IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Antiche storie di banche, pestilenze, guerre e crisi economiche

Miniatura XIV secolo

Miniatura XIV secolo

di Elena Tempestini

Ieri e oggi.

“Nulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche sia vero”. Forse Demostene nel pronunciare queste parole già intuiva che nel caos della globalizzazione, le scienze più a rischio sono la politica e l’economia.

Le crisi finanziarie sono destinate a ripetersi e il loro insorgere sembra inevitabile. Boccaccio, seicento anni fa, invitava con le sue novelle gli uomini, a restare umani, anche quando il mondo impazzisce, spiegando che la peste non era solo una epidemia fisica, ma la distruzione del vivere civile. I fatti di oggi non sembrano mutati di molto, se non per essere accelerati ed estesi all’intero orbe terraqueo, come si diceva una volta.

Proviamo a fare un salto nella città più potente dell’Europa del Trecento: Siena.

La saga dei Bonsignori

I Bonsignori erano i banchieri più potenti, non gli unici, ma sicuramente i più attivi e scaltri del 13^ secolo. I quali, non provenendo dagli agi dell’aristocrazia terriera, bensì dal duro lavoro di mercanti, istituirono la Gran Tavola.

La Gran Tavola dei Bonsignori era una banca che si distingueva dalle altre. Aveva aperto filiali in Italia e in Europa, da Londra a Parigi, da Genova a Bologna, prestando denaro ai sovrani di mezzo continente, ma soprattutto al pontefice. Divenire banchieri papali significava amministrare le maggiori ricchezze del mondo conosciuto, finanziarie e non, evitando l’accusa di usura, dato che il papa, per definizione, non avrebbe potuto servirsi di un usuraio. Per la contraddizion che nol consente, avrebbe detto il più famoso poeta dell’epoca e d’ogni epoca.

Forse per questo Dante collocò i maggiorenti senesi nel XXIX canto dell’Inferno, quello dei falsificatori d’ogni opera umana e non in quello degli strozzini.

Alle soglie del nuovo secolo, la banca dei Bonsignori iniziò a mostrare tutte le sue debolezze, tanto da rivolgersi al Comune di Siena perché intervenisse nella difficile situazione. Una sorta di salvataggio pubblico ante litteram. Il primo bail-out nella storia del banking, alla fine non andato in porto.

Furono anni di contrasti tra i soci della Gran Tavola e l’amministrazione comunale fino ad arrivare al sequestro dei beni della banca e alle rappresaglie in tutta Italia contro i mercanti senesi, ai quali venne impedito di vendere e acquistare merci, affinché non accumulassero ulteriore rischio. Come Lehman Brothers, la Gran Tavola fu lasciata fallire. La vicenda può essere letta anche come il primo embargo verso uno stato canaglia o come un complotto internazionale andato a buon fine.

Con il fallimento della Gran Tavola, Filippo il Bello, re di Francia, intravide la possibilità di soddisfare la propria sete di denaro e potere; creditore dei Bonsignori, forzò la situazione fino ad attribuirsi il diritto di spostare la sede papale da Roma ad Avignone.

Papa Clemente VI, a causa di un debito mai rimborsato di papa Niccolò IV, scomunicò la città di Siena, nonostante Bonifacio VIII avesse espressamente vietato di far ricorso alla scomunica come arma di ricatto per il recupero dei crediti.

Il recupero dei nostri NPL non contemplano tecniche altrettante drastiche, nevvero?

Oggi che siamo alla ricerca di argomenti per serie televisive sempre più spettacolari, la saga della Gran Tavola dei Bonsignori costituirebbe una sapida e intrigante trama, con un titolo davvero attraente. Sotto a chi se la sente! Sarebbe da girare tra stretti vicoli in salita e la più bella piazza del mondo della rossa (ora un po’ smorta) Siena, invece che tra gli stucchevoli scenari fiorentini e veneziani, presi d’assalto dalla filmografia thriller degli ultimi decenni.

La concatenazione negativa continuò fino alla metà del Trecento, quando scoppiò la peste nera e fallirono anche le altre grandi banche fiorentine dei Peruzzi e dei Bardi. I fiorentini, come i senesi, avevano filiali in tutta Europa e i loro migliori clienti erano i sovrani e coloro che decidevano le guerre.

Intermezzo culturale

Boccaccio scrive il Decamerone proprio per calmare le paure che si aggiravano nel mondo di allora. Nelle pagine introduttive alla prima Giornata del “Decameron”, descrive l’epidemia di peste che sconvolse Firenze, iniziando con l’ orrido cominciamento di una città sempre più irriconoscibile. L’atmosfera non era solo di devastazione materiale, ma di grande dissoluzione morale, e, per esorcizzare l’orrore della morte, si poteva solo applicare una visione positiva della vita.

Dieci giovani, diverranno i “novellatori”,  incontrandosi nella chiesa di Santa Maria Novella: decideranno insieme di fare lunghe passeggiate in campagna, essere uniti e raccontare storie e aneddoti, i quali potevano essere buoni spunti di riflessione sui vizi e le virtù dell’essere umano, distraendo dal terrore. Riducendo la socialità, limitarono perniciosi contatti.

Infatti, se l’onestà è una virtù sociale, la virtù dei singoli che può fare miracoli è soltanto la gentilezza e il rispetto degli altri, che si accompagnano all’ingegno e al coraggio.
Si, perché il coraggio che non è assenza di paura, ma la vittoria su di essa. Non vi può essere coraggio dove non vi è paura.
Dietro ogni muro c’è una luce, una sorgente di speranza e di bellezza. Bisogna scongiurare l’angoscia, che è il male che può diventare invincibile.

Nessun cambiamento 

Forse che le guerre finirono in quello stato di prostrazione di fronte al male trionfante e l’economia trovò altre strade per riformarsi? Niente di tutto questo!

Era da poco scoppiata la Guerra dei Cento Anni tra Francia e Inghilterra, che solo il nome è tutto un programma! Ma non divaghiamo.

I conflitti, con vinti e vincitori, da sempre hanno creato immensi debiti e crediti. La guerra contro Lucca del secolo successivo fece sì che il Comune di Firenze si ritrovasse debitore di 600.000 fiorini, l’equivalente di circa tre tonnellate d’oro.

Restando alla metà del Trecento con Edoardo III d’Inghilterra i banchieri fiorentini compresero che non sarebbero rientrati del credito che avanzavano, e, pur essendo banche solide, andarono incontro al fallimento. Il rischio bancario sistemico, come fosse un’altra epidemia, si manifestò per la prima volta nel mondo occidentale.

La scelta di cambiare politica non aiutò la città del Giglio. Allontanandosi dal papato per avvicinarsi convenientemente all’imperatore Ludovico il Bavaro, essa provocò l’ira di re Roberto di Napoli, guelfo convinto, il quale venne di persona a ritirare tutti i propri averi dalle banche fiorentine, accompagnato da un seguito di prelati ed eccellenze napoletane. Immaginate per un momento l’incedere solenne di una carovana che risale mezza Italia, guidata dal re in persona il quale si presenta per prelevare tutte le ricchezze depositate nei forzieri fiorentini! Oggi la chiameremo corsa agli sportelli, all’epoca fu una corsa al rallentatore, da VAR per analizzare i movimenti flemmatici e severi di tutti i partecipanti, nei ricchi costumi d’allora.

Il crollo dei mercati 

Come in tempi moderni, valse il criterio di tentare di salvare il salvabile. Mors tua, vita mea, alla faccia del salvarsi tutti assieme.

Nel 1345 vennero negoziati i titoli del debito pubblico fiorentino, fino a quel momento non trasferibili e irredimibili, con l’immediata caduta del sistema finanziario, esattamente come in un grande crollo della Borsa moderna.

Nelle cronache di Giovanni Villani fu riportato che mai toccò «alla nostra città di Firenze maggiore ruina e sconfitta»; la crisi generò la caduta del mercato immobiliare e la città cadde in ginocchio, flagellata da carestie, con la peste bubbonica che decimava la popolazione e diminuiva la richiesta e i prezzi delle abitazioni. A piovere sul bagnato è sempre un attimo, tanto che ad aggravare la situazione ci pensò l’inflazione, che si ripercosse sull’argento del quale erano composte le monete in corso, con la corsa all’oro, da sempre unico e consolidato bene rifugio.

Conclusione

Gli ottimisti diranno che agli sconquassi del Trecento seguirono i trionfi dell’Umanesimo e del Rinascimento. Noi più sommessamente vorremmo che ogni riferimento ai fatti odierni fosse puramente casuale, dato che ognuno ha interesse a vivere la sua epoca.

Crediamo dunque che l’antidoto possa essere uno solo e risieda nel senso di responsabilità dei Governanti e nella loro asserita volontà di procedere come un’unica comunità internazionale, facendo i conti con le esigenze della natura e della civiltà umana.

La vittoria della vita con la verità dell’onestà non ha nulla a che fare con l’ipocrisia e le convenienze. L’onere della prova sta soltanto a loro. È chiedere troppo?

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