“Artemisia”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello (Parte prima)
La nostra amicizia, iniziata al tempo della attività professionale, si era
consolidata con la consuetudine del “caffè letterario”. Un giorno alla
settimana ci incontravamo al bar e, seduti attorno a una buona tazza di
caffè, discutevamo di poesia, di letteratura, di pittura. Leggevo anche i miei
ultimi lavori e spesso ricevevo approvazione, entusiastico apprezzamento,
ma anche utili suggerimenti.
L’ultimo incontro tra pensionati ottantenni, lo ricordo bene, fu la settimana
precedente la “condanna agli arresti domiciliari”. La pandemia del
coronavirus ci relegò in casa per cui fummo costretti a rinviare ad altra data
quella nostra felice abitudine. Ma quell’ultimo incontro mi restò impresso
nella memoria soprattutto perché nell’affrontare il tema della pittura, il
discorso ruotò attorno a una pittrice del Seicento, Artemisia Gentileschi,
che, per circa tre secoli rimasta completamente dimenticata, era stata
riscoperta dallo storico dell’arte Roberto Longhi nel 1916 con un lungo
articolo pubblicato in “L’arte”. E qui il mio amico Antonio, mostrandosi
ben informato, accennava al giudizio elogiativo sulla pittura di Artemisia e
del padre Orazio Gentileschi.
-“Che strana coincidenza, dissi, proprio in questi giorni sto leggendo la
bella scrittura di Cristina Campo e le sue poesie. Tra la cerchia dei suoi
numerosi amici, poeti e intellettuali di grande prestigio, accenna anche
all’importante rapporto di amicizia con Anna Banti che, appunto, è la
moglie di Roberto Longhi. Ciò spiega l’interesse della Banti per Artemisia,
alla quale ha dedicato un libro sulla sua vita privata e professionale.”
Uno strano destino mi era ancora riservato, come se qualcuno si fosse
incaricato di tessere un misterioso filo rosso verso questa figura di artista
che, mettendo in crisi il ruolo di subalternità delle donne nel Seicento,
produsse una tale quantità di opere straordinarie che oggi non mancano di
stupirci, come afferma il Longhi. Un mio amico di Fabriano, infatti, qualche
sera dopo, mi telefona dicendomi che l’assessorato alla cultura della città ha
intenzione di organizzare una mostra di pittura e mi fa i nomi di Orazio
Gentileschi e di Artemisia, padre e figlia. Non finisco di esprimere la mia
meraviglia e il mio interesse, quando Piero, l’amico collega, aggiunge:
“Devi sapere che in un certo senso il merito di questa iniziativa è anche
mio, o per meglio dire, di mia figlia Federica, che l’estate scorsa ha portato
dal suo giro dei castelli della Loira un documento che può interessarti. Ora
se hai tempo e voglia di ascoltare ti faccio parlare direttamente con lei”.
– “Oh, sì grazie Piero, ho tutto il tempo che vuoi. Bene, passami la tua
figliola. Pronto Federica, come stai? Ti ricordo bambina delle elementari e
già sei una laureanda!”
– “Buonasera, professore. Sì, è passato molto tempo. Sto preparando la mia
tesi di fisica. E’ stata la disciplina che ho sempre preferito. Ma, ora, le
vorrei parlare brevemente di quello cui accennava mio padre.”
– “Ti ascolto Federica, comincia pure!”
– “L’estate scorsa sono stata in vacanza in Francia con una mia amica di
Sassoferrato. Il nostro itinerario erano i castelli della Loira. Ad Angers ci
aspettava una amica francese che più volte ci aveva invitato perché
desiderava presentarci a una sua anziana zia, discendente di una nobile e
antica famiglia, una delle eredi del famoso castello Chateau de Sautré,
risalente al XIII secolo.
Fu una accoglienza davvero straordinaria, con la quale la gentile nobildonna
voleva ricambiare il mese di vacanza trascorso nella nostra famiglia dalla
simpatica e dolce Michèlle.
Madame Lorraine non perdeva occasione di parlarci del passato dei suoi
illustri antenati e sottolineava come il ramo della famiglia cui apparteneva
discendeva direttamente dal barone René Leclerc.
Un pomeriggio, mentre ci accompagnava a visitare un’ala del castello ricca
di quadri di famosi pittori, fece il nome di un pittore del Seicento,
Francesco Gentileschi, che aveva dipinto le pareti di uno studiolo, ormai
scomparso a seguito dei vari restauri del castello. Di questo pittore,
Madame ci raccontò un fatto piuttosto singolare. Il barone non era rimasto
soddisfatto degli affreschi, per cui il pittore nell’attesa di un altro incarico si
dette a scrivere le sue Memorie che dopo la sua morte furono ritrovate nella
sua stanza. “Ebbene, disse Madame, queste memorie tradotte in francese da
mio padre che conosceva bene la lingua italiana, sono arrivate fino a noi,
mentre il documento originale del pittore purtroppo non è stato mai più
ritrovato”.
Fui presa da grande emozione, quando Madame aprì il cassetto di una
scrivania e ci pose davanti quel prezioso documento. Timidamente le chiesi
se potevo leggerlo e magari tradurlo. Con un sorriso mi assicurò che
l’indomani avrei potuto farlo. Ora se questo documento ricco di notizie
riguardanti la famiglia Gentileschi le interessa, posso inviarglielo in
fotocopia.”
“Sì, cara Francesca, mi sembra proprio il caso che approfitti della tua
gentilezza e faccia una attenta lettura del documento. Avevo notizia di
questo fratello di Artemisia, ma non sapevo della sua attività ad Angers.
Grazie Federica, un saluto caro e auguri per la tua tesi di laurea.”
Ecco la traduzione dal francese che la brava Federica trascrisse nell’agenda
che portava sempre con sé.
*** *** ***
Memorie
“Io, Francesco Gentileschi, pittore e figlio del pittore Orazio Gentileschi, mi
trovo in questo grande e nobile castello di Sautré, dove Sua Signoria il
barone ha avuto la compiacenza di farmi eseguire lavori di pittura sulle
pareti dello studiolo della signora baronessa. Già da alcuni giorni ho
felicemente terminato il lavoro e in attesa di altre commissioni sono libero e
disposto a ricordare eventi della mia vita e di quella dei miei familiari.
Quando mia madre Prudenzia morì di parto, io avevo poco più di due anni.
Di lei ricordo quasi soltanto quello che mi raccontava Artemisia, l’unica
figlia femmina che aveva quattro anni più di me. Io con i miei due fratelli
più piccoli ero stato affidato a una donna che abitava a fianco della nostra
casa, il giorno in cui fu celebrato il funerale di mia madre nella chiesa di S.
Maria del Popolo, dove venne sepolta.
Nella mia memoria è rimasta appena un’ombra di quella giornata così triste
per la mia famiglia. Ricordo una gran folla di persone che entravano e
uscivano dalla nostra casa, il pianto delle donne e qualcuna che mi
accompagnava vicino al letto dove dormiva mia madre e mi diceva di
baciarla. Ma io ero spaventato da tutta quella gente, dalla stessa figura di
mia madre che con il ventre gonfio sollevava un bianco lenzuolo e non
voleva svegliarsi, dall’odore dei fiori e dei ceri ai piedi del catafalco.
Mio padre Orazio aveva voluto un funerale solenne senza badare a spese,
sia perché le aveva sempre voluto bene, sia perché cominciava ad essere
apprezzato tra i suoi numerosi amici pittori, fra i quali c’era il Cavaliere
d’Arpino, stimato e rispettato per la sua arte e per le protezioni di cardinali
e nobili di cui godeva.
Dalla abitazione di Piazza Santa Trinità, la mia famiglia si trasferì in una
casa più grande a poca distanza in via Paolina, all’angolo di via dei Greci,
quando io avevo già quattro anni. Quello forse fu il periodo più bello della
mia infanzia. Giocavo tra i vicoli con altri bambini quasi sempre più grandi
di me, seguendo le loro scorrerie.
Artemisia passava la maggior parte del suo tempo nella bottega del padre.
Aveva fatto amicizia con una bambina che abitava accanto alla nostra casa e
quando il padre non c’era, le mostrava la bottega nel suo sacro disordine di
tele, di colori, di bocce, di alambicchi, misteriosi come l’antro di un mago.
Cominciavo a capire la dolcezza della donna. Sentivo un fremito percorrere
tutto il mio corpo quando Giulia, divenuta una compagna di giochi, mi stava
accanto, quando fingevo di cadere lungo un vicolo e lei, correndo, si
chinava su di me, dicendomi se mi ero fatto male ed io guardavo da vicino
il suo viso pieno di efelidi, toccavo i suoi capelli che mi coprivano la faccia.
E la pensavo, la sognavo vestita di seta e di broccato con gli occhi chiusi sul
bambino che teneva sulle gambe, come le madonne dipinte da mio padre.
Ma di più somigliava a mia sorella Artemisia che, ora con le ali di angelo,
ora con gli occhi al cielo, mio padre amava nascondere sullo sfondo del
quadro, dietro ai personaggi rappresentati. E non ero solo io ad accorgermi;
gli amici pittori che venivano alla bottega, indicandola col dito, dicevano:
“Orazio, è proprio bella la tua figliola!”
Dopo la morte di mia madre, anch’io fui obbligato ad aiutare in bottega e
dovetti imparare a ridurre in polvere i pigmenti, a pulire i pennelli di setole
e di pelo animale, a tenere in ordine bocce, scatole, tele. Mentre io lo facevo
con negligenza, ricevendo rimbrotti e talvolta castighi corporali, Artemisia
si mostrava piacevolmente interessata e lo faceva con perizia. Mio padre la
osservava di nascosto e gli piaceva quella passione che metteva nel trattare i
materiali utilizzati per la pittura. Se non volle sostituirsi alla madre nel
governo della casa, ebbe una tale accuratezza e costanza in tutte le attività
di preparazione della pittura che presto le nacque il desiderio straordinario
di emulare il padre.
Per una femmina le strade erano due: il matrimonio o la
monacazione. Lei ne aprì inaspettatamente una terza: fare la pittora,
l’artista. Era certo una strada rischiosa, irta di enormi difficoltà.
Non c’erano esempi di donne pittrici a quell’epoca, se non di eccezioni per le
quali c’era posto soltanto per ritratti o nature morte. Quello a cui, invece, in
segreto aspirava, Artemisia me lo confidò qualche tempo dopo. Era attratta
dai chiaroscuri di un pittore amico del padre, il Caravaggio, dalla sua arte
che copiava dal vero, che riproduceva con abilità eccezionale le fattezze dei
suoi modelli.
Da bambina aveva avuto modo di vederlo qualche volta nella
bottega della nostra casa di via Margutta e lo ricordava anche nella tragica
circostanza della esecuzione di Beatrice Cenci e della sua famiglia.
Pittori come mio padre Orazio Gentileschi, come Caravaggio, come il
Cavaliere d’Arpino con tutti i suoi assistenti, non potevano perdersi quello
spettacolo, senza tracciare con rapidi segni sulla carta le espressioni di quei
condannati a morte. E lei, Artemisia, bambina di appena sei anni, stava in
braccio al padre, per imprimere nella memoria ogni gesto, ogni segno di
terrore che poteva cogliere dagli occhi, dal lento e incerto passo della
persona alla vista del ceppo dove di lì a poco avrebbe poggiato la testa per
offrirla alla scure del boia.
Quando la prima volta mi narrò quell’evento, quasi non volli crederle. Ma
poi ne ebbi conferma da mio padre. Per lei, Beatrice era una eroina.
Riteneva ingiusta la condanna a morte voluta dal papa Clemente VIII
perché si era vendicata dello stupro subito dal padre.
In quel tempo spesso Artemisia si confidava con me. Il suo cruccio era
quello che a dodici anni non sapesse ancora né leggere né scrivere. Suor
Graziella del Convento della Santissima Trinità, una amica e consigliera di
mia madre, avrebbe potuto insegnarle i rudimenti della lettura e della
scrittura, ma cozzò contro la volontà di mio padre, convinto che per una
femmina non fosse necessaria l’istruzione. Il suo tempo era destinato al
governo della casa, all’attenzione verso i fratelli più piccoli e a tenere in
ordine la bottega.
L’intelligenza, la prontezza nell’apprendere, unite a un talento che andava
sempre più emergendo, fecero in modo che il desiderio artistico di
Artemisia prendesse la direzione giusta. A me, che potevo seguire le lezioni
di un maestro di scuola, chiedeva spesso di mostrarle quel che
stentatamente apprendevo, finché un giorno il padre scoprì una piccola tela
che con gusto e capacità tecnica Artemisia aveva dipinto in segreto. Anche
la scritta Artemisia fecit in un angolo della tela impressionò il padre, il quale
cominciò a riconoscere in lei quello straordinario talento che la porterà a
competere con lui.
Da quel momento crebbe ancora di più in mio padre l’impegno a tenere
Artemisia sotto stretta sorveglianza. Non voleva che si facesse vedere alla
finestra, non voleva che uscisse neanche per andare in chiesa. La faceva
ritirare immediatamente quando doveva dipingere nudi di modelli maschi,
mentre le era permesso di assistere durante le raffigurazioni di nudi del
corpo femminile.
In realtà Artemisia in breve tempo era riuscita ad avere
una perfetta conoscenza anche della anatomia del corpo maschile, perché
più di una volta l’avevo sorpresa a sbirciare dietro una finestrella che si
apriva in alto sul soffitto, sconosciuta al padre. La sua gelosia era diventata
una ossessione.
A me, essendo ormai un ragazzo, raccomandava di vigilarla
e di riferirgli ogni cosa che faceva quando lui era assente per lavoro. Ma non
mi piaceva fare la spia, anche perché non resistevo a lungo rinchiuso
nella bottega a mescolare colori e a preparare le tele e dopo qualche ora con
la complicità di Artemisia me ne andavo in giro per il quartiere. Insomma
una mano lava l’altra, come dice il proverbio; ci coprivamo reciprocamente.
Questo mio girovagare mi fece scoprire un comportamento di mio padre
che certamente mia madre avrebbe disapprovato se fosse stata ancora in vita
e cioè la frequentazione delle osterie, il linguaggio volgare e offensivo nei
confronti di coloro che riteneva a lui inferiori, la complicità in azioni
violente.
A quella età di sicuro il mio giudizio peccava di rigidità, non
riuscivo ad accettare che anche un artista, quando stava con un suo pari, non
potesse non avere peli sulla lingua, non potesse non usare la violenza
verbale e fisica se occorreva. Il coltello era sempre a portata di mano come
per un qualsiasi popolano che intendeva farsi rispettare ad ogni costo. E poi
mio padre aveva l’esempio dell’amico Caravaggio e da qualche tempo
anche di un altro personaggio, il pittore Agostino Tassi, giunto a Roma con
la fama di violento e forse anche di assassino, come qualcuno sussurrava.
[Continua]