IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

“Artemisia”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello (Parte prima)

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, (1638-1639),

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, (1638-1639). (Fonte: Wikipedia)

La nostra amicizia, iniziata al tempo della attività professionale, si era

consolidata con la consuetudine del “caffè letterario”. Un giorno alla

settimana ci incontravamo al bar e, seduti attorno a una buona tazza di

caffè, discutevamo di poesia, di letteratura, di pittura. Leggevo anche i miei

ultimi lavori e spesso ricevevo approvazione, entusiastico apprezzamento,

ma anche utili suggerimenti.

L’ultimo incontro tra pensionati ottantenni, lo ricordo bene, fu la settimana

precedente la “condanna agli arresti domiciliari”. La pandemia del

coronavirus ci relegò in casa per cui fummo costretti a rinviare ad altra data

quella nostra felice abitudine. Ma quell’ultimo incontro mi restò impresso

nella memoria soprattutto perché nell’affrontare il tema della pittura, il

discorso ruotò attorno a una pittrice del Seicento, Artemisia Gentileschi,

che, per circa tre secoli rimasta completamente dimenticata, era stata

riscoperta dallo storico dell’arte Roberto Longhi nel 1916 con un lungo

articolo pubblicato in “L’arte”. E qui il mio amico Antonio, mostrandosi

ben informato, accennava al giudizio elogiativo sulla pittura di Artemisia e

del padre Orazio Gentileschi.

-“Che strana coincidenza, dissi, proprio in questi giorni sto leggendo la

bella scrittura di Cristina Campo e le sue poesie. Tra la cerchia dei suoi

numerosi amici, poeti e intellettuali di grande prestigio, accenna anche

all’importante rapporto di amicizia con Anna Banti che, appunto, è la

moglie di Roberto Longhi. Ciò spiega l’interesse della Banti per Artemisia,

alla quale ha dedicato un libro sulla sua vita privata e professionale.”

Uno strano destino mi era ancora riservato, come se qualcuno si fosse

incaricato di tessere un misterioso filo rosso verso questa figura di artista

che, mettendo in crisi il ruolo di subalternità delle donne nel Seicento,

produsse una tale quantità di opere straordinarie che oggi non mancano di

stupirci, come afferma il Longhi. Un mio amico di Fabriano, infatti, qualche

sera dopo, mi telefona dicendomi che l’assessorato alla cultura della città ha

intenzione di organizzare una mostra di pittura e mi fa i nomi di Orazio

Gentileschi e di Artemisia, padre e figlia. Non finisco di esprimere la mia

meraviglia e il mio interesse, quando Piero, l’amico collega, aggiunge:

“Devi sapere che in un certo senso il merito di questa iniziativa è anche

mio, o per meglio dire, di mia figlia Federica, che l’estate scorsa ha portato

dal suo giro dei castelli della Loira un documento che può interessarti. Ora

se hai tempo e voglia di ascoltare ti faccio parlare direttamente con lei”.

– “Oh, sì grazie Piero, ho tutto il tempo che vuoi. Bene, passami la tua

figliola. Pronto Federica, come stai? Ti ricordo bambina delle elementari e

già sei una laureanda!”

– “Buonasera, professore. Sì, è passato molto tempo. Sto preparando la mia

tesi di fisica. E’ stata la disciplina che ho sempre preferito. Ma, ora, le

vorrei parlare brevemente di quello cui accennava mio padre.”

– “Ti ascolto Federica, comincia pure!”

– “L’estate scorsa sono stata in vacanza in Francia con una mia amica di

Sassoferrato. Il nostro itinerario erano i castelli della Loira. Ad Angers ci

aspettava una amica francese che più volte ci aveva invitato perché

desiderava presentarci a una sua anziana zia, discendente di una nobile e

antica famiglia, una delle eredi del famoso castello Chateau de Sautré,

risalente al XIII secolo.

Fu una accoglienza davvero straordinaria, con la quale la gentile nobildonna

voleva ricambiare il mese di vacanza trascorso nella nostra famiglia dalla

simpatica e dolce Michèlle.

Madame Lorraine non perdeva occasione di parlarci del passato dei suoi

illustri antenati e sottolineava come il ramo della famiglia cui apparteneva

discendeva direttamente dal barone René Leclerc.

Un pomeriggio, mentre ci accompagnava a visitare un’ala del castello ricca

di quadri di famosi pittori, fece il nome di un pittore del Seicento,

Francesco Gentileschi, che aveva dipinto le pareti di uno studiolo, ormai

scomparso a seguito dei vari restauri del castello. Di questo pittore,

Madame ci raccontò un fatto piuttosto singolare. Il barone non era rimasto

soddisfatto degli affreschi, per cui il pittore nell’attesa di un altro incarico si

dette a scrivere le sue Memorie che dopo la sua morte furono ritrovate nella

sua stanza. “Ebbene, disse Madame, queste memorie tradotte in francese da

mio padre che conosceva bene la lingua italiana, sono arrivate fino a noi,

mentre il documento originale del pittore purtroppo non è stato mai più

ritrovato”.

Fui presa da grande emozione, quando Madame aprì il cassetto di una

scrivania e ci pose davanti quel prezioso documento. Timidamente le chiesi

se potevo leggerlo e magari tradurlo. Con un sorriso mi assicurò che

l’indomani avrei potuto farlo. Ora se questo documento ricco di notizie

riguardanti la famiglia Gentileschi le interessa, posso inviarglielo in

fotocopia.”

“Sì, cara Francesca, mi sembra proprio il caso che approfitti della tua

gentilezza e faccia una attenta lettura del documento. Avevo notizia di

questo fratello di Artemisia, ma non sapevo della sua attività ad Angers.

Grazie Federica, un saluto caro e auguri per la tua tesi di laurea.”

Ecco la traduzione dal francese che la brava Federica trascrisse nell’agenda

che portava sempre con sé.

*** *** ***

Memorie

“Io, Francesco Gentileschi, pittore e figlio del pittore Orazio Gentileschi, mi

trovo in questo grande e nobile castello di Sautré, dove Sua Signoria il

barone ha avuto la compiacenza di farmi eseguire lavori di pittura sulle

pareti dello studiolo della signora baronessa. Già da alcuni giorni ho

felicemente terminato il lavoro e in attesa di altre commissioni sono libero e

disposto a ricordare eventi della mia vita e di quella dei miei familiari.

Quando mia madre Prudenzia morì di parto, io avevo poco più di due anni.

Di lei ricordo quasi soltanto quello che mi raccontava Artemisia, l’unica

figlia femmina che aveva quattro anni più di me. Io con i miei due fratelli

più piccoli ero stato affidato a una donna che abitava a fianco della nostra

casa, il giorno in cui fu celebrato il funerale di mia madre nella chiesa di S.

Maria del Popolo, dove venne sepolta.

Nella mia memoria è rimasta appena un’ombra di quella giornata così triste

per la mia famiglia. Ricordo una gran folla di persone che entravano e

uscivano dalla nostra casa, il pianto delle donne e qualcuna che mi

accompagnava vicino al letto dove dormiva mia madre e mi diceva di

baciarla. Ma io ero spaventato da tutta quella gente, dalla stessa figura di

mia madre che con il ventre gonfio sollevava un bianco lenzuolo e non

voleva svegliarsi, dall’odore dei fiori e dei ceri ai piedi del catafalco.

Mio padre Orazio aveva voluto un funerale solenne senza badare a spese,

sia perché le aveva sempre voluto bene, sia perché cominciava ad essere

apprezzato tra i suoi numerosi amici pittori, fra i quali c’era il Cavaliere

d’Arpino, stimato e rispettato per la sua arte e per le protezioni di cardinali

e nobili di cui godeva.

Dalla abitazione di Piazza Santa Trinità, la mia famiglia si trasferì in una

casa più grande a poca distanza in via Paolina, all’angolo di via dei Greci,

quando io avevo già quattro anni. Quello forse fu il periodo più bello della

mia infanzia. Giocavo tra i vicoli con altri bambini quasi sempre più grandi

di me, seguendo le loro scorrerie.

Artemisia passava la maggior parte del suo tempo nella bottega del padre.

Aveva fatto amicizia con una bambina che abitava accanto alla nostra casa e

quando il padre non c’era, le mostrava la bottega nel suo sacro disordine di

tele, di colori, di bocce, di alambicchi, misteriosi come l’antro di un mago.

Cominciavo a capire la dolcezza della donna. Sentivo un fremito percorrere

tutto il mio corpo quando Giulia, divenuta una compagna di giochi, mi stava

accanto, quando fingevo di cadere lungo un vicolo e lei, correndo, si

chinava su di me, dicendomi se mi ero fatto male ed io guardavo da vicino

il suo viso pieno di efelidi, toccavo i suoi capelli che mi coprivano la faccia.

E la pensavo, la sognavo vestita di seta e di broccato con gli occhi chiusi sul

bambino che teneva sulle gambe, come le madonne dipinte da mio padre.

Ma di più somigliava a mia sorella Artemisia che, ora con le ali di angelo,

ora con gli occhi al cielo, mio padre amava nascondere sullo sfondo del

quadro, dietro ai personaggi rappresentati. E non ero solo io ad accorgermi;

gli amici pittori che venivano alla bottega, indicandola col dito, dicevano:

“Orazio, è proprio bella la tua figliola!”

Dopo la morte di mia madre, anch’io fui obbligato ad aiutare in bottega e

dovetti imparare a ridurre in polvere i pigmenti, a pulire i pennelli di setole

e di pelo animale, a tenere in ordine bocce, scatole, tele. Mentre io lo facevo

con negligenza, ricevendo rimbrotti e talvolta castighi corporali, Artemisia

si mostrava piacevolmente interessata e lo faceva con perizia. Mio padre la

osservava di nascosto e gli piaceva quella passione che metteva nel trattare i

materiali utilizzati per la pittura. Se non volle sostituirsi alla madre nel

governo della casa, ebbe una tale accuratezza e costanza in tutte le attività

di preparazione della pittura che presto le nacque il desiderio straordinario

di emulare il padre.

Per una femmina le strade erano due: il matrimonio o la

monacazione. Lei ne aprì inaspettatamente una terza: fare la pittora,

l’artista. Era certo una strada rischiosa, irta di enormi difficoltà.

Non c’erano esempi di donne pittrici a quell’epoca, se non di eccezioni per le

quali c’era posto soltanto per ritratti o nature morte. Quello a cui, invece, in

segreto aspirava, Artemisia me lo confidò qualche tempo dopo. Era attratta

dai chiaroscuri di un pittore amico del padre, il Caravaggio, dalla sua arte

che copiava dal vero, che riproduceva con abilità eccezionale le fattezze dei

suoi modelli.

Da bambina aveva avuto modo di vederlo qualche volta nella

bottega della nostra casa di via Margutta e lo ricordava anche nella tragica

circostanza della esecuzione di Beatrice Cenci e della sua famiglia.

Pittori come mio padre Orazio Gentileschi, come Caravaggio, come il

Cavaliere d’Arpino con tutti i suoi assistenti, non potevano perdersi quello

spettacolo, senza tracciare con rapidi segni sulla carta le espressioni di quei

condannati a morte. E lei, Artemisia, bambina di appena sei anni, stava in

braccio al padre, per imprimere nella memoria ogni gesto, ogni segno di

terrore che poteva cogliere dagli occhi, dal lento e incerto passo della

persona alla vista del ceppo dove di lì a poco avrebbe poggiato la testa per

offrirla alla scure del boia.

Quando la prima volta mi narrò quell’evento, quasi non volli crederle. Ma

poi ne ebbi conferma da mio padre. Per lei, Beatrice era una eroina.

Riteneva ingiusta la condanna a morte voluta dal papa Clemente VIII

perché si era vendicata dello stupro subito dal padre.

In quel tempo spesso Artemisia si confidava con me. Il suo cruccio era

quello che a dodici anni non sapesse ancora né leggere né scrivere. Suor

Graziella del Convento della Santissima Trinità, una amica e consigliera di

mia madre, avrebbe potuto insegnarle i rudimenti della lettura e della

scrittura, ma cozzò contro la volontà di mio padre, convinto che per una

femmina non fosse necessaria l’istruzione. Il suo tempo era destinato al

governo della casa, all’attenzione verso i fratelli più piccoli e a tenere in

ordine la bottega.

L’intelligenza, la prontezza nell’apprendere, unite a un talento che andava

sempre più emergendo, fecero in modo che il desiderio artistico di

Artemisia prendesse la direzione giusta. A me, che potevo seguire le lezioni

di un maestro di scuola, chiedeva spesso di mostrarle quel che

stentatamente apprendevo, finché un giorno il padre scoprì una piccola tela

che con gusto e capacità tecnica Artemisia aveva dipinto in segreto. Anche

la scritta Artemisia fecit in un angolo della tela impressionò il padre, il quale

cominciò a riconoscere in lei quello straordinario talento che la porterà a

competere con lui.

Da quel momento crebbe ancora di più in mio padre l’impegno a tenere

Artemisia sotto stretta sorveglianza. Non voleva che si facesse vedere alla

finestra, non voleva che uscisse neanche per andare in chiesa. La faceva

ritirare immediatamente quando doveva dipingere nudi di modelli maschi,

mentre le era permesso di assistere durante le raffigurazioni di nudi del

corpo femminile.

In realtà Artemisia in breve tempo era riuscita ad avere

una perfetta conoscenza anche della anatomia del corpo maschile, perché

più di una volta l’avevo sorpresa a sbirciare dietro una finestrella che si

apriva in alto sul soffitto, sconosciuta al padre. La sua gelosia era diventata

una ossessione.

A me, essendo ormai un ragazzo, raccomandava di vigilarla

e di riferirgli ogni cosa che faceva quando lui era assente per lavoro. Ma non

mi piaceva fare la spia, anche perché non resistevo a lungo rinchiuso

nella bottega a mescolare colori e a preparare le tele e dopo qualche ora con

la complicità di Artemisia me ne andavo in giro per il quartiere. Insomma

una mano lava l’altra, come dice il proverbio; ci coprivamo reciprocamente.

Questo mio girovagare mi fece scoprire un comportamento di mio padre

che certamente mia madre avrebbe disapprovato se fosse stata ancora in vita

e cioè la frequentazione delle osterie, il linguaggio volgare e offensivo nei

confronti di coloro che riteneva a lui inferiori, la complicità in azioni

violente.

A quella età di sicuro il mio giudizio peccava di rigidità, non

riuscivo ad accettare che anche un artista, quando stava con un suo pari, non

potesse non avere peli sulla lingua, non potesse non usare la violenza

verbale e fisica se occorreva. Il coltello era sempre a portata di mano come

per un qualsiasi popolano che intendeva farsi rispettare ad ogni costo. E poi

mio padre aveva l’esempio dell’amico Caravaggio e da qualche tempo

anche di un altro personaggio, il pittore Agostino Tassi, giunto a Roma con

la fama di violento e forse anche di assassino, come qualcuno sussurrava. 

[Continua]

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