IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Artemisia”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello  (Parte quarta)

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, (1638-1639),

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, (1638-1639). (Fonte: Wikipedia)

Mi accinsi a tornare a Roma senza altre lunghe soste, ansioso di portare le

buone notizie a mio padre.

Egli mi ricordò che dopo il matrimonio di Artemisia, non trovando più

committenti a Roma, ci aveva portato con sé nelle Marche. Allora avevo

circa nove anni, ma ricordavo bene il territorio e soprattutto la grande città

di Ancona, dove mio padre aveva dipinto numerose tele. Ora portavo queste

nuove offerte di lavoro dalla generosa terra delle Marche, sicuro che le

avrebbe accettate con gioia. Non mi sbagliavo. Infatti quelli furono anni di

intenso lavoro, non solo presso le sedi che avevo segnalato, ma anche in

altre nuove che nel frattempo si erano aggiunte.

Al nostro ritorno a Roma, trovammo Artemisia con la sua bottega ben

avviata. Mia sorella, grazie alle protezioni che era riuscita a procurarsi,

riceveva continue commissioni. Si muoveva molto liberamente, ormai del

tutto padrona della sua vita.

Erano tempi molto difficili e complessi: alleanze, rovesciamenti di alleanze

da un giorno all’altro, inimicizie tra regnanti, duchi, principi, re, pronti a

tessere intrighi. Il tutto sotto il mantello della religione.

La parola d’ordine in tutta Europa era quella di mirare a dare il maggior lustro possibile al proprio regno, impero, ducato, marchesato e stabilire relazioni matrimoniali vantaggiose.

La caccia agli uomini illustri come letterati, scienziati, pittori,

era perciò aperta. C’era un interesse straordinario per accaparrarsi i migliori

uomini. I principi avevano bisogno di opere d’arte, capaci di stupire

ambasciatori e cortigiani.

A Roma giravano misteriosi personaggi che frequentavano ecclesiastici, nobili, artisti, disposti a sborsare una ingente quantità di scudi d’oro per l’acquisto di opere d’arte da inviare ai principi dei loro paesi, soprattutto di Spagna, di Francia, d’Inghilterra, delle Fiandre.

In questo clima sopraggiunse un evento a noi favorevole. Il granduca di

Toscana aveva segnalato alla regina di Francia Maria de’ Medici, il nome di

Orazio Gentileschi, come quello di un noto artista che certamente avrebbe

potuto essere accolto alla sua corte per produrre quei capolavori di cui

intendeva circondarsi. L’invito giunse di lì a poco e così mio padre e noi tre

figli ci trasferimmo a Parigi.

In quei mesi si andavano deteriorando i rapporti tra Francia e Inghilterra,

soprattutto per motivi religiosi. Il duca di Buckingham, ambasciatore

inglese, dopo molte insistenze e promesse vantaggiose, convinse mio padre

a lasciare Parigi e a trasferirsi a Londra. Qui trovammo una ottima

accoglienza e fummo ospitati nel castello di Greenwich. Mio fratello più

piccolo Marco fu accolto come paggio in casa del duca, con buone

prospettive per il futuro.

Il duca era un esperto d’arte e consigliava il re Carlo I per gli acquisti da

effettuare per la sua collezione. Al suo servizio come agente sul mercato

dell’arte aveva Nicholas Lanier, maestro di musica del re. Con il nostro

arrivo a Londra, il duca incaricò anche me come suo agente, suscitando la

gelosia del musicista.

Lanier a Roma si era fatto notare per vari acquisti di quadri e per avere

allacciato una stretta amicizia con Artemisia, al punto che molti erano

convinti di una relazione amorosa. La voce fu confermata quando

apprendemmo la notizia che Artemisia si era recata a Venezia, dove già da

qualche tempo si trovava Lanier.

Io, accompagnato da mio fratello Giulio che mi proteggeva ed era sempre

pronto a impugnare la spada, avevo raggiunto Genova, un mercato d’arte

molto attivo che richiamava acquirenti di opere d’arte da tutta Europa.

In quei giorni era morto senza lasciare eredi il duca Gonzaga di Mantova. Si

prevedeva, dunque, la possibilità che la sua ricchissima e preziosa

collezione con quadri di Tiziano, di Raffaello e di altri grandi artisti, venisse

messa all’asta.

Io con il mandato del duca di Buckingham ero pronto ad acquistare le tele più prestigiose per conto del re d’Inghilterra Carlo I.

Lanier ne era a conoscenza e su consiglio di Artemisia aveva preso già

accordi con la persona incaricata della vendita della collezione, mettendo

anche a disposizione per il deposito delle opere del duca di Mantova, un

grande magazzino di cui aveva piena disponibilità.

Mio fratello senza perdere altro tempo andò a Venezia con l’intenzione di

trovare un accordo con l’astuto inglese. Artemisia in segreto gli aveva dato

la possibilità di vedere le tele ammucchiate nel deposito. Seguì una accesa

discussione tra Lanier e mio fratello, che arrivò a minacciarlo, mettendo

mano alla spada.

Dopo quell’evento, né io, né Artemisia riuscimmo a sapere quel che

accadde a Giulio nel viaggio di ritorno.

Il merito dell’acquisto di buona parte della collezione del Gonzaga fu tutto

del Lanier, anche se sminuito dal fatto che alcuni quadri subirono gravi

danni nella stiva della nave che li trasportava e dalla morte del suo

protettore, il duca di Buckingham, pugnalato in parlamento mentre

annunciava una spedizione contro la Francia.

Il fascino di mia sorella, come donna e artista, aveva colpito anche il duca

d’Alcalà, ambasciatore di Spagna a Roma. Quando costui fu nominato

viceré a Napoli, la invitò a raggiungerlo.

Per i primi mesi non fu facile per Artemisia aprire bottega e crearsi una

cerchia di amicizie importanti, sia perché gli artisti locali erano

particolarmente avversi e facevano tutto il possibile perché i nobili e gli

ecclesiastici assegnassero le commissioni a pittori napoletani, sia perché lo

stesso duca d’Alcalà, in poco tempo, per contrasti con la nobiltà napoletana,

fu rimosso dal suo incarico di viceré e retrocesso alla vecchia carica di

ambasciatore.

Così a poco più di due anni, Artemisia restò senza il suo illustre protettore, che partiva portando con sé il più bello dei suoi autoritratti e lasciando una figlia di cinque anni avuta da mia sorella.

Ora Artemisia era tutta protesa ad accumulare quanto più possibile denaro

dalla vendita dei quadri, perché il pensiero era costantemente rivolto alla

costituzione delle doti per le due figlie con la speranza di maritarle a

personaggi nobili o dell’alta società.

Poiché sapevo quanto fosse difficile spesso ottenere il pagamento per le opere vendute, mi offrii di aiutarla.

Mi fece sapere che un giorno dovette ricorrere al vecchio amico Galilei per

pregarlo di intercedere presso la corte fiorentina allo scopo di sollecitare il

pagamento di una tela acquistata dal granduca, già da molto tempo.

A Londra lasciai il padre, che aiutato da vari apprendisti svolgeva ancora

con energia giovanile il suo lavoro tanto apprezzato dal re, e raggiunsi

Napoli.

Artemisia mi accolse benevolmente, mi introdusse nel suo giro di amicizie,

mi parlò dei suoi successi e dei suoi difficili rapporti con una larga schiera

di pittori locali. La sua bottega attirava ancora l’attenzione dei personaggi

importanti, ma mi mise al corrente che altri orientamenti artistici si

facevano strada e che lei tuttavia era riuscita ad apportare quei cambiamenti

necessari per arrivare ad espressioni più vicine al classicismo napoletano, in

forme più eleganti e raffinate, ben lontane da quelle tragiche del

Caravaggio.

Alcuni anni dopo, quando mi accorsi che mio padre non riusciva più come

prima a tener fede ai gravosi impegni assunti per conto della corte, decisi di

andare di nuovo a Napoli. Questa volta tornavo da Artemisia con una

missione ben precisa: portare Artemisia a Londra.

Il re di Inghilterra che conosceva la sua fama di grande artista chiedeva la

sua presenza già da tempo. Fui fortunato perché fermandomi a Genova ebbi

l’occasione di acquistare all’asta, per conto di re Carlo I, l’autoritratto

regalato da Artemisia al duca d’Alcalà che ora era stato costretto a cedere

per sue necessità finanziarie.

Quando arrivai a Napoli, lo feci vedere a Artemisia, dicendo che il re di

Inghilterra la desiderava a corte. Se, dunque, avesse accettato, Artemisia

avrebbe potuto lei stessa consegnare il quadro nelle mani del sovrano.

Poiché contavo tanto su una sua risposta positiva, non feci alcun cenno alle

condizioni di lavoro del padre, né alla difficile situazione politica e

religiosa.

Il papismo del re e della corte riceveva sempre più duri colpi.

Pubbliche e terribili minacce venivano lanciate contro i cattolici; tra gli

stessi protestanti crescevano discordie e odi con brutali aggressioni. Era

considerato papista anche colui che collezionava quadri e simboli cattolici e

solo per questo meritava la forca: calato giù ancora vivo, il condannato

doveva essere sventrato e decapitato. Erano segnali di odio e di morte che

certamente cominciavano ad avvelenare l’aria di Londra.

Comunque non feci cenno alcuno a quel che si temeva e pregai più volte

Artemisia di approfittare di quell’invito del re per consolidare ancora di più

il suo prestigio in Europa. Le lasciai l’autoritratto e ripartii per Londra.

Alla fine del 1638, dopo un viaggio avventuroso, finalmente Artemisia

giunse a Londra.

Ebbe una accoglienza e una ospitalità all’altezza della sua fama. Consegnò il dipinto nelle mani del re che lo ammirò a lungo. Poi si incontrò con nostro padre.

Erano trascorsi quasi venti anni dall’ultima volta che si erano visti. Le apparve subito invecchiato e stanco, incapace di portare a termine quel gigantesco compito che si era assunto: nove grandissime tele per il soffitto della Casa delle delizie di Greenwich, di

proprietà della regina Enrichetta Maria.

Artemisia esaminò i cartoni preparatori e ne restò delusa. Non c’era più che

una lontana traccia della genialità artistica di un tempo.

Mio padre dava segni di inquietudine, soffriva per l’umiliazione che la figlia gli stava per infliggere. Ma non poteva fare altro, la sua salute non gli consentiva di

opporsi. Si accinse perciò ad accettare quella collaborazione, del resto da lui

stesso invocata, che esisteva nella bottega Gentileschi di un tempo.

Nostro padre non riuscì a vedere completato il lavoro, perché nel febbraio

del nuovo anno morì tra il rammarico di tutta la corte. A lui furono riservati

grandi onori per il funerale e fu destinata una sepoltura accanto alla tomba

di una regina.

Nei mesi seguenti Artemisia con un lavoro straordinario e gravoso portò a

termine il lavoro di decorazione del soffitto, suscitando grande

ammirazione. Poi decise subito di ripartire perché già due gravissimi

pericoli incombevano sulla città: la guerra civile e la peste.

Ormai anch’io mi preparavo a lasciare Londra. Feci un ultimo tentativo di

ritrovare mio fratello Marco, ma fu tutto inutile. Dopo l’uccisione del duca

di Buckingham e la devastazione della sua casa, la duchessa con gli altri

familiari, seguita anche da Marco, si era prudentemente allontanata da

Londra.

Girovagai ancora per qualche tempo nelle Fiandre, in Francia e poi mi

fermai a Genova. Infine decisi di raggiungere Napoli e di mettermi al

servizio di Artemisia.

Da qualche tempo aveva dato in sposa la figlia Prudentia a un giovane

appartenente alla nuova nobiltà di toga, con una dote molto ricca. Ora

doveva cominciare a pensare anche a Francesca, la figlia avuta con il duca

d’Alcalà.

La bottega era sempre frequentata da committenti che chiedevano quadri di

ogni tipo: ritratti, nature morte, fiori, soggetti sacri. Artemisia lavorava

freneticamente.

Aveva le sue spese: non solo i colori, le tele, le cornici, gli

apprendisti, ma soprattutto le modelle che erano diventate sempre più

costose.

Dopo la consegna delle opere, non seguivano puntuali i pagamenti.

Ciò accadeva sia con acquirenti borghesi, sia con persone dell’alta società e

con nobili.

Dopo il ritorno da Londra, Artemisia aveva ricevuto commissioni da don

Antonio Ruffo di Sicilia, un noto collezionista che di recente si era costruita

una sontuosa residenza a Messina e intendeva arredarla con importanti

opere d’arte. Tra lui e Artemisia c’era una fitta corrispondenza, nella quale

spesso mia sorella si doleva per il ritardo nella corresponsione della somma

pattuita.

Ottenni il suo assenso per un mio viaggio a Messina, sia per sollecitare i

pagamenti delle opere ricevute, sia per far cadere definitivamente quel

pregiudizio verso le creazioni di una donna pittrice, ancora persistente in

certi ambienti tradizionali, che nuocevano moltissimo al fine di una corretta

valutazione delle sue opere.

Naturalmente portai con me alcune delle più belle opere di Artemisia da presentare al ricco collezionista, che aveva fatto fortuna con il commercio della seta ed era diventato un esponente delle famiglie patrizie più illustri di Messina e un prudente uomo politico legato alla monarchia asburgica.

Quando arrivai a Messina, la villa del Faro era stata completata da poco. La

posizione era davvero meravigliosa: da una parte un numero cospicuo di

finestre si aprivano sul mare con vista della Calabria, dalla parte opposta

altrettante finestre guardavano il panorama della città. Una vera principesca

residenza. Ma io non mi facevo intimidire dalla vista di così sfarzose

residenze: ne avevo viste tante durante i miei viaggi e per lunghi anni avevo

vissuto a Londra in appartamenti principeschi, che il re Carlo I aveva messo

a disposizione della famiglia Gentileschi.

Mi complimentai, dunque, con il collezionista e mecenate per il suo amore

per l’arte, per la sua assidua ricerca di oggetti preziosi. Tanti di questi

oggetti facevano una bella mostra nei saloni che mi faceva visitare: argenti,

gioielli, mobili, tendaggi, tappeti e poi quadri dovunque, tra i quali

riconoscevo Tiziano, Van Dyck, Guido Reni, Rembrandt, Artemisia.

Non mi feci sfuggire l’occasione per dirgli che avevo portato da Napoli tre

tele di mia sorella e che, se lo desiderava, avrei potuto mostrargliele per un

eventuale acquisto. Mi propose di rinviare tutto alla mattina successiva,

quando sarebbe intervenuto il suo “consigliere personale”. Disse proprio

così, sorridendo. E vedendo che ero rimasto un po’ perplesso, mi spiegò che

si trattava del suo pupillo, un giovane pittore di straordinaria intelligenza di

Messina che aveva studiato a Roma e che lo consigliava nel fare gli

acquisti.

La mattina seguente feci la sua conoscenza: Agostino Scilla, un giovane

poco più che ventenne, dagli occhi vivaci, sorridente, elegantemente vestito.

Era felice, mi disse di far conoscenza con un membro della famosa famiglia

di artisti Gentileschi.

A Roma aveva avuto la fortuna di ammirare alcune opere di mio padre e di mia sorella. Quando scoprii le tre tele di Artemisia, il principe e il giovane Agostino le esaminarono con grande attenzione e espressero giudizi molto lusinghieri.

Con mia soddisfazione sentii il principe che era disposto ad acquistarle, anche se in una di esse si era creato un lieve danno, come prontamente gli aveva fatto notare il giovane Agostino, il quale si era subito offerto di ritoccarla.

Prima di accennare al prezzo che chiedevo su indicazione di mia sorella, mi sembrò utile che, considerata l’affermazione artistica di Artemisia, non doveva più trovare

posto quella specie di svalutazione che ancora alcuni ritenevano di fare nei

confronti delle opere prodotte dalle donne.

Il giovane mi parve d’accordo con me, confermando che la genialità non è

prerogativa solo maschile e che comunque Artemisia con il suo talento

eccezionale aveva contribuito a dare inizio a una nuova visione della figura

femminile.

Dopo quella conversazione tutto andò liscio. Il principe si mostrò

disponibile all’acquisto delle tele a un prezzo molto vicino a quello che mi

aveva suggerito Artemisia e propenso a saldare il conto in sospeso per gli

acquisti precedenti.

Lasciai la Sicilia per tornare a Napoli, dove trovai Artemisia molto

soddisfatta per la missione felicemente conclusa.

Sentii il bisogno di riprendere il mio vagabondare alla ricerca di altri

servizi, non potendo accontentarmi di vivere con i proventi ricevuti da

Artemisia.

L’Europa era stanca delle terribili devastazioni procurate dalla guerra. Ora

nel 1648 si sperava finalmente in una pace duratura.

A Westfalia i regnanti sembrava avessero raggiunto un accordo, per cui decisi di dirigermi verso la Francia, la prima terra fuori degli stati italiani che i Gentileschi avevano raggiunto oltre venti anni prima.

Mi trovo qui ad Angers, ospite di questa nobile famiglia Leclerc in un

castello toccato dalla Loira, ospite gradito grazie solo al nome Gentileschi.

Gli amici del barone che sono venuti in visita al castello, buoni intenditori

di arte, hanno dato solo un’occhiata distratta alla decorazione dello studiolo

della baronessa. E certamente hanno confidato al proprietario che questo

Gentileschi che ha eseguito il lavoro non ha neanche un po’ del talento del

padre Orazio Gentileschi e della sorella Artemisia.

Ma io ne sono stato sempre consapevole fin da ragazzo, quando di

malavoglia aiutavo in bottega a pestare pigmenti, a mescolare oli e colori.

Crescendo, mi sono accontentato di appropriarmi di un minimo di tecnica

per eseguire nature morte e qualche paesaggio, da offrire agli sprovveduti:

cosa che ho continuato a fare tra un viaggio e l’altro nei momenti in cui mi

sono trovato a corto di denaro.

Ieri mi è giunta una notizia tristissima. Prudentia mi ha comunicato la morte

di Artemisia.

Ho pianto. Che resta ora della mia famiglia? Due fratelli scomparsi; non si

sa se vivi o morti, mio padre e mia sorella sepolti degnamente sotto gli

altari delle chiese, senza ormai speranza di visitare le loro tombe lontane.

Loro almeno avranno la gloria per l’immensità delle opere realizzate. Io me

ne starò in una fossa comune, non ci sarà nessuno altare, nessuna lastra di

marmo con il mio nome sopra.

Ma è giusto che sia così. Nessuna fiamma ha incendiato la mia carne, nessuna passione.

Il corpo bellissimo di Artemisia era un fuoco, un corpo costantemente impregnato di trementina.

Ora sono un uomo terribilmente solo, invecchiato, inutile. La stanchezza, il

malessere, mi avvolgono nelle loro spire.

E mi sento affondare nella disperazione. Respingo l’idea del suicidio perché

non voglio portare disonore al nome di Gentileschi.

Seduto su questa panchina del giardino del castello, mi pare che ogni giorno

che passa diventi sempre più rigido, inerte, privo di desideri. In compenso

durante il sonno non ho più incubi come prima. Anzi questa notte ho fatto

un sogno di infinita tenerezza: accarezzavo con queste mie mani, tremanti e

ormai incapaci nemmeno di tenere un pennello, quel mare di capelli biondi

della badessa di Matelica.

Vincenzo Fiaschitello

Nato a Scicli il 18/10/1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma con il massimo dei voti (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (Esami di Stato D.M.10/8/1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Vincitore Concorso nazionale a 119 cattedre, indetto con D.M. 30/6/ 1969) e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola –Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974 (Vincitore Concorso nazionale D.M.25/9/1970), preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.

Ha pubblicato oltre venti opere di saggistica, di poesia e di narrativa, nonché molteplici articoli di critica letteraria, di filosofia, di storia, di pedagogia e di didattica.

Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore Ordine al merito della Repubblica Italiana (Decreto Pres. Rep. 2/6/1997 ).

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