Aquila o Dragone? Brevi riflessioni sul mondo
di Elena Tempestini
La Nuova via della Seta e la Turchia
Dicembre 2020: nella contea di Yutian, una remota località della Cina nord-occidentale, Regione autonoma dello Xinjiang Uyghur (dove da molti anni è in atto una guerra cruenta con persecuzioni e repressioni che l’Occidente ha reso “note” solo da qualche mese), importante punto di sosta sull’antica Via della Seta situato nella prefettura di Hotan, è stato aperto un nuovo ed immenso aeroporto.
La Nuova Via della Seta – la Silk and Belt Road – ha una diramazione in Pakistan che garantisce uno sbocco marittimo a sud. Per cui, un paese come l’Afghanistan, confinante con il Pakistan, deve essere sicuro perchè deve costituire una garanzia per gli investimenti cinesi. Inoltre, un’amministrazione stabile e cooperativa a Kabul aprirebbe la strada a un’espansione della Nuova Via della Seta in Afghanistan attraverso le repubbliche dell’Asia centrale.
Il ritiro delle ultime truppe americane apparentemente rappresenta la fine di una guerra, ma segna in realtà il probabile inizio di un’altra, asimmetrica, molto più articolata. I prodromi di questa nuova guerra, che vedrà coinvolti i principali “imperi eurasiatici”, si stanno già manifestando.
La Turchia, intanto: è l’unico membro dell’Alleanza Atlantica che rimarrà con proprie truppe militari sul suolo Afghano. La scelta di Ankara rientra nel grande progetto pan-islamista turco ideato dal professore universitario ed ex ministro degli esteri Ahmet Davutoglu, che ambisce a creare una sfera di influenza turca anche nello heartland eurasiatico, mediante un legame geopolitico tra il popolo turco e le popolazioni della Mongolia, la vera core-area di origine dei turchi e di cui l’Afghanistan è un tassello importante.
Il caos afghano
La presenza turca e il caos afghano inaspriranno le scelte di politica estera dei paesi limitrofi per far fronte alle velleità imperiali turche e allo sviluppo degli eventi nella regione. Primo fra tutti la Cina.
Grazie all’inaspettato endorsement statunitense, Pechino può accingersi a giocare un ruolo fondamentale in uno scacchiere che è stato fonte di instabilità e di conflitti per decenni, avviando un processo di pax cinese che aprirebbe nuove prospettive alla “Silk and BeltRoad” destinata a far sviluppare le economie di tutto l’estremo oriente e spostare il futuro centro di gravità della geopolitica mondiale da Ovest verso Est.
Pechino teme, però, che il ritiro americano provochi una forte destabilizzazione e la proliferazione di reti terroristiche islamiche che – a dispetto di un confine sino-afghano relativamente limitato – potrebbero infiltrarsi in Cina, alimentando le aspirazioni indipendentiste degli uiguri dello Xinjiang, popolazioni mussulmane-turcofone che Erdogan vorrebbe rientrassero nella sfera di influenza turca.
Nonostante i cospicui accordi economici tra Turchia e Cina, quest’ultima considera Ankara una delle principali minacce alla propria sicurezza ed integrità territoriale, cosciente delle ambizioni turche di arrivare alle steppe euroasiatiche passando inevitabilmente per lo Xinjiang.
Il Mar Cinese Meridionale
L’assillo cinese è che si possa aprire un ulteriore fronte di tensione che Xi Jinping non vuole perché impedirebbe di concentrare gli sforzi geopolitici cinesi nel Mar Cinese Meridionale, con le bellicose mire su Taiwan. Xi sa bene, infatti, che il ritiro statunitense non è assolutamente il segno del disinteresse americano nel mondo, ma al contrario è parte integrante del progetto strategico Pivot to Asia, già avviato dall’amministrazione Obama e funzionale a concentrare le forze americane nello spazio indo-pacifico, abbandonando scenari considerati secondari. La recente vicenda dei sottomarini ordinati agli USA e al Regno Unito da parte dell’Australia, che ha spiazzato la Francia, ne è prova inconfutabile.
Tanto più che, come detto, con la fine della campagna militare, gli USA continuano a mantenere “un tacco” nel paese afghano grazie alla presenza della Turchia, tuttora membro della NATO, utile al contemporaneo contenimento di Iran e Cina.
La ritirata americana è una scelta/scommessa che sicuramente presenta molti rischi, ma che tiene conto di molti più elementi di quanto appaia seguendo una interpretazione semplicistica ed emotiva. È come dire che quando un rapporto tanto assorbente con un solo Paese diventa non più sostenibile, è meglio una rete di maggiore complessità di relazioni, che consentono più combinazioni. Ovviamente la loro gestione è anche un fattore di crescente instabilità.
Afghani al loro destino
Anzitutto gli equilibri geo-politici disegnati in Medio Oriente dalle potenze occidentali alla fine della Grande Guerra stanno raggiungendo il punto critico e una nuova geopolitica si sta delineando oggi.
Poi che, dal punto di vista di Washington, l’Afghanistan è obiettivamente irrilevante. 40 milioni di afghani saranno abbandonati al loro destino, è vero; e chi potrà, tenterà di rifugiarsi oltrefrontiera, provocando un esodo non dissimile da quello causato dalla guerra civile siriana, non mancherà di creare problemi ai paesi limitrofi, compresi Russia, Cina, Turchia ed Europa; ma non agli Stati Uniti, che sono ben lontani.
E poi perché gli Usa stanno già confrontandosi con ben altri rischi planetari, posti dalla nuova sfida con Russia e Cina, che fa temere a molti una Seconda Guerra Fredda, fondata sul cyberspazio più che sulla deterrenza nucleare. Per non dimenticare l’India, la quale, in occasione dei negoziati di Doha tra gli USA e la delegazione talebana lo scorso anno, espresse ufficialmente il suo disappunto sostenendo che una legittimazione dell’organizzazione talebana avrebbe creato un “corridoio jihadista” esteso dall’Afghanistan al Kashmir, minacciando la stabilità dello stato indiano. E quanto siano instabili i rapporti fra India e Pakistan è ben noto da sempre.
Gli accordi di Abramo e i terminali della Via della Seta in Italia
In questo movimentato assestamento del quadrante eurasico non si possono ignorare gli “accordi di Abramo”, l’intesa firmata da Emirati Arabi, Israele e Bahrein cui potrebbe aderire formalmente anche l’Arabia Saudita. Un’intesa di pace destinata a mutare gli equilibri in quello spazio e a sancire il rango di nuova potenza regionale di Israele, ma soprattutto ad isolare la Repubblica Iraniana contenendone le ambizioni.
Ci sarebbe da chiedersi se nella partita rientriamo anche noi per l’interesse cinese, contrastato da quello tedesco, per i nostri porti di Trieste e La Spezia, terminali della nuova Via della Seta, e per l’acciaieria di Taranto, polo industriale mediterraneo.
Come si vede, il ritiro statunitense dall’Afghanistan, per quanto inaspettatamente rapido e suscettibile di un giudizio morale deprecabile, manifesta tutta la complessità della situazione e svela ambizioni e disegni latenti, in uno scenario internazionale del tutto nuovo e in continua evoluzione.
Da come gli attori in scena, soprattutto Cina e Stati Uniti, riusciranno a governare tanta complessità ed a non spingersi oltre il punto di non ritorno dipenderà la pace sul Pianeta.
Gli accordi dell’AUKUS
Dopo mille illazioni e giudizi di “resa” nei confronti degli americani per aver lasciato il suolo Afghano, è arrivata dunque la prima risposta a quelle che i cinesi hanno ritenuto provocazioni se non esplicite minacce alla loro sovranità, vale a dire le intese promosse da Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, India e Australia.
La mossa sullo scacchiere geopolitico che molti attendevano ha un suo nome, e anche se avviene nel “mar Pacifico”, di calmo e tranquillo non ha in serbo nulla. Il progetto si chiama AUKUS, acronimo di Australia, UK e United States, il “nuovo, vecchio asse tripartito” nell’Indo-Pacifico che rinsalda l’alleanza anglo-americano-australiana.
L’obiettivo di quest’ultimo è rafforzare il fronte anti-cinese e confermare che le potenze anglosassoni concepiscono sé stesse come l’unico motore strategico dell’Occidente, considerando gli alleati europei e della NATO come utili gregari, ma da tenere lontani dai veri processi decisionali, così come dai più rilevanti contratti militari che hanno ovvi riflessi industriali e geopolitici. Una realtà criticabile, ma non modificabile, che dovrebbe dare agli europei da riflettere per imparare a guardare “oltre”.
Sottomarini nucleari d’attacco Ssbn o business finanziario?
L’Australia costruirà una flotta di sottomarini lanciamissili a propulsione nucleare. Sono “Armi convenzionali”, ma alimentate ad energia nucleare. Questo non è certo un dettaglio da poco, visto che gli Ssbn da decenni solcano i mari, ma che finora erano rimasti prerogativa di Stati Uniti, Russia, Regno Unito e Francia.
Dotare l’Australia di Ssbn presume potenzialmente un eventuale confronto diretto con la Cina, paese mai nominato in questo frangente dalle tre potenze. Il nuovo triangolo geopolitico AUKUS è divenuto argomento di tutte le testate giornalistiche mondiali ed ha ben chiarito le priorità degli Stati Uniti in fatto di politica estera, dopo il ritiro delle truppe dall’Afghanistan.
L’Asia-Pacifico è la destinazione e Pechino è il principale avversario strategico. I rapporti tra Stati Uniti e Francia sono ai minimi storici, l’inserimento di Washington ha fatto saltare la commessa plurimilionaria che era stata stipulata tra Parigi e Canberra, che prevedeva la consegna di 12 sottomarini. In tutta risposta, l’Eliseo ha richiamato i propri ambasciatori in Australia e Stati Uniti e il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian ha definito l’accaduto come una pugnalata alle spalle.
AUKUS + QUAD
La creazione dell’AUKUS, dovrebbe chiarire che l’amministrazione Biden intende essere protagonista nel quadrante estremo orientale: l’AUKUS si somma al QUAD, Quadrilateral Security Dialogue formato da Stati Uniti, Australia, Giappone e India, con il chiaro obiettivo di controbilanciare la presenza cinese e metterne in discussione l’egemonia nel Mar Cinese Meridionale.
Praticamente il piano del “Pivot to Asia” inizia a entrare in azione. La risposta di Pechino si è fatta sentire con l’ennesima intrusione dei suoi cacciabombardieri nello spazio aereo di Taiwan, il paese che detiene il 60% della produzione mondiale dei semiconduttori e di cui la Cina da sempre rivendica una sovranità alla quale non intende rinunciare. A questo punto il quadro geopolitico è ben delineato, una sfida non solo annunciata, ma ormai esplicitamente avviata tra Stati Uniti e Cina.
Sicuramente il G20 in programma per fine ottobre, avrà da gestire una situazione molto complessa.
Parole minacciose e la nuova tecnologia militare
Le parole rilasciate da Biden non sono foriere di buone notizie: “Faremo fronte comune contro le minacce del ventunesimo secolo, esattamente come abbiamo fatto nel ventesimo, nella prima e nella seconda guerra mondiale, in Corea e nel Golfo Persico”.
Sia la Marina Militare che gli scienziati e le industrie tecnologiche, collaboreranno sulla cybersicurezza e le tecnologie critiche e la costruzione della nuova flotta australiana sarà un grande laboratorio per un’alleanza a largo spettro nel campo tecnologico. Sarà una grande occasione per mettere insieme le eccellenze del settore tech, navale e ingegneristico. A Downing Street hanno già individuato i possibili luoghi, gli stabilimenti della Rolls Royce vicino Derby e quelli di BAE Systems a Barrow, sul Mare irlandese.
Dal canto suo, Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha convocato una conferenza stampa in cui ha ribadito: «La Cina continua a sostenere che qualsiasi meccanismo di cooperazione regionale non dovrebbe nascere in funzione di un altro Paese, o minacciare i suoi interessi. Per quanto riguarda il contenzioso marittimo nel Mar Cinese Meridionale, ha ricordato Zhao Lijian, la Cina è uno dei costruttori della pace mondiale, un paese che ha contribuito allo sviluppo globale ed è garante dell’ordine mondiale. Tutto ciò che sta accadendo, mette a repentaglio la pace e la stabilità, oltre a creare una nuova corsa agli armamenti».
Praticamente Pechino non intende retrocedere assolutamente nelle acque contese. Complessa, ma prevedibile la situazione nella quale l’Australia nel prossimo imminente futuro, svolgerà il compito di “pattugliare” le acque del Mar Cinese Meridionale. I sottomarini australiani saranno molto preziosi per fornire supporto alle attività americane, soprattutto per tracciare e monitorare i corrispettivi mezzi cinesi stanziati nella base di Yulin, nell’isola di Hainan.
Il Mar Cinese Meridionale non rappresenta solo un vessillo patriottico: è una zona cuscinetto marittima che da possibilità a Pechino di raggiungere, velocemente e in profondità silenziosa, lo Stretto di Taiwan o la base di Yulin. L’ ASEAN, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, con i loro diplomatici di Filippine, Malaysia, Singapore e Thailandia, condividono le preoccupazioni per un eventuale conflitto, ricordando che l’Indonesia è la rotta più veloce per raggiungere il Mar Cinese Meridionale.
Tucidide
La storia in corso ci ricorda lo scontro tra Sparta e Atene, una guerra che ha molte analogie con il mondo nel quale viviamo, un sistema geopolitico di lontani millenni, ma un conflitto assoluto tra due protagonisti della stessa forma di civiltà, quella per la quale, da quel momento, iniziò la sua decadenza.
Ovviamente oggi la forma di civilità è quella umana. Cioè quella del Pianeta.
“Badate che spunteranno in un lampo: disponete di mezzi, si provveda al loro migliore impiego, per respingerli con l’efficacia più energica. Non fate che per il vostro disprezzo, il nemico vi sorprenda indifesi, o che l’incredulità v’induca a lasciar troppo correre. Se poi la verità si fa strada, non ispiri sgomento il loro passo temerario, con quella grandiosa macchina da guerra. Il loro assalto si fonda su una presunzione.“ (Tucidide)