“Alla ricerca dell’unità perduta. Perché Oriente e Occidente cristiani devono tornare a dialogare e a incontrarsi” di Davide Romano
C’è qualcosa di irresistibile nel fascino dell’Oriente Cristiano, una sorta di incanto che mi prende ogni volta che mi immergo nella storia e nella spiritualità di quei luoghi antichi e misteriosi. È un’attrazione che nasce non solo dalla bellezza delle liturgie, dalle icone che sembrano vivere, o dai canti che risuonano come un eco dell’eternità, ma da un senso di profondità spirituale che, purtroppo, abbiamo in gran parte perduto qui in Occidente.
L’Oriente Cristiano è una finestra aperta sull’infinito, una porta socchiusa che lascia intravedere il mistero di Dio e la bellezza della fede incarnata. Eppure, questa ricchezza spirituale non è un tesoro esclusivo, riservato a pochi eletti. Anzi, è un patrimonio che appartiene all’intera cristianità, a quella Chiesa che, come ci ricorda San Paolo, è “un solo corpo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione” (Efesini 4:4).
Ma allora, ci si potrebbe chiedere, perché questo senso di separazione, di distanza, tra Oriente e Occidente? Perché quella che era una sola Chiesa, unita nella fede e nei sacramenti, è stata spezzata, frammentata, da divisioni che sembrano insormontabili?
Qui, forse, si cela la tragedia della storia umana, quella tendenza innata dell’uomo a creare barriere, a erigere muri anziché costruire ponti. Eppure, l’attrazione per l’Oriente Cristiano non è soltanto il richiamo di una bellezza antica, ma anche la nostalgia di un’unità perduta, il desiderio di ricomporre ciò che l’orgoglio e l’incomprensione hanno spezzato.
“La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo è la visione di Dio,” scriveva Sant’Ireneo di Lione, uno dei grandi Padri della Chiesa. E in questa visione di Dio, non c’è distinzione tra Oriente e Occidente, tra Greco e Latino, tra Romano e Bizantino. Tutti sono chiamati a contemplare il volto di Cristo, tutti sono invitati a partecipare alla sua gloria. Ma per farlo, occorre superare le divisioni, ritrovare l’unità che era il segno distintivo della Chiesa primitiva.
Pensiamo, per esempio, alla profondità teologica dell’Oriente, alla sua capacità di penetrare nei misteri divini con una finezza e una sensibilità che spesso mancano all’Occidente, troppo spesso concentrato su aspetti più razionali e giuridici della fede. L’Oriente ci ricorda che la teologia non è solo una scienza, ma una forma di preghiera, un atto di adorazione. “La vera teologia è quella che si fa in ginocchio,” diceva Evagrio Pontico, uno dei grandi monaci del deserto. E questa teologia in ginocchio, questo approccio contemplativo e mistico alla fede, è qualcosa di cui l’Occidente ha un bisogno disperato.
Ma l’Occidente non ha solo da ricevere. Ha anche molto da offrire. Ha sviluppato una spiritualità dell’incarnazione, dell’azione, del coinvolgimento nel mondo, che è altrettanto importante e complementare alla spiritualità orientale. San Benedetto da Norcia, con il suo “Ora et labora,” ha dato vita a un modello di vita cristiana che unisce preghiera e lavoro, contemplazione e azione, creando una sintesi che ha plasmato la civiltà occidentale. E questa sintesi, questa capacità di unire cielo e terra, è qualcosa che potrebbe arricchire profondamente anche l’Oriente.
C’è una bellezza particolare nel pensiero che l’Oriente e l’Occidente, come due polmoni di un unico corpo, possano respirare insieme, ognuno apportando all’altro ciò che gli manca. “Il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero” (Matteo 11:30), dice il Signore, e forse è proprio questo il giogo che dobbiamo accettare: il giogo dell’unità, che non è uniformità, ma comunione nelle diversità.
I Padri della Chiesa avevano una visione profondamente unitaria della fede cristiana. San Giovanni Crisostomo, la cui Divina Liturgia è il cuore della spiritualità bizantina, parlava dell’Eucaristia come del “vincolo della carità”, il sacramento che unisce i cristiani in un solo corpo. E Sant’Agostino, dall’altra parte dell’Impero, predicava che “dove c’è carità e amore, lì c’è Dio.” Questi due giganti della fede, pur appartenendo a tradizioni diverse, erano uniti nella convinzione che l’amore è il fondamento della Chiesa e che solo nell’amore si può ritrovare l’unità.
L’Oriente Cristiano, con la sua resistenza contro le intemperie della storia, contro le invasioni, le persecuzioni, i tentativi di omologazione, ci offre una lezione preziosa: quella della perseveranza nella fede. “Siate saldi e irremovibili, sempre abbondanti nell’opera del Signore” (1 Corinzi 15:58), ci esorta San Paolo, ricordandoci l’importanza di non cedere di fronte alle difficoltà.
L’Occidente, con la sua capacità di riflessione teologica, la sua spiritualità dell’incarnazione, può offrire all’Oriente un aiuto prezioso per affrontare le sfide del presente. Ma solo se entrambi i mondi sanno riconoscere i propri limiti, le proprie debolezze, e accettano di imparare l’uno dall’altro.
Ricomporre l’unità perduta tra Oriente e Occidente non è solo un imperativo ecumenico, ma una necessità spirituale per la Chiesa del terzo millennio. “Che tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te; siano anch’essi uno in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17:21). Queste parole di Gesù, pronunciate durante l’Ultima Cena, sono un richiamo potente a ritrovare quell’unità che è il segno distintivo del cristianesimo.
Il cammino verso l’unità non sarà facile. Richiederà umiltà, pazienza, e soprattutto, una grande capacità di ascolto reciproco. Ma ne vale la pena. Perché solo unendo le ricchezze spirituali dell’Oriente e dell’Occidente potremo riscoprire la pienezza della fede cristiana, quella fede che, come diceva San Basilio, “è il dono più prezioso che l’uomo può ricevere da Dio.”
In un mondo sempre più disorientato e privo di punti di riferimento, riscoprire l’Oriente Cristiano è un po’ come ritrovare una bussola perduta. Ma non basta. È necessario anche riconciliare quella bussola con le tradizioni occidentali, creando un dialogo vivo e fecondo che possa arricchire entrambe le parti. Solo così potremo sperare di ricomporre l’unità perduta, di guarire le ferite del passato e di costruire una Chiesa che, pur nelle sue diversità, sia veramente una, santa, cattolica e apostolica.