Animali e piante magiche del Salento
Di Maurizio Nocera. Essenzialmente questa comunicazione si fonda sulle informazioni avute da Giovanni Giancane (noto agricoltore artista di Monteroni, di circa 65 anni), Noè Ruggeri (quando intervistato, nel 2013, aveva 96 anni) e Antonio Camassa (quando intervistato aveva 83 anni).
Giancane, lo conosco da molti anni, ed è colui che mi ha dato e continua a darmi le sue informazioni botaniche sulla base della sua esperienza sul campo; così pure Camassa; un po’ di problemi mi sorgono sempre con Noè, perché non vuole che si sappia in giro che lui conosce queste sue vecchie storie. E questo nonostante che, con suo nome e cognome, io gli abbia digitalizzato tutta la sua narrazione, di oltre un centinaio di pagine Mi ha comunque autorizzato a divulgare quanto da anni mi ha raccontato. Tuttavia, per quanto mi riguarda e per onestà intellettuale, non posso qui evitare i nostri lunghi incontri.
Nell’ultimo incontro avuto con lui, Noè mi ha nuovamente ripetuto la storia del cane che compare e scompare.
Tale avvenimento gli è accaduto quand’egli era ancora giovane: una notte (ma l’evento si è verificato più volte), nel ritornare al suo paesello da un paese vicino andava riflettendo sulle visioni strane, misteriose e inspiegabili, quando si vide accanto
«un cane che per un momento gli apparve davanti poi, improvvisamente, se lo sentì subito alle spalle. Tutto cessò in un determinato punto della strada».
Questo fenomeno gli accadde sempre su quella stessa strada, tanto da farlo rimanere turbato per diverso tempo.
L’altro racconto di Noè riguarda un giovane commerciante di attrezzi agricoli, che una notte tardò a rientrare a casa. Alcuni suoi amici, conoscendo le sue abitudini, lo andarono a cercare sulla strada che portava al paese. A un quadrivio lo trovarono steso per terra. Lo toccarono, lo chiamarono, ma egli non diede segni di vita, anche se si accorsero che respirava. Di piccola statura com’era, non fu faticoso trasportarlo a casa. Illuminato da più lumi a petrolio dalle donne, le stesse, guardandolo, emisero un urlo. Il suo corpo era ricoperto di piccole, medie e grosse verruche tondeggianti che facevano orrore. Chiamato d’urgenza, e in piena notte, il medico asserì che doveva trattarsi di un forte spavento, che in alcuni casi imbianca repentinamente i capelli, oppure può accadere proprio quello che era accaduto al giovane. Dopo quattro giorni d’incoscienza, il malcapitato riprese la parola, anche se con difficoltà; tuttavia si fece sufficientemente capire. Raccontò che sulla strada del ritorno, aveva sentito dei fruscii sotto un grande albero di noce. Là per là non diede importanza. Pensò che si trattasse di animali come volpi, lepri, oppure cani. Ma, non aveva fatto una ventina di passi, quando udii alle sue spalle un sibilo acuto. Si voltò e non vide nulla. Accelerò un po’ l’andatura, temendo per la somma di denaro che aveva in tasca. Ancora dopo un certo tempo e dopo un nuovo sibilo, ancora più prolungato del primo, percepì dietro di sé una specie di ombra. Si voltò di scatto e vide la sagoma di un uomo non molto lontano. Allora gridò con voce forte e decisa:
«Non mi fai paura, ho con me il coltello e la falce. Se ti avvicini con un solo colpo ti stacco la testa!».
Questo fatto avvenne nelle vicinanze della grotta di san Giovanni a Giuggianello (Noè è devoto di questo santo). Continuò a camminare più svelto possibile, però, nuovamente sentì la voce che gli chiedeva:
«Mi accendi questo sigaro?».
Si fermò e gli rispose:
«No, io non fumo!».
Intanto l’ombra gli si era avvicinata ad una distanza di non più di tre metri. Cercò di guardarlo negli occhi, ma si accorse che non aveva pelle, né carne, né occhi. Era fatto di sole ossa e tra i denti stringeva una candela spenta. Allora le palpebre del giovane si chiusero e si riaprirono repentinamente più volte davanti a un qualcosa di incredibile: quell’ombra, che poi era come uno scheletro, non aveva un vero e proprio corpo. Si spaventò molto e da quel momento in poi non ricordò più nulla, perché svenne. A questo punto del racconto Noè mi chiede:
«È mai possibile che una persona normale si mascheri in quel modo per far paura ad un povero giovane stanco e affamato? ».
Noè mi racconta poi di una donna che, si diceva, avesse il potere, mediante un’arte magica, di trasformarsi in gatto. Il fatto strano accadde quella volta che una signora doveva partorire in casa propria, senza tagli cesarei, senza cliniche e medici specializzati in ginecologia. Tutto si approntava qualche giorno prima del lieto evento: panni di lino, una lunga fascia di tela, un catino con una saponetta, una pentola piena d’acqua da intiepidire al momento in cui c’era bisogno dell’assistenza della mammana, cioè la levatrice, o ostetrica che, all’epoca, per tutti noi era la comare. La mammana era una persona amata, rispettata e temuta nei paesi del Salento, soprattutto in quelli del Capo di Leuca. Di solito si trattava di una donna senza alcuna erudizione o titolo in materia d’ostetricia. Si trattava solo di una donna pratica, tanto da essere considerata come Levana, la dèa protettrice dei neonati. Era temuta perché il destino di vita o di morte di un neonato stava proprio nelle sue mani nel momento in cui veniva al mondo. Di solito questa donna s’insuperbiva fino a tal punto che la gente per abbonirla non mancava di elargirle delicatezze particolari, come primizie di ortaggi e frutta, ricotta e formaggi, uova, ecc.
La mammana di cui parla Noè proveniva da un paese lontano. Era una donna alta, robusta e anche belloccia. Di lei si diceva che era stata espulsa dal suo paese natio perché avrebbe venduto bambini in modo clandestino. Non era sposata. All’inizio si mostrò disponibile e premurosa nel dare consigli alle puerpere ma, man mano che passarono i giorni e i mesi, ella divenne sempre più scontrosa. Era soprattutto avida di denaro. Per lei era veramente difficile sentire il tintinnio delle monete nelle tasche della gente. A quel tempo, la vita era abbastanza dura ed anche tanto difficile. Per ogni assistenza al parto, la mammana pretendeva esose regalie, sempre in denaro, allora non sempre disponibile nelle tasche della povera gente.
Molti s’indebitavano per soddisfare le sue pretese pur di non sentirla brontolare, spesso con frasi poco ortodosse ai riguardi in particolare della puerpera per non aver collaborato a sufficienza nel momento del parto, umiliandola e attribuendole la probabile morte del nascituro se questo, per disgrazia, moriva. Quello suo era un metodo per darsi meriti e importanza. Tutto questo non avveniva quando la famiglia elargiva in modo abbondante, soddisfacendo così le brame dell’avida donna. Col passare del tempo divenne sempre più cattiva. Alcuni giorni spariva dal paese e, dato che aveva dimora in piazza, in una piccola stanzetta alla quale si accedeva da una scala a cielo aperto direttamente dalla strada, non era difficile controllarne la presenza. Si parlava di incontri notturni con persone sospette di satanismo, e che lei stessa avesse poteri sovrannaturali. Spesso accadeva che, dopo il parto, le cure e l’igiene del neonato erano di sua competenza, dato che la puerpera rimaneva coricata per qualche giorno. Tale servizio veniva fatto quasi sempre di sera in modo che il bambino fasciato riposasse pulito per tutta la notte vicino alla madre.
Per questo lavoro, la mammana riceveva un compenso in denaro. Tutti sapevano che qualora non fosse stata ricompensata, la sera dopo, la perfida provocava tormenti al piccolo mediante polveri irritanti che non davano pace né al piccolo né ai familiari.
Racconta Noè che due giovani genitori, tra tante difficoltà economiche, realizzarono il loro sogno di mettere su famiglia. In meno di un anno nacque un bel bambino che fu la gioia della casa. Il padre, giovane vigoroso, non riusciva però a trovare lavoro ed era sempre furibondo. Erano tante le ristrettezze economiche da sentirsi in colpa del mancato compenso di cinque lire che comunemente veniva dato come regalo alla mammana dopo il parto. A nulla valsero le sollecitudini della moglie di cercare un prestito per soddisfare la donna. Ma il giovane fece orecchio da mercante. Non era nella sue intenzioni indebitarsi per compensare la mammana, che già percepiva un’indennità, sia pure piccola, dal Comune. Sin dal secondo giorno dalla nascita il bimbo, a una certa ora della sera, il piccolo si scatenava in atroci vagiti senza motivo: era stato lavato e ben nutrito, per cui non si capiva la causa della sua sofferenza. Il padre amoroso nei confronti della mammana non aveva animo di andare a chiamare la mammana. A furia di pensare sull’incomprensibile fatto che si verificava quasi sempre nella stessa ora della sera, precisamente quando attraverso la gattaiola (buco praticato nella parte bassa delle porte per permettere la libera entrata e uscita dei gatti) entrava in casa un gatto mai visto prima.
Dopo questo evento, il bimbo incominciava a disperarsi e piangere a dirotto. Sulle prime i genitori non fecero caso al fatto, dato che i gatti entravano e uscivano liberamente da tutte le porte delle case. Però, ad un certo punto della storia, vollero prestare maggiore attenzione. Così, una sera, a una certa ora, apparve lo stesso gatto; appena si introdusse, contemporaneamente il piccolo si mise a strillare. Tutto tornava tranquillo solo quando l’animale se ne usciva. Decisero di verificare e accertare il fenomeno ancora per un’altra sera. Ogni dubbio fu dissipato quando costatarono che la presenza di quel gatto in quella casa provocava misteriosamente il disturbo al piccolo.
Marito e moglie si consigliarono vicendevolmente e stabilirono un piano d’azione. Seduti e armati di randelli, attesero pazientemente quella data ora della sera. Nell’assoluto silenzio, anche il piccolo dormiva, tutto era tranquillo, ed ecco che fa capolino, dal buco della gattaiola, il solito gatto. Appena introdotto in casa, il bimbo si sveglia e si mette a strillare come non mai. Il marito, come stabilito nel piano d’azione, tappò il buco dell’uscio con un sacco, accentuarono il volume della luce dei lumi a petrolio, e giù colpi di bastone sul gatto più volte, sino a quando non lo videro che non si reggeva più in piedi, solo allora aprirono la gattaiola e il gatto, abbastanza malconcio, se andò. Una volta sparito l’animale, tornò la quiete. Al giovane padre nacque un dubbio. Senza esitare un attimo e non ascoltando i richiami della moglie, uscì e, a passo svelto, si recò a casa della mammana. Salì le scale, bussò alla porta. Una flebile voce si fece sentire:
«Chi è?».
«Comare sono io, le chiedo per favore se può venire a vedere mio figlio che si distrugge di pianti!».
«Compare non posso venire, sono caduta dalle scale e mi sono fatta tanto male. Ma tu torna a casa perché il bimbo ora dorme».
Il gatto non si fece più vedere e il piccolo crebbe giorno dopo giorno in bellezza senza incubi e disturbi di alcun genere. Rivolto a me, la conclusione di Noè fu:
«Ma può una donna, invasa di satanismo, trasformarsi in gatto?».
Il terzo racconto che il grande vecchio salentino mi propose di ascoltare riguarda una donna che sapeva preparare la Cantaridina (Fig.1). Sicuramente, secondo lui, doveva
«trattarsi di credenze dovute soprattutto a quel continuo raccontare di cose assolutamente fantasiose, ma che alla fine trovavano sempre degli assertori pronti e disposti a dimostrare con i fatti che alcuni accadimenti avvenivano veramente, anche se inspiegabili».
Questa donna, che passava per essere una strega, si diceva che fosse in contatto con gli spiriti infernali. Si diceva pure che fosse in grado di compiere atti di magia, fatture, malocchi, filtri, iatture.
«Era magrissima, dagli occhi rossi e tracomatosi, dai lunghi capelli sciolti e arruffati che scendevano sulle spalle come corde. Vestiva sempre di nero con una gonna ampia e lunga. Quando passava per le vie del paese tutti evitavano d’incontrare il suo sguardo, toccando possibilmente ferro. Lei se ne accorgeva di questi atteggiamenti e lanciava, in un linguaggio incomprensibile, anatemi e imprecazioni malefiche. Una volta accadde un fatto strano a un uomo che era in groppa a un cavallo. Passandole vicino, l’uomo ebbe a dire “Scostati!”; e lei, voltandosi di scatto e allungando le braccia, rispose: “Che tu possa buttare il sangue!”. Dopo appena venti metri un gatto nero attraversò quella strada, il cavallo s’imbizzarrì e il povero uomo stramazzò a terra lasciando veramente una macchia di sangue fuoriuscitagli da una ferita al braccio. Molti paesani erano presenti all’accaduto e per molti anni raccontarono tale avvenimento a figli e nipoti. Il marito della donna raccontava spesso come la moglie si dedicava alla preparazione di intrugli e bevande afrodisiache e deleterie secondo le commissioni e l’uso da farne. Raccontava pure che durante i mesi estivi, questa donna beveva un liquido che lei stessa preparava, composto di polvere di Cantaridina e di fiori di Ranuncoli gialli (Fig.2) mescolati al latte di capra di prima figliata. Un giorno, il buon uomo vide la moglie sollevarsi da terra, mentre con le mani unte di quella stessa sostanza si strofinava sotto le ascelle dicendo:
«Satanino, satanone/ fammi volare come un piccione./ In virtù di questo unguento/ fammi trovare/ sotto il noce del palmento».
Di questi racconti Noè ne conosce molti altri, ma qui mi fermo di raccontare, perché sono giunto al punto che riguarda quanto un tempo accadeva in Salento.
La cantaridina
La Cantaride (Lytta vesicatoria) è un insetto coleottero della famiglia dei vescicanti, di forma oblunga quasi cilindrica, di un verde dorato lucente con riflessi azzurri. Molto comune nelle campagne del Salento, perché il territorio abbonda di ulivi, sulle cui foglie vive (anche sulle foglie della Fillirea (Fig.3), il cui nome scientifico è Lillatro), un arbusto molto simile all’ulivo, che produce olivette, e che Giovanni Giancane raccoglie e spreme per fare un olio particolare con proprietà officinali. La Cantaride, volando, emette un ronzio ultrasonico udibile però dall’orecchio umano. Tali insetti, se disseccati e polverizzati, danno la Cantaridina, sostanza che, se ingerita in infuso o sniffata dalla narici, dà effetti afrodisiaci e allucinatori.
La polvere della Cantaride è bruno-verdastra ed è oltremodo irritante. La si ottiene per macinazione del corpo essiccato degli insetti adulti, e contiene dallo 0,2 all’0,8% di un principio attivo (appunto la Cantaridina). In farmacia viene usata nel trattamento dermatologico delle verruche, ma trova pure rimedio come antiflogistico e antirabbico; tuttavia qui a noi interessa come sostanza che nell’antico Salento, alcune persone se ne servivano come sostanza afrodisiaca. Il suo principio attivo irrita il rivestimento della vescica e dell’uretra, provocando così casi di priapismo con erezione persistente. È una sostanza pericolosa perché, se miscelata con la stricnina, oppure con l’alcool, o la cocaina, o la marijuana, può provocare seri danni al consumatore. L’effetto principale della Cantaridina, in particolare quella granulare, è quello di stimolare il sistema nervoso centrale in modo da deprimerlo, eliminando così le inibizioni e suscitando un effetto psichico di forte desiderio sessuale. I suoi effetti priapeschi sono molto più potenti dello stesso viagra. Anticamente veniva usata per stimolare l’entrata in calore delle giumente. Un esempio letterario dell’uso della Cantaridina è quello accaduto
«il 27 giugno 1772, quando il cameriere Latour fermò per strada la diciottenne prostituta Marianne Laverne, che gli combinò intricati incontri con altre donne i cui nomi sono: Mariette Borelly, Marianette Lauguier, Rose Coste e Marguerite Coste. Questi incontri orgiastici sono noti nel mondo letterario perché descrivono scene erotico-masochistico fino ad arrivare alla fustigazione. Durante tali incontri si faceva uso di pillole alla Cantaridina, che avevano uno scopo apparentemente innocente, ma alle “pazienti” apparve invece come un tentativo di avvelenamento. Dopo gli amplessi, la mattina del 28, le donne si svegliarono piuttosto scombussolate, senza ricordare più nulla della sera precedente, in compenso però provarono un inspiegabile bisogno di scappare in bagno: riflesso peristaltico, memoria ancestrale, riflusso ipnagogico?». (v. Vita di De Sade).
Il Ranuncolo giallo (Fig.4) è una pianta erbacea con fiori gialli lucenti, molto comune un po’ dappertutto. In Salento fiorisce soprattutto nella prima parte della primavera. Non è commestibile dagli animali erbivori e men che meno dagli uomini. Già gli antichi Greci, soprattutto gli ierofanti del tempio di Eleusi, conoscevano gli effetti del fiore giallo, e sapevano della sua tossicità anche se ingerito in piccole quantità. Se la quantità non la si spaeva misurare c’era il rischio di morire. I fiori, seccati e polverizzati, e abbinati ad altre sostanze commestibili, producono alterazioni psichiche di tipo allucinogeno. A Eleusi (40 km da Atena), durante i riti a Demetra e Persefone, molto probabilmente furono usati anche i fiori del Ranuncolo giallo, ovviamente in aggiunta ai funghi parassiti dell’orzo. In sostanza si trattava di riti che inducevano le allucinazioni in uno stato psichedelico.
Chi, nell’ottobre del 1977, ha dimostrato tale processo psichico sono stati tre scienziati, Wasson, Hofmann e Ruck. La scoperta fu rivelata nel corso della Seconda Conferenza Internazionale sui Funghi Allucinogeni (Fort Worden, 27-30 ottobre), dove gli autori affermarono che si poteva capire quel che accadeva nel tempio di Demetra ad Eleusi attraverso l’ipotesi lisergica [Lisergico (li-sèr-gi-co) è un aggettivo di un alcoloide velenoso, il cui significato, in chimica, si riferisce all’acido lisergico, estratto dal fungo Segale cornuta, il cui derivato di sintesi è comunemente noto come LSD (dietilamide dell’acido lisergico scoperto dallo scienziato chimico svizzero Albert Hofmann). È ormai nota o quanto meno si suppone che sia questa la pozione, il cosiddetto Kykeon, cioè la sacra bevanda di Demetra, a base di vino e Mentuccia selvatica (Fig.5) o Nepitella (Calamintha nepeta)] e di Lolium Temulentum (Fig.6) (Loglio ubriacante), altrimenti chiamato Segale selvatica [o cornuta], o Loglio, e nella Bibbia compare come Zizzania (vale a dire sempre Loglio ubriacante). Quest’erba (parassita delle graminacee) è spesso infestata da un fungo (si tratta del micelio fungino che invade la pianta durante il suo sviluppo), denominato Claviceps purpurea o Ergot, una degenerazione rossastra a cui l’orzo è particolarmente soggetto.
Sin dai tempi antichi si sa quanto sia allucinogena la Claviceps purpurea, ancor più esaltata se miscelata con particolari tipi di vino e con la Mentuccia selvatica, ampiamente presente nelle campagne salentine. Ho esperienza diretta di un caso di intossicazione di un infuso bollito di vino rosso Negroamaro con Mentuccia selvatica. La persona che si sottopose a queste dosi d’infuso nella speranza di alleviare una resistente bronchite estiva finì in ospedale con l’essere disintossicato.
Noè, oltre alla Cantaridina, ai fiori di Ranuncoli gialli, alla Segale cornuta (Fig.7) e alla Mentuccia selvatica, mi ha parlato anche di una pianta che nel suo dialetto viene chiamata Murgighina, e che, secondo me, fatti i dovuti riscontri, dovrebbe trattarsi della Migliarina a quattro foglie (Fig.8) (Polycarpon tetraphyllum), altrimenti chiamata, sempre in dialetto salentino Brucacchia . Questa è una pianta commestibile per i salentini, che possono prepararla o in insalata oppure lessa.
Di essa, però, gli stessi contadini (non molti per la verità) si cibano solo quando ancora non ha raggiunto lo stadio dell’infiorescenza. In tale stadio la pianta produce un’enorme quantità di semini neri, di cui sono ghiotti alcuni uccelli. I vecchi contadini del Salento avvisano sempre chi non conosce i poteri tossici di questi semini di non cibarsi per non andare incontro a difficoltà motorie e a sonnolenza.
Dal contadino artista Giovanni Giancane, invece, ho appreso l’uso che egli fa delle erbe. Per anni ha curato la propria madre con dosi di clorofilla, il cui succo egli estrae da differenti erbe. Da lui ho appreso anche l’uso della Borragine officinalis (Fig.9), le cui foglie e i fiori li usa come base per frittate e per erbe bollite.Fin dall’antichità la pianta ha fama di svegliare gli spiriti vitali. Scrive Plinio:
«Un decotto di borragine allontana la tristezza e dà gioia di vivere»).
La pianta viene utilizzata per abbassare la febbre e calmare la tosse secca. È nota anche come diuretico ed emolliente (quest’ultima proprietà sarebbe dovuta alla presenza di Mucillagini). L’olio, ad alto contenuto di acido linolenico, ottenuto dai semi soprattutto per spremitura a freddo, è impiegato nel trattamento degli eczemi e di altre affezioni cutanee, per via delle spiccate proprietà antinfiammatorie. Attualmente, l’uso terapeutico in quantità rilevanti di foglie e fiori di Borragine allo stato crudo è sconsigliato, sia per l’insufficienza delle evidenze mediche, sia per il fatto che i petali e le foglie crude conterrebbero, in quantità non ancora ben definite, alcoloidi pirrolizidinici, a potenziale attività epatotossica e cancerogena.
La Murteddha (Mirto selvatico) (Fig.10) è una pianta tra le più antiche del Salento e caratterizza quella che viene indicata la macchia mediterranea. I contadini l’hanno sempre usata per differenti scopi, come, ad esempio, per aromatizzare cibi e liquori (il liquore di mirto è una specialità di questi luoghi, di cui i contadini si servivano soprattutto come pulitore dei denti al primo mattino), oppure come pianta scaccia insetti. Non sono pochi gli uccelli che si cibano delle sue bacche nere, mentre le api succhiano il nettare dei fiori bianchi. Qui, ci interessano le sue proprietà afrodisiache. Nell’antichità greca e magnogreca era una pianta divina. Al tempo della Grecia antica, ma anche dell’antica Roma, i poeti si cingevano il capo o di corone di alloro oppure di corone di mirto, soprattutto per via della carica del profumo. È nota la storia degli alchimisti medioevali che la consideravano l’«acqua degli angeli», corrispondente oggi all’“acqua di colonia” che, secondo l’uso popolare, grazie ai suoi profumi stimolava l’approccio sensuale.
Simile al Mirto è pure il Corbezzolo (Fig.11) (Arbutus unedo), anch’esso infestante e caratterizzante la macchia mediterranea.
Un tempo di questa pianta si utilizzava tutto, vale a dire le foglie, i frutti, i fiori e le radici, tutti contenenti proprietà officinalis. Importanti sono le sostanze contenute nelle foglie, ricche di derivati fenolici e di tannini, sostanze essenziali a combattere non poche patologie, ma anche il frutto è importante per la presenza di differenti flavonoidi per il loro potere antiossidante. I contadini amano dire che questa pianta è di tipo ornamentale e si guardano bene dal raccogliere i suoi frutti rossi in quantità considerevoli perché, a loro dire, mangiarne una quantità superiore al dovuto significa andare incontro a forti difficoltà funzionali.
Nello stesso habitat del Corbezzolo vegeta pure il Lentisco (Fig.12) (Pistacia lentiscus), le cui foglie sono essenzialmente tanniche.
Mi dice Noè che i contadini salentini usavano molto la resina del lentisco, la cosiddetta Mastice, che estraevano dal fusto dell’albero incidendolo e facendo spurgare la resina. Già dai tempi antichi e classici (ancora oggi a Chio, l’isola greca dove si dice sia nato Omero, viene prodotto un liquore di lentisco, detto Mastika (Fig.13), nota come gomma da masticare per rinfrescare e tonificare le gengive, ma anche per rendere odoroso l’alito. A detta di Noè le streghe salentine (masciare) davano questa gomma da masticare alle donne che volevano conquistare un uomo e soprattutto se ne servivano quando si accingevano ad un rapporto sessuale.
Con i Corbezzoli e i Mirti, nella stessa specie di piante officinalis, ci sono anche gli Allori (Fig.14), i Viburni, le stesse Filliree, tutte cosiddette Sempreverdi, perché non sfogliano e per tutto l’anno conservano il verde delle foglie. Nel mondo contadino salentino sono state piante che hanno trovato il loro impiego sia come terapie terra terra sia come piante per uso estetico.
Una pianta che invece io conosco da molto tempo è il Titimaglio (Fig.16) (Tithymalus) o Titimallo o, come diciamo noi in Salento Totomajo. Fa parte della famiglia delle Euforbie (in questo caso la Helioscopica).
Il primo contadino che mi fece conoscere questa pianta (una trentina d’anni fa), il cui lattice me lo strofinò sul palmo della mano fu Cosimo (Coco) cosiddetto Preno (agnome) di Uggiano La Chiesa. Il lattice della pianta è urticante, produce un formicolio ad intermittenza di lungo periodo. Gli effetti sono quelli di provocare un prurito erotico diffuso al livello della parte unta. Tuttavia va detto che il lattice bianco che fuoriesce spontaneo al taglio è tossico e il suo contatto può provocare irritazioni della pelle e delle mucose ed è particolarmente pericoloso per gli occhi. Secondo quanto mi raccontò Cosimo e secondo quanto successivamente mi ha confermato Noè, nei tempi andati, i salentini si servivano del lattice di questa pianta come stimolatore sessuale. Ovviamente non così crudamente appena estratto dalla piantina, ma tagliato e composto con altre sostanze (diluenti vari). Solo così il lattice “tagliato” e addolcito dava la possibilità, a chi se ne volesse servire, di spalmarlo sulle parti interessate. I suoi poteri afrodisiaci, inebrianti e allucinogeni, soprattutto quelli provenienti dalla radice polverizzata, aumentano se essa è mescolata e cotta con l’assenzio o comunque con altre sostante alcaloidi. Questo tipo di Titimaglio presente in Salento, ma che io ho visto essere presente un po’ ovunque in Europa, è meno presente nelle zone montuose, e non va confuso con quello estivo che cresce nei pressi dei vitigni, i cui effetti sono molto più deboli rispetto al primo.
In Wichipedia è possibile trovare anche un racconto che fa capire bene il potere delle virtù di questa pianta. Si racconta che alcuni
«anni fa, si presentò al medico condotto di Mazzano Romano [Roma] un ragazzino intimidito, ma anche “specurito” [spaventato] per il gran dolore che accusava nelle parti basse. Il medico tutto premuroso, ma anche allarmato, domandò che cosa fosse accaduto. Il ragazzino, tra mille esitazioni, rosso per la vergogna, si calò i calzoni e al medico apparve uno spettacolo che aveva dell’incredibile, tanto che il primo commento fu testualmente (come lo riferiscono) “mamma mia, ‘na mazza così nu l’agge vista mai!”. Era successo che il nostro (che poi ebbe a ereditare un soprannome conseguente e confacente) era stato vittima di una di quelle burle a cui si veniva sottoposti da parte dei più grandi. Del tipo, “a rega’ si te voi fa’ cresce lo piscorello strofinece sopre lo detomaio”».
Questa storia si è accaduta anche a un giovane di Muro Leccese che, dopo avere usato male il Titimaglio, finì in ospedale sottoposto a massicce dosi di valium. Occorre tenere ben presente che il lattice di questa pianta non lo si può usare senza conoscerne le conseguenze. Un tempo – racconta Noè – c’erano delle donne che sapevano fare l’unguento di Titimaglio, per cui, così fatto e spalmato sulle parti erogene provocava semplicemente giusto quello che si desiderava senza produrre gonfiori sproporzionati.
Tutti i vecchi contadini, con i quali sono stato in contatto, tra questi cito Antonio Camassa e altri, mi hanno sempre indicato la Cicuta (Fig.17) (Conium maculatum) come la pianta infestante (fiorisce tra aprile e agosto) più pericolosa delle nostre campagne, appartenente alla famiglia delle Apiaceae del tipo ad ombrello bianco. Pericolosa perché grandemente tossica.
Nota è la storia di Socrate (v. Fedone di Platone), che morì con un infuso di Cicuta e Datura (Datura stramonium), cosiddetta anche Erba del diavolo ed Erba delle streghe. Della Datura (Fig.18) c’è da dire che si tratta di una pianta velenosa a causa dell’elevata concentrazione di potenti alcoloidi (scopolamina e atropina), le cui proprietà inducono alla narcosi ed alle allucinazioni, mentre la Cicuta contiene un alcaloide velenosissimo, la Coniina, una neurotossina paralizzante. Bastano pochi milligrammi di Coniina, presente in tutte le parti della pianta, per avere effetti fisiologici devastanti. Ovviamente si tratta di una pianta officinale simile al curaro amazzonico ed ha un forte potere analgesico e stupefacente. Esiste in Salento una memoria attraverso cui si racconta che essa sia stata usata dai contadini locali, che solitamente usavano delle pozioni preparate dalle streghe (masciare).
Secondo Noè è una pianta sempre temuta e, per fortuna, vegetando solo d’estate, cioè lontano dal tempo della raccolta delle erbe selvatiche che in Salento si usano raccogliere d’inverno per cibarsene. Quindi non c’è stato mai il rischio di raccoglierla inavvertitamente. Qui da noi in estate, salvo la Rucola (Fig.19), il Rosmarino (Fig.20), il Timo (Fig.21), l’Origano (Fig.22)e altre piante secche, tipiche della zona, non si usa raccogliere altre erbe selvatiche da mangiare.
Noè e Camassa mi hanno parlato pure dell’Oleandro (Fig.22) (Nerium oleander), un albero molto diffuso in Salento per scopi ornamentali. È pianta velenosissima, il cui alcoloide è l’Oleandrina, una tossina che provoca nausea, bruciore, disturbi sul sistema nervoso centrale, e in particolare narcosi allucinatoria.
Tutti noi salentini siamo però molto ghiotti di Papaverina (Fig.23) (in dialetto Paparina), una pianta da non confondere con il Papavero da oppio, e neanche con la Papaverina citata nelle varie enciclopedie, che contiene un alcaloide dell’oppio usato principalmente come trattamento degli spasmi viscerali, ma anche nel trattamento della disfunzione erettile, nel senso che, usata topicamente, aiuta l’erettilità. La Papaverina di cui parlo io è quella parte della pianta del Papavero Rosso (Papaver rhoeas = Papavero dai petali cadenti), cosiddetto anche Erba della buonanotte o rosolaccio.
L’erba che noi tutti conosciamo bene è quella che si raccoglie solo nei mesi invernali, quando ancora non sono spuntati i calici o boccioli del fiore. Mangiata di sera e innaffiata da abbondante vino rosso, intruglio che qui da noi veniva chiamato Papagna, favoriva l’addormentamento. In passato i contadini ne hanno fatto larghissimo uso. Anche oggi, d’inverno, il piatto di Papaverina (Paparina) fritta con olivette nere e peperoncino non manca quasi mai dalla mensa dei salentini.
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WICHIPEDIA 2013