Agostino e il furto di pere
di Mario Pintacuda
Agostino, filosofo, teologo, Padre della Chiesa, nativo di Tagaste nell’attuale Algeria, racconta molti episodi della sua vita nelle “Confessiones” (scritte fra il 397 e il 401 d.C.): si tratta di un particolarissimo tipo di autobiografia, in cui i fatti raccontati vengono sempre letti e interpretati teologicamente, con l’intento di scorgere in ogni attimo dell’esistenza la presenza di Dio. Ma era un Dio che Agostino scoprì tardi, dopo un’adolescenza e una prima giovinezza in cui l’attrattiva dei piaceri sensuali, la pigrizia, l’“amore per il gioco” (“amor ludendi”, come lo chiama lui), lo avevano “dis-tratto” dal bene.
Di questo “smarrimento” Agostino era spesso consapevole, ma non aveva la forza di reagire: ecco che cosa riferisce, ad es., sul suo periodo scolastico: «Io non amavo lo studio e non potevo sopportare di esservi costretto: ma pur mi si costringeva; il che era un bene per me, ma io non agivo bene; non avrei imparato senza costrizione. Nessuno infatti agisce bene contro voglia (“nemo enim invitus bene facit”), anche se è bene quello che fa» (I, 12).
Di questo periodo adolescenziale “dissipato”, Agostino riferisce in particolare un episodio, cioè un furto notturno fatto da lui ed altri ragazzi (lui aveva solo 15 anni), non per impellente necessità, non per un motivo reale, ma solo per il gusto trasgressivo di fare una cosa “che non si fa”.
Ecco le sue parole: «Ebbene, io volli commettere un furto (“furtum facere volui”), e lo feci non costretto da indigenza, ma da mancanza e da intolleranza del senso di giustizia, dall’esuberanza del malvolere. Ciò che rubai, io lo avevo largamente, di qualità molto migliore; né volevo godere di quello a cui tendeva il furto, ma proprio del furto e del peccato. Contiguo al nostro podere era un pero carico di frutti, non allettanti affatto né per bellezza né per sapore. Dopo aver protratto il gioco, secondo la nostra pessima usanza, fino a tarda ora nelle piazze, nel cuor della notte la trista combriccola di noi ragazzacci (“nequissimi adulescentuli”) si recò a scuotere quell’albero e a depredarlo: e ne portammo via un gran carico, non per mangiarne a sazietà, se pure ne assaggiammo, ma per darne in pasto persino ai maiali: nostro unico piacere fu quello di fare ciò che non era lecito, perché ciò ci piaceva» (II 4).
Agostino va a rubare perché così decidono gli altri ragazzi; non sa dire di no alla proposta degli “adulescentuli” più sfrontati.
Ora, la “trasgressione” narrata, rapportata a certi fatti che avvengono al giorno d’oggi, può apparire minima e trascurabile: che gravità può avere un banale furto di pere, di fronte a tragedie profonde in cui oggi purtroppo sono coinvolti ragazze e ragazzi giovanissimi?
Ma per Agostino quell’episodio è emblematico, è il punto di partenza per una riflessione ulteriore; infatti, tornando ad analizzare il futile episodio, scrive così: «Da solo non avrei compiuto quel furto in cui non già la refurtiva ma il compiere un furto mi attraeva. […] Uno dice: “Andiamo, facciamo”, e si ha pudore a non essere spudorati” (“dicitur: ‘eamus, faciamus’ et pudet non esse inpudentem”’)».
Ecco il punto. Qualcuno dice: “andiamo, facciamo” e non si ha la forza di dirgli no, di opporsi a una cosa anche se è palesemente ingiusta e immotivata. Ci si vergogna – dice Agostino – di non essere spudorati, ci si vergogna di avere vergogna delle proprie azioni.
L’ansia di vivere un’esperienza diversa, l’insoddisfazione o la noia per le piccole cose quotidiane, l’indeterminatezza delle idee, l’impulsività: tutto questo ha creato nel cuore del ragazzo quindicenne una confusione che è sfociata in una decisione stupidamente sbagliata. Un po’ come diceva la Medea ovidiana: “vedo le cose migliori, le approvo; però poi vado dietro alle cose peggiori” (“video meliora proboque, deteriora sequor”, “Metamorfosi” VII, 20-21). Tanto più, questo, quando si è così giovani.
Agostino ricorda i sensi di colpa che provò ancora, tanto più esagerati nell’adolescenza quanto a volte è banale la trasgressione commessa; parla di un “groviglio tortuoso” (“tortuosissimam et inplicatissimam nodositatem”), di una vera “abiezione” del suo animo (II 10). E presenta, ora, a Dio il suo animo esprimendogli gratitudine per averne avuto pietà: «Ecce cor meum, Deus, ecce cor meum, quod miseratus es in imo abyssi» (“Ecco il mio cuore, Dio, ecco il mio cuore, di cui hai avuto pietà quando era nel fondo dell’abisso”).
Ma quando Dio “aveva avuto pietà” di lui? Agostino racconta anche questo.
Molti anni dopo, nell’estate del 386, quando aveva ormai 32 anni, Agostino veniva da anni di tormentosa riflessione: aveva oscillato fra il manicheismo e lo scetticismo accademico, aveva ascoltato a Milano i discorsi appassionati di Ambrogio, aveva letto testi neoplatonici. Ma era confuso, lacerato, lontano e vicino al tempo stesso dalla meta: «Seguiva un altro tentativo uguale al precedente, ancora poco ed ero là, ancora poco e ormai toccavo, stringevo la meta. E non c’ero, non toccavo, non stringevo nulla. Esitavo a morire alla morte e a vivere alla vita».
A un certo punto, in un’afosa giornata dell’agosto milanese, Agostino scoppia in lacrime, si allontana dal suo amico e discepolo Alipio, si getta sotto una pianta di fico e lancia grida disperate. Ricorda le parole del Salmo («E tu, Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore, sarai irritato, fino alla fine? Dimentica le nostre passate iniquità») e dispera ormai di tutto, è vicino all’abisso.
Quanto tempo duri questa drammatica lotta di Agostino con se stesso non viene detto; ma a un tratto la sua attenzione viene attratta da qualcosa: «A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo più volte: “Prendi e leggi, prendi e leggi” (“tolle lege tolle lege”). Mutai d’aspetto all’istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna parte. L’unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e leggere il primo passo che vi avrei trovato. Così tornai concitato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell’Apostolo. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: “Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore nostro Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze”. Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono» (VIII, 12.29).
Così avvenne la conversione di Agostino, o almeno così la racconta lui. E se anche quella voce che diceva “Tolle lege tolle lege” fosse venuta dall’interno del suo animo, magari aprendosi la strada fra tante altre voci diverse che l’avevano sommersa precedentemente, non cambierebbe la sostanza del fatto: la vita di quell’uomo da quel momento cambia, prende una direzione, rilegge alla luce del presente l’esistenza passata e inizia a programmare il futuro sotto la luce di un nuovo faro, razionale e irrazionale al tempo stesso (perché non c’è nulla di più razionale di certa irrazionalità).
E forse in quel caldo giorno del 386 Agostino ripensò per un attimo a quell’estate di diciassette anni prima, a quel furto di pere. In entrambi i casi, una voce condiziona le azioni e le scelte: nell’adolescenza era stato l’invito alla trasgressione (“Andiamo, facciamo”), a Milano è un misterioso invito (“Prendi e leggi, prendi e leggi”); ma la decisione finale viene presa “dentro” l’animo di Agostino.
«Tardi ti ho amato (“Sero te amavi”), bellezza somma, che sei tanto antica, ma altrettanto recente, tardi ti ho amato. Ma il vero è che tu eri dentro di me ed io ero al di fuori, e io ti cercavo al di fuori, e sulle creature aggraziate che tu hai creato, io, sgraziato qual sono, m’avventavo alla cieca. Tu eri con me, ma io non ero con te. […] Hai dissipato la mia cecità, hai fatto sentire il tuo olezzo e ho ripreso fiato, e a te ormai rivolgo il mio respiro» (Agostino, Confessioni X 38).
Di Mario Pintacuda
Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.