoglienza e una ospitalità all’altezza della sua fama. Consegnò il dipinto nelle mani del re che lo ammirò a lungo. Poi si incontrò con nostro padre.
Erano trascorsi quasi venti anni dall’ultima volta che si erano visti. Le apparve subito invecchiato e stanco, incapace di portare a termine quel gigantesco compito che si era assunto: nove grandissime tele per il soffitto della Casa delle delizie di Greenwich, di
proprietà della regina Enrichetta Maria.
Artemisia esaminò i cartoni preparatori e ne restò delusa. Non c’era più che
una lontana traccia della genialità artistica di un tempo.
Mio padre dava segni di inquietudine, soffriva per l’umiliazione che la figlia gli stava per infliggere. Ma non poteva fare altro, la sua salute non gli consentiva di
opporsi. Si accinse perciò ad accettare quella collaborazione, del resto da lui
stesso invocata, che esisteva nella bottega Gentileschi di un tempo.
Nostro padre non riuscì a vedere completato il lavoro, perché nel febbraio
del nuovo anno morì tra il rammarico di tutta la corte. A lui furono riservati
grandi onori per il funerale e fu destinata una sepoltura accanto alla tomba
di una regina.
Nei mesi seguenti Artemisia con un lavoro straordinario e gravoso portò a
termine il lavoro di decorazione del soffitto, suscitando grande
ammirazione. Poi decise subito di ripartire perché già due gravissimi
pericoli incombevano sulla città: la guerra civile e la peste.
Ormai anch’io mi preparavo a lasciare Londra. Feci un ultimo tentativo di
ritrovare mio fratello Marco, ma fu tutto inutile. Dopo l’uccisione del duca
di Buckingham e la devastazione della sua casa, la duchessa con gli altri
familiari, seguita anche da Marco, si era prudentemente allontanata da
Londra.
Girovagai ancora per qualche tempo nelle Fiandre, in Francia e poi mi
fermai a Genova. Infine decisi di raggiungere Napoli e di mettermi al
servizio di Artemisia.
Da qualche tempo aveva dato in sposa la figlia Prudentia a un giovane
appartenente alla nuova nobiltà di toga, con una dote molto ricca. Ora
doveva cominciare a pensare anche a Francesca, la figlia avuta con il duca
d’Alcalà.
La bottega era sempre frequentata da committenti che chiedevano quadri di
ogni tipo: ritratti, nature morte, fiori, soggetti sacri. Artemisia lavorava
freneticamente.
Aveva le sue spese: non solo i colori, le tele, le cornici, gli
apprendisti, ma soprattutto le modelle che erano diventate sempre più
costose.
Dopo la consegna delle opere, non seguivano puntuali i pagamenti.
Ciò accadeva sia con acquirenti borghesi, sia con persone dell’alta società e
con nobili.
Dopo il ritorno da Londra, Artemisia aveva ricevuto commissioni da don
Antonio Ruffo di Sicilia, un noto collezionista che di recente si era costruita
una sontuosa residenza a Messina e intendeva arredarla con importanti
opere d’arte. Tra lui e Artemisia c’era una fitta corrispondenza, nella quale
spesso mia sorella si doleva per il ritardo nella corresponsione della somma
pattuita.
Ottenni il suo assenso per un mio viaggio a Messina, sia per sollecitare i
pagamenti delle opere ricevute, sia per far cadere definitivamente quel
pregiudizio verso le creazioni di una donna pittrice, ancora persistente in
certi ambienti tradizionali, che nuocevano moltissimo al fine di una corretta
valutazione delle sue opere.
Naturalmente portai con me alcune delle più belle opere di Artemisia da presentare al ricco collezionista, che aveva fatto fortuna con il commercio della seta ed era diventato un esponente delle famiglie patrizie più illustri di Messina e un prudente uomo politico legato alla monarchia asburgica.
Quando arrivai a Messina, la villa del Faro era stata completata da poco. La
posizione era davvero meravigliosa: da una parte un numero cospicuo di
finestre si aprivano sul mare con vista della Calabria, dalla parte opposta
altrettante finestre guardavano il panorama della città. Una vera principesca
residenza. Ma io non mi facevo intimidire dalla vista di così sfarzose
residenze: ne avevo viste tante durante i miei viaggi e per lunghi anni avevo
vissuto a Londra in appartamenti principeschi, che il re Carlo I aveva messo
a disposizione della famiglia Gentileschi.
Mi complimentai, dunque, con il collezionista e mecenate per il suo amore
per l’arte, per la sua assidua ricerca di oggetti preziosi. Tanti di questi
oggetti facevano una bella mostra nei saloni che mi faceva visitare: argenti,
gioielli, mobili, tendaggi, tappeti e poi quadri dovunque, tra i quali
riconoscevo Tiziano, Van Dyck, Guido Reni, Rembrandt, Artemisia.
Non mi feci sfuggire l’occasione per dirgli che avevo portato da Napoli tre
tele di mia sorella e che, se lo desiderava, avrei potuto mostrargliele per un
eventuale acquisto. Mi propose di rinviare tutto alla mattina successiva,
quando sarebbe intervenuto il suo “consigliere personale”. Disse proprio
così, sorridendo. E vedendo che ero rimasto un po’ perplesso, mi spiegò che
si trattava del suo pupillo, un giovane pittore di straordinaria intelligenza di
Messina che aveva studiato a Roma e che lo consigliava nel fare gli
acquisti.
La mattina seguente feci la sua conoscenza: Agostino Scilla, un giovane
poco più che ventenne, dagli occhi vivaci, sorridente, elegantemente vestito.
Era felice, mi disse di far conoscenza con un membro della famosa famiglia
di artisti Gentileschi.
A Roma aveva avuto la fortuna di ammirare alcune opere di mio padre e di mia sorella. Quando scoprii le tre tele di Artemisia, il principe e il giovane Agostino le esaminarono con grande attenzione e espressero giudizi molto lusinghieri.
Con mia soddisfazione sentii il principe che era disposto ad acquistarle, anche se in una di esse si era creato un lieve danno, come prontamente gli aveva fatto notare il giovane Agostino, il quale si era subito offerto di ritoccarla.
Prima di accennare al prezzo che chiedevo su indicazione di mia sorella, mi sembrò utile che, considerata l’affermazione artistica di Artemisia, non doveva più trovare
posto quella specie di svalutazione che ancora alcuni ritenevano di fare nei
confronti delle opere prodotte dalle donne.
Il giovane mi parve d’accordo con me, confermando che la genialità non è
prerogativa solo maschile e che comunque Artemisia con il suo talento
eccezionale aveva contribuito a dare inizio a una nuova visione della figura
femminile.
Dopo quella conversazione tutto andò liscio. Il principe si mostrò
disponibile all’acquisto delle tele a un prezzo molto vicino a quello che mi
aveva suggerito Artemisia e propenso a saldare il conto in sospeso per gli
acquisti precedenti.
Lasciai la Sicilia per tornare a Napoli, dove trovai Artemisia molto
soddisfatta per la missione felicemente conclusa.
Sentii il bisogno di riprendere il mio vagabondare alla ricerca di altri
servizi, non potendo accontentarmi di vivere con i proventi ricevuti da
Artemisia.
L’Europa era stanca delle terribili devastazioni procurate dalla guerra. Ora
nel 1648 si sperava finalmente in una pace duratura.
A Westfalia i regnanti sembrava avessero raggiunto un accordo, per cui decisi di dirigermi verso la Francia, la prima terra fuori degli stati italiani che i Gentileschi avevano raggiunto oltre venti anni prima.
Mi trovo qui ad Angers, ospite di questa nobile famiglia Leclerc in un
castello toccato dalla Loira, ospite gradito grazie solo al nome Gentileschi.
Gli amici del barone che sono venuti in visita al castello, buoni intenditori
di arte, hanno dato solo un’occhiata distratta alla decorazione dello studiolo
della baronessa. E certamente hanno confidato al proprietario che questo
Gentileschi che ha eseguito il lavoro non ha neanche un po’ del talento del
padre Orazio Gentileschi e della sorella Artemisia.
Ma io ne sono stato sempre consapevole fin da ragazzo, quando di
malavoglia aiutavo in bottega a pestare pigmenti, a mescolare oli e colori.
Crescendo, mi sono accontentato di appropriarmi di un minimo di tecnica
per eseguire nature morte e qualche paesaggio, da offrire agli sprovveduti:
cosa che ho continuato a fare tra un viaggio e l’altro nei momenti in cui mi
sono trovato a corto di denaro.
Ieri mi è giunta una notizia tristissima. Prudentia mi ha comunicato la morte
di Artemisia.
Ho pianto. Che resta ora della mia famiglia? Due fratelli scomparsi; non si
sa se vivi o morti, mio padre e mia sorella sepolti degnamente sotto gli
altari delle chiese, senza ormai speranza di visitare le loro tombe lontane.
Loro almeno avranno la gloria per l’immensità delle opere realizzate. Io me
ne starò in una fossa comune, non ci sarà nessuno altare, nessuna lastra di
marmo con il mio nome sopra.
Ma è giusto che sia così. Nessuna fiamma ha incendiato la mia carne, nessuna passione.
Il corpo bellissimo di Artemisia era un fuoco, un corpo costantemente impregnato di trementina.
Ora sono un uomo terribilmente solo, invecchiato, inutile. La stanchezza, il
malessere, mi avvolgono nelle loro spire.
E mi sento affondare nella disperazione. Respingo l’idea del suicidio perché
non voglio portare disonore al nome di Gentileschi.
Seduto su questa panchina del giardino del castello, mi pare che ogni giorno
che passa diventi sempre più rigido, inerte, privo di desideri. In compenso
durante il sonno non ho più incubi come prima. Anzi questa notte ho fatto
un sogno di infinita tenerezza: accarezzavo con queste mie mani, tremanti e
ormai incapaci nemmeno di tenere un pennello, quel mare di capelli biondi
della badessa di Matelica.
Vincenzo Fiaschitello
Nato a Scicli il 18/10/1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma con il massimo dei voti (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (Esami di Stato D.M.10/8/1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Vincitore Concorso nazionale a 119 cattedre, indetto con D.M. 30/6/ 1969) e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola –Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974 (Vincitore Concorso nazionale D.M.25/9/1970), preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.
Ha pubblicato oltre venti opere di saggistica, di poesia e di narrativa, nonché molteplici articoli di critica letteraria, di filosofia, di storia, di pedagogia e di didattica.
Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore Ordine al merito della Repubblica Italiana (Decreto Pres. Rep. 2/6/1997 ).