A trent’anni dalla strage di Capaci di Pasquale Hamel
Nessuno avrebbe immaginato che, quel tragico 23 maggio 1992, proprio trent’anni fa, la criminalità mafiosa sarebbe arrivata a tanto. C’erano infatti stati molti delitti eclatanti, numerosi servitori dello Stato, sindacalisti, politici e cittadini innocenti erano stati assassinati in un crescendo di ferocia criminale che appariva inarrestabile, c’era stato perfino un attentato – si disse allora in stile libanese – che aveva liquidato l’inventore del pool antimafia, parlo del giudice Rocco Chinnici, ma un atto terroristico come “l’attentatuni” consumato a Capaci – ma di lì a qualche settimana sarebbe stato ripetuto in via D’Amelio dove sarebbero morti Paolo Borsellino e la sua guardia del corpo – nel quale, oltre a Giovanni Falcone, persero la vita la moglie Francesca Morvillo e con loro tre uomini della scorta, non aveva avuto precedenti.
Apparve evidente – al di là di un fantomatico disegno ordito da quel “terzo livello” la cui esistenza era stata negata dallo stesso Falcone – che Salvatore Riina (Totò u curtu), ormai capo incontrastato di Cosa Nostra, aveva radicalmente cambiato il modo di agire della criminalità mafiosa in Sicilia attaccando, senza ritegno, direttamente lo Stato nei suoi rappresentanti più in vista in Sicilia convinto di riuscire, in ogni caso, a piegarlo. Falcone, come poi Borsellino, pagava la colpa di essere stati fra i principali responsabili di quel nuovo corso che vedeva – persino forzando gli stessi principi costituzionali come nel caso del decreto Andreotti che riportava in carcere i boss scarcerati per decorrenza dei termini – per lo Stato un radicale mutamento di strategia nella politica e nell’azione di contrasto del tanto devastante che inquietante fenomeno della criminalità organizzata. Ordinando quegli attentati Totò Riina, da rozzo criminale qual era, non si era, però, reso conto che, abbandonare l’antica prassi contraddistinta da una mafia che agiva sottotraccia, in qualche caso garantita da un aberrante entente cordiale con i pubblici poteri, per adottare una strategia la portava a contrapporsi frontalmente e militarmente allo Stato l’avrebbe visto in ogni caso perdente.
Proprio l’attentato di Capaci e quello successivo di via D’Amelio furono infatti il culmine tragicamente più alto del programma stragista di Cosa Nostra, ma anche il punto d’avvio di una reazione decisa dello Stato che avrebbe portato all’inesorabile declino della leadership criminale del corleonese. Non è un caso, infatti, che meno di un anno dopo, precisamente nel gennaio del 1993, Riina sarebbe stato catturato e assicurato alle patrie galere per trascorrervi ben 24 anni di carcere, previsto dal 41 bis dell’ordinamento penitenziario, prima di rendere l’anima al diavolo. Ma a parte l’errore marchiano di prospettiva di una belva senza limiti e dei suoi sodali, c’è un ulteriore elemento che in questa tragica vicenda non può sfuggire. Mi riferisco ad una conseguenza che gli autori dell’attentato non avevano messo in conto, un contraccolpo tanto inatteso che sorprendente. L’attentato di Capaci ha, infatti, avuto una ricaduta significativa per l’orizzonte culturale dei siciliani. Finalmente la gente apriva gli occhi.
Alla rassegnata indifferenza che aveva contraddistinto nel passato l’atteggiamento dei siciliani nei confronti della mafia si era infatti sostituita una diffusa e indignata risposta, una vera e propria ‘rivolta delle coscienze’, tanto da poter affermare che, dal quel giorno, in fatto di mafia nulla sarebbe più stato come prima poiché, quell’indignazione, si era tradotta in una straordinaria e meravigliosa unità di popolo, contro quello che veniva ormai considerato un pericolo incombente, che ha avuto ben pochi riscontri nella storia nazionale e in quella siciliana, in particolare. Di quella eccezionale risposta oggi, purtroppo, bisogna constatare che resta molto poco, e non tanto perché è quasi normale che il passare del tempo intiepidisce le passioni, ma perché troppo spesso la memoria di quella vicenda è stata strumentalmente utilizzata per modesti fini di lotta politica che hanno finito per spezzare la risposta unitaria che, invece, di fronte ad un nemico così aggressivo e subdolo, è oltremodo necessaria.
Ecco dunque che nel fare doverosa memoria di quel dramma avvilisce la tragica constatazione di avere, per mancanza di lungimiranza, in buona parte sprecato un’occasione unica e irripetibile per dire coralmente un No liberatorio contro la criminalità mafiosa e contro le sue aberranti seduzioni.
Pasquale Hamel
Pasquale Hamel (1949), saggista e scrittore.È autore di numerose opere di carattere storico fra le quali, Da nazione a regione (Sciascia), La Sicilia al Parlamento delle due Sicilie 1820/21 (Thule), Il Mediterraneo da barriera a cerniera (Editori Riuniti). Ha scritto testi letterari come La crociata del Santo (Sellerio), La congiura della libertà (Marsilio). Appassionato di storia medievale ha scritto Adelaide del vasto regina di Gerusalemme (Sellerio) e L’invenzione del regno, dalla conquista normanna alla fondazione del Regnum Siciliae (Nuova Ipsa Editore), Breve storia della società siciliana (Sellerio).