A PROPOSITO DI DONNE: “Le Donne e la Poesia – un viaggio nel tempo” di Maria Rosaria Teni
Oggi parleremo di un argomento che mi interessa particolarmente e che riguarda soprattutto la presenza delle donne poetesse e letterate all’interno di antologie e di libri di testo. Per quanto possibile, cercheremo di percorrere un piccolo viaggio all’interno del mondo poetico e letterario compiuto dalle donne. Ad eccezione di qualche caso, non si trovano di frequente le loro composizioni, nonostante in realtà ci sia un numero considerevole di autrici che si sono dedicate alla poesia e alla letteratura. Tutto questo, inevitabilmente porta a ignorare la presenza delle donne in letteratura, perdendo l’occasione di conoscere una differente lettura del mondo che, visto sotto la lente della sensibilità femminile, ha indubbiamente la peculiarità di cogliere ed esprimere le diverse sfaccettature dell’essere umano e della vita, dando voce al proprio modo specifico di sentire e vivere la realtà e l’interiorità.
Spesso si ritorna a parlare dell’assenza delle donne nei vari ambiti della cultura e della società, ma non si sottolinea che ancor più spesso si deve parlare di una presenza confutata, a volte quasi ignorata, e questo soprattutto nei secoli passati, perché alle donne sono stati impediti la piena espressione e l’accesso alla cultura, essendo relegate alla vita tra le pareti domestiche dove la donna, ormai è risaputo, aveva prevalentemente il compito di pensare al matrimonio e ai figli. Nella storia della musica come nella letteratura, come nella scienza o nella filosofia, le donne hanno dovuto lottare sempre di più per arrivare a vedere confermati i loro talenti e le loro inclinazioni. La musica fino a circa la metà del XIX secolo era ancora considerata un ornamento per le giovani che volevano dedicarvisi e così le belle lettere e le materie scientifiche.
Se guardiamo ai secoli passati, invece, dobbiamo risalire all’incirca nel VI sec. a.C. per incontrare una poetessa greca, Saffo, (Ereso (Lesbo) 630 a.C. – Ereso (Lesbo) 570 a.C.), che si dedicava all’educazione di giovani nobili in una sorta di cenacolo intellettuale, una comunità tra il sacro e il profano definita Tìaso (ϑίασος), rivolto alla venerazione della dea Afrodite che, oltre al culto religioso, aveva anche una complessa funzione pedagogica per le giovani donne che erano iniziate all’età adulta, preparandole alla vita matrimoniale e coniugale.
Di lei si hanno poche notizie; si conosce l’esistenza di un marito e una figlia, si apprende dai frammenti rimasti che era amante del bello, raffinata ed elegante nei modi e nell’aspetto ma, soprattutto, che amò molto e che l’amore riversato nei versi fu un canto limpido e toccante. Saffo fu stimata ed ammirata a Mitilene e nei suoi frammenti ricorrono parecchi nomi delle fanciulle riunite nel Tìaso, che Saffo ammirava, stimava e celebrava, esaltandone le lodi e la bellezza, festeggiandone con gioia le nozze e lamentandone la partenza per terre lontane, con versi armoniosi e di rara bellezza, testimonianza preziosa del suo canto e dei suoi sentimenti.[1] Il tema predominante delle sue liriche è sempre quello dell’amore, considerato da Saffo il più potente dei sentimenti umani, il cui ruolo è determinante nella vita e nell’educazione del Tìaso, e colto in tutte le sue sfumature, sia quello travolgente della passione sia quello del turbamento adolescenziale delle fanciulle. Famosa fin dall’antichità è la composizione dedicata appunto ad Afrodite, un inno d’invocazione, una preghiera tradizionale nella forma ma innovativa nel contenuto, poco religiosa, giacché poetessa e dea sono poste in diretto rapporto confidenziale, in dolce patto d’alleanza, fino ad annullare, con complicità tipicamente femminile, la distanza tra umano e divino:
Afrodite immortale dal trono variopinto,
figlia di Zeus, insidiosa, ti supplico,
non distruggermi il cuore di disgusti,
Signora, e d’ansie,
ma vieni qui, come venisti ancora,
udendo la mia voce da lontano,
e uscivi dalla casa tutta d’oro
del Padre tuo:
prendevi il cocchio e leggiadri uccelli veloci
ti portavano sulla terra nera
fitte agitando le ali giù dal cielo
in mezzo all’aria,
ed erano già qui: e tu, o felice,
sorridendo dal tuo volto immortale,
mi chiedevi perché soffrissi ancora,
chiamavo ancora,
che cosa più di tutto questo cuore
folle desiderava: “chi vuoi ora
che convinca ad amarti? Saffo,dimmi,
chi ti fa male?
Se ora ti sfugge, presto ti cercherà,
se non vuole i tuoi doni ne farà,
se non ti ama presto ti amerà,
anche se non vorrai”.
Vieni anche adesso, toglimi di pena.
Ciò che il cuore desidera che avvenga,
fa’ tu che avvenga. Sii proprio tu
la mia alleata.
Le fonti storiche riferiscono una copiosa produzione poetica della poetessa, tanto da arrivare secondo gli antichi studiosi della Biblioteca di Alessandria alla composizione di circa1300 versi.
Bisogna aspettare diversi secoli prima di incontrare altre donne nella letteratura. Solo nella seconda metà del XIII secolo facciamo la conoscenza di una rimatrice fiorentina, Compiuta Donzella[2], morta probabilmente agli inizi del 1300, che è presumibilmente la prima donna che compone poesia d’arte in volgare italiano e della quale ci sono giunti soltanto tre sonetti di gusto trobadorico e giullaresco, due dei quali di una perfezione formale molto vicina a quella del Petrarca: A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora, Lasciar vorria lo mondo e Dio servire, Ornato di gran pregio e di valenza che presentano i temi dell’amore cortese, le tematiche del repertorio popolare dei “contrasti” e il tema delle donne “malmaritate”. Si serve dello pseudonimo di Compiuta Donzella e, per carenza di fonti, non si può confermare se sia il suo vero nome, peraltro, usuale nella Firenze del tempo in cui visse, nel significato di “perfetta, piena di virtù” e indica il suo status di “signorina”, costretta però dal padre a prendere marito contro la sua volontà di entrare in convento, oppure completamente inventato. Tutto questo ha portato alla formulazione di diverse teorie, creando un’aura di mistero. Sappiamo che Guittone d’Arezzo le indirizza un’epistola, la quinta, che suona come un panegirico delle sue virtù: Soprapiacente donna, di tutto compiuto savere, di pregio coronata, degna mia Donna Compiuta, Guitton, vero devotissimo fedel vostro, de quanto el vale e po’, umilmente se medesmo raccomanda voi.
Ornato di gran pregio e di valenza
Ornato di gran pregio e di valenza
e risplendente di loda adornata,
forte mi pregio più, poi v’è in plagenza
d’avermi in vostro core rimembrata
ed invitate a mia poca possenza
per acontarvi, s’eo sono insegnata,
come voi dite c’a[g]io gran sapienza;
ma certo non ne son [tanto] amantata.
Amantata non son como vor[r]ia
di gran vertute né di placimento;
ma, qual ch’i’ sia, ag[g]io buono volere
di senire con buona cortesia
a ciascun ch’ama sanza fallimento:
ché d’Amor sono e vogliolo ubidire.
Lo storico della letterature italiana Francesco de Sanctis ne riconosce l’esistenza (Storia della letteratura italiana) e la qualità: «…la perfetta semplicità del sonetto femminile, con movenza più vivace, più immediata e più naturale..»
A la stagion che ‘l mondo foglia e fiora
acresce gioia a tut[t]i fin’ amanti:
vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti;
la franca gente tutta s’inamora,
e di servir ciascun trag[g es ‘ inanti,
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, n’abondan mar[r]imenti e pianti.
Ca lo mio padre m’ ha messa ‘n er[r]ore,
e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore,
ed io di ciò non ho disìo né voglia,
e ‘n gran tormento vivo a tutte l’ore;
però non mi ralegra fior né foglia
Si deve arrivare all’incirca alla seconda metà del XIV secolo per trovare un’altra donna nella letteratura, Christine de Pizan[3], veneziana, (1365ca. – 1430ca.) una delle personalità più affascinanti del tardo Medioevo, tanto da essere definita la prima scrittrice professionista d’Europa e la prima storica laica di Francia, poetessa, editrice e filosofa, che si era fatta conoscere per aver rilevato l’esclusione dal sapere e criticato chi ne impediva l’istruzione, affermando: “[…] che se ci fosse l’uso di mandare le bambine a scuola e di insegnare loro le scienze, imparerebbero altrettanto bene […]. Trascorse tutta la vita a Parigi, dove si era trasferita da bambina seguendo alla corte di re Carlo V il padre, Thomas de Pizan, laureato all’Università di Bologna, prima consigliere della Repubblica e poi medico, astrologo e consigliere personale del re, Christine de Pizàn è autrice sia di testi filosofici come “La città delle dame”, del 1405, in cui rovesciava i luoghi comuni dell’inferiorità femminile che risalivano all’autorità di Aristotele e il “Dettato dedicato a Giovanna d’Arco” scritto poco prima di morire, nel 1430, sia di testi poetici, fra cui Seulete Sui, in cui descrive il dolore per la morte prematura del marito. Rimasta vedova a venticinque anni, con tre bambini piccoli e una madre di cui doversi occupare, si assunse responsabilità e obblighi considerati a quel tempo prerogativa maschile.
Christine fu la prima donna a vivere di scrittura anche dopo il matrimonio, e famosa è la sua frase: “Dovetti diventare un uomo”, riferendosi al suo compito di sostenere i figli e la madre. Iniziò dunque a cercare un lavoro e in poco tempo arrivò a dirigere una bottega di scrittura, uno scriptorium dove supervisionava il lavoro dei maestri calligrafi, rilegatori e miniaturisti. Nel tempo libero continuava a scrivere e a inviare ballate e sonetti ai personaggi più influenti dell’epoca. Apprezzati da tutti, i testi divennero presto la sua unica fonte di sostentamento e la resero famosa in tutta Europa. In soli due anni Christine compose Le Livre des cent ballades venendo apprezzata per i suoi testi da alcuni fra i più importanti uomini del tempo, come Carlo V, Filippo II di Borgogna e Giovanni di Valois.[4]
Sono sola, e sola voglio rimanere.
Sono sola, il mio dolce amico mi ha lasciata,
sono sola, senza compagno né maestro,
sono sola, dolente e triste,
sono sola, a languire sofferente,
sono sola, smarrita come nessuna,
sono sola, rimasta senz’amico.
Sono sola, alla porta o alla finestra,
sono sola, nascosta in un angolo,
sono sola, mi nutro di lacrime,
sono sola, dolente o quieta,
sono sola, non c’è nulla di più triste,
sono sola, chiusa nella mia stanza,
sono sola, rimasta senz’amico.
Sono sola, dovunque e ovunque io sia;
sono sola, che io vada o che rimanga,
sono sola, più d’ogni altra creatura della terra,
sono sola, abbandonata da tutti,
sono sola, duramente umiliata,
sono sola, sovente tutta in lacrime,
sono sola, senza più amico.
Principi, iniziata è ora la mia pena:
sono sola, minacciata dal dolore,
sono sola, più nera del nero,
sono sola, senza più amico, abbandonata.
Per Simone de Beauvoir, Christine è: “la prima donna a prendere la penna in difesa del proprio sesso.
Da ricordare è anche Caterina da Siena, la cui produzione poetica spesso passa in secondo piano rispetto alla sua valenza politica e religiosa fra 1350 e 1380: teologa e filosofa, fu autrice di Lettere, Orazioni e del Dialogo della Divina Provvidenza, ancora oggi considerato una delle opere più importanti della letteratura mistica medievale.
Il nostro piccolo viaggio, per questa prima parte si interrompe qui, anche se ancora tante sono le donne di cui vorrei trattare. Per il momento andremo avanti compiendo un primo passo all’interno del mondo letterario, proseguendo poi nei secoli successivi che vedono le donne del Rinascimento impegnate nello studio e nell’affermazione del proprio talento.
Maria Rosaria Teni
[1] F. Santucci, Donna non sol ma torna musa all’arte, Il Foglio, I edizione marzo 2003- II edizione novembre 2003
[2] Gianfranco Contini (a cura di), Poeti del Duecento, Ricciardi, F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, I vol
[3] Jean-Yves Tilliette, CRISTINA da Pizzano, in Treccani.it – Enciclopedie on line, vol. 31
[4] M. G.Muzzarelli, Un’italiana alla corte di Francia: Christine de Pizan, intellettuale e donna, Bologna, Il mulino, 2007