A Messina… con breve appendice in Campania
di Rocco Boccadamo
Tra gli innumerevoli posti in cui ho vissuto, Messina si identifica con uno dei miei pochi “luoghi dell’anima”.
Correva il gennaio 1966, non avevo ancora compiuto venticinque anni, quando, dopo la breve esperienza lavorativa vissuta a Firenze, mi toccò di mettermi nuovamente in moto, da Taranto verso la Sicilia, precisamente in direzione della città di Messina, dove ero stato appena trasferito.
Invero, quanto a itinerario meramente geografico, si trattava di un ritorno nell’Isola, giacche, c’ero già stato e l’avevo, almeno in parte, visitata, nell’aprile 1964, durante il viaggio di nozze.
Non rammento più se ebbi a ripercorrere il tragitto, sempre in treno, di giorno oppure in orario notturno.
Sia come sia, guadagnai, carico di sana ansia, il binario terminale sullo Stretto e, rivissuta, a breve distanza temporale rispetto alla prima esperienza, la veloce emozione del traghettamento del mitico braccio di mare, sbarcai nel capoluogo peloritano, mi sistemai con i miei bagagli in un modesto albergo, appositamente prenotato nei pressi del porto e, quindi, mi presentai al direttore della nuova filiale della banca cui ero stato destinato.
Questi mi fece conoscere i suoi diretti collaboratori, precisandomi che avrei svolto il ruolo di “segretario” (adesso si è soliti dire “assistente”) del condirettore Arcidiacono, e poi, mi affidò al responsabile dell’ufficio del personale, per un giro di primo contatto e conoscenza con tutti i colleghi della sede messinese e, da ultimo, per la “consegna” al capo servizio dell’ufficio Segreteria, dove avrei preso ad operare.
Lì, seppi subito che il mio repentino spostamento da Firenze a Messina era stato originato dalle dimissioni senza preavviso di un collega isolano, Mimmo Anastasi, al pari di me esperto del settore amministrativo/creditizio, il quale, improvvisamente, aveva scelto di lasciare la banca e di intraprendere l’attività di docente di discipline tecniche/contabili/finanziarie in un Istituto d’istruzione superiore della città.
A parte il funzionario preposto, Vincenzo Brigante, componevano la Segreteria Enrico Petitto e Cesare Pontorno, miei omologhi, assistenti dei due vicedirettori settoristi, la signora Giuseppina Trinchera, la signora Maria Giorgianni. che si occupava delle posizioni in contenzioso, le signorine Silvana Tomaselli e Maria Rosa Capillo, e, infine, Michele Veninata, il quale disbrigava le richieste e l’aggiornamento delle informazioni.
Giovane, ancor più di me e di tutti, simpatica, affabile e gioviale, in particolare, Silvana Tomaselli: con lei, e con Cesare Pontorno, strinsi immediatamente amicizia.
Nel giro di pochi giorni, Cesare, sapendo che vivevo da solo in albergo, mi fece, anzi, un’inattesa e gradita proposta: andare ad abitare in casa sua, insieme con lui c’era la madre, dove sarei potuto restare fino a quando non avessi reperito un appartamento e mi fosse stato, quindi, dato di ricongiungermi con mia moglie e il nostro figlioletto.
Fui molto contento della soluzione prospettatami e l’accolsi subito, a patto, però, di contribuire alle “spese”, almeno quelle vive, correlate al mio soggiorno e mantenimento in casa Pontorno.
Siffatto positivo sbocco mi addusse anche un ulteriore vantaggio indicativo e importante, dal momento che Cesare possedeva un’utilitaria, con uno strano marchio di fabbrica tedesco, “Goggomobil”, e, perciò, facevo comodamente su e giù, insieme con lui, fra domicilio e luogo di lavoro.
Inoltre, avevo agio di usufruire di alcune piacevoli scampagnate, il sabato o la domenica, sui Colli o lungo le Riviere.
Pur con il pensiero che sovente si dipartiva immancabilmente in direzione dei miei cari, soprattutto Annunziata e Pier Paolo, era in fondo bello il risveglio, il mattino, in quella ospitale dimora di via G. Pepe, minuscola traversa di via Palermo, dove l’amabile signora Elena allestiva la prima colazione, magari col sottofondo radiofonico di qualche canzone dell’epoca – mi sovviene, per citare, “Non ho l’età” interpretata da Gigliola Cinquetti – e chiedeva al figlio di darle qualche idea per i pasti di mezzogiorno e della sera (Cesare, talvolta, si lamentava con la genitrice, perché, secondo lui, presentava a tavole molte “erbe”, dispregiativo scherzoso di verdure, quando, al contrario, la “pensione” tra quelle pareti domestiche era, a mio avviso, del tutto soddisfacente).
Ricordo che, durante la parentesi da ospite nella casa del collega, mi beccai una fastidiosa otite, per uno o due giorni rimasi prudenzialmente a letto, amorevolmente assistito, quasi come figlio, dalla signora Elena e pure da una sorella di Cesare, la quale, sposata e domiciliata stabilmente nel nord Italia, era ritornata, per un breve periodo, a Messina. Cesare mi diede anche modo di conoscere la famiglia che abitava al piano sottostante, i Tomasello, genitori ambedue insegnanti, una figlia, Eliana, e due figli (uno di loro, a distanza di alcuni decenni, sarebbe diventato niente poco di meno che Rettore dell’Ateneo peloritano).
E, pure, un suo cugino, Pippo, il quale, nonostante vivesse a Enna, saltuariamente si portava a Messina e, spesso, integrava l’equipaggio della “Goggomobil” nei giri dentro e fuori la città (con emozione, ho rivisto Pippo, beninteso un Pippo “cambiato”, un anno fa, in occasione di un mio breve ritorno in Sicilia, ancora una volta ospite di Cesare, dalle parti degli incantevoli luoghi del Commissario Montalbano, fra Scicli, Vittoria e Comiso).
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Riguardo alla mia vita da bancario, nel novero delle prime esperienze messinesi, mi viene di soffermarmi su quella attinente a un’iniziativa imprenditoriale che era da poco sorta in una cittadina della provincia, Patti, una fabbrica di caramelle e di altri prodotti similari, la “Tyndaris Spa”.
Per quanti non ne fossero a conoscenza, ritengo opportuno annotare che Patti, oltre che come sede di tribunale, si contraddistingueva per aver dato i natali a un personaggio, Michele Sindona, emigrato, dopo la laurea, dalla Sicilia a Milano, ivi gradualmente vi è più affermatosi nel campo della finanza e già noto sia su scala nazionale, sia all’estero, anche per i suoi legami con determinati esponenti della politica, del governo e, pure, di altri non trascurabili ambiti.
In omaggio alla sua terra d’origine, Sindona aveva, un po’ di tempo prima, fondato, a Messina, l’omonima banca, un istituto locale di modeste dimensioni e, però, pur sempre un punto di potere e di influenza e, proprio nel periodo del mio arrivo, creato la prima richiamata industria nella sua località di nascita.
Il mio direttore, romano ancora giovane e quindi “in carriera”, teneva, naturalmente, a far bella figura alla guida della filiale messinese e, a tale scopo, fra il resto, spingeva sul versante dell’acquisizione di nuovi rapporti fiduciari (concessioni di affidamenti/linee di credito).
Venuto a conoscenza dell’inaugurazione della “Tyndaris spa”, volle subito visitarla, insieme con il condirettore Arcidiacono e con me, onde proporre di impostare una pratica, appunto, di affidamento. Gli interlocutori, è ovvio, si mostrarono interessati.
Perciò, già durante il viaggio di rientro a Messina, il direttore, incominciò, quasi, ad incalzarmi sulla predisposizione del relativo fascicolo, da inviarsi, poi, per l’approvazione, alla Direzione Centrale di Roma.
Una volta ritornato in ufficio, facendo capo, la medesima “Tyndaris”, ad azionisti non locali ma milanesi, secondo la normativa vigente, io, come adempimento iniziale, preparai e inviai una lettera alla consorella del capoluogo lombardo, chiedendo se, loro, intrattenessero rapporti con Michele Sindona e/o le sue aziende, fra cui, l’azionista di maggioranza della società neocostituita a Patti. Nel volgere di poco tempo, arrivò la risposta del Banco di Roma di Milano, secca e precisa: “presso di noi non esistono relazioni con il nominativo da voi indicato e nemmeno con attività a lui riconducibili; né prevediamo di allacciarne nel prossimo futuro”.
Guarda il caso, la missiva in questione recava, come seconda firma, quella del condirettore Vincenzo Piccioni, il quale, prima della sua assegnazione a Milano, aveva ricoperto il ruolo di direttore della filiale di Taranto, sede del mio esordio lavorativo, era stato proprio lui a farmi assumere.
Partì ugualmente, da Messina per Roma, la proposta di affidamento in favore della “Tyndaris” e fu accolta.
Pensare, quali e quanti eclatanti e devastanti sviluppi si sarebbero verificati negli anni e decenni successivi, a fianco del personaggio Sindona! Io, passato frattanto a operare presso altre unità della banca, non ho potuto sapere quale esito sortirono i rapporti specifici con la società “Tyndaris”, mentre, invece, sono venuto a conoscenza degli sviluppi occorsi in capo alla Banca di Messina, la quale, in un dato momento, finì col passare sotto il diretto controllo dell’Istituto in cui lavoravo, vale a dire il Banco di Roma.
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Successivamente al mio arrivo a Messina, nella seconda metà di gennaio 1966, solo una volta, nel fine settimana, feci ritorno a Taranto e, da lì, anche a Marittima, per rivedere mia madre sempre più gravemente ammalata, fino a quando, trovato in affitto un appartamento, potetti organizzare il definitivo trasferimento famigliare a Messina, incluso il trasporto delle masserizie.
Per l’esattezza, il 29 aprile, giorno successivo alla festa patronale di San Vitale nel mio paesello, partì di buon’ora da Taranto il furgone della ditta Piersanti e, contemporaneamente, a bordo di una autovettura Fiat 600 usata, si mosse anche la famiglia Boccadamo, compresa mia suocera, sistemata sul sedile posteriore accanto alla carrozzina con, all’interno, Pier Paolo. Il veicolo era sovraccaricato da un portabagagli con valigie e borsoni vari.
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Qualche nota, descrittiva sebbene approssimativa, stesa al presente storico a beneficio di un più vivace e immediato racconto, sulle bellezze paesaggistiche, e naturali in genere, man mano incontrate, sulle tappe e su alcuni gesti e atti di pratica umanità esistenziale eseguiti lungo l’itinerario – 491 chilometri tra Taranto e Reggio Calabria – a cavallo della Strada Statale 106 Jonica (all’epoca, non esisteva l’autostrada “Salerno – Reggio Calabria”). Sosta numero uno, a Rossano Scalo, appena dopo l’antica Sibari, presso un distributore forse Agip o forse Esso, per un caffè, quando si è da poco fatto giorno e Pier Paolo dorme nella sua carrozzina.
A seguire, la sfilata, in progressione, delle località, maggiormente indicative, di Cariati, Cirò Marina e della cittadina di Crotone, quest’ultima rievocante in un lampo, nella mente del guidatore, il periodo di servizio militare trascorsovi, a cavallo della fine della Seconda Guerra Mondiale, dal proprio zio Vitale.
Dopo Crotone, con l’arteria che, per un tratto, si incurva nell’entroterra, ecco il paese di Cutro, la cui visione produce uno strano effetto per via dell’isolamento in un comprensorio di altopiani e avvallamenti, salvo che, dopo, superando una serie di tornanti a scendere, la strada si riporta verso e nelle vicinanze della costa.
Quindi, se ne ripassano le indicazioni e le ormai vaghe immagini e reminiscenze, i centri di Botricello, Cropani Marina e Sellia Marina.
Nelle vicinanze, intorno alle dieci antimeridiane, altra fermata su una piazzola della Statale 106 – meno male che, in quei tempi, il traffico automobilistico è assai ridotto rispetto alle dimensioni attuali – per una sostanziosa poppata del piccolino.
Scorrendo ancora la successione, Copanello e Caminia, affiancate da alti costoni rocciosi di vero incanto, Soverato Marina, Monasterace Marina, Riace Marina.
Un indicativo dettaglio inerente a detta ultima località: nel 1966, non è ancora avvenuto il ritrovamento dei famosissimi Bronzi di Riace (succederà, com’è noto, il 16 agosto, casualmente nel giorno del mio onomastico, del 1972) e, quindi, le loro gigantesche statue giacciono, ignorate da millenni, nei fondali contermini.
A prescindere da ciò, tuttavia, i viaggiatori di quel fine aprile, attraverso i finestrini della Fiat 600, restano letteralmente estasiati dalle meravigliose distese di sabbia fine e bianca, qua e là cosparsa da minuscoli sassolini anch’essi candidi.
Il percorso si avvia alla fase conclusiva, si succedono Roccella Ionica, Marina di Gioiosa, Siderno, Locri, Bovalino, Bianco, Melito di Porto Salvo. Avanti di raggiungere Reggio Calabria, terza sosta per somministrare ancora alimenti a Pier Paolo.
Tra il capoluogo reggino e Villa San Giovanni, porto di partenza del traghetto, si verifica, purtroppo, un imprevisto: l’acqua del radiatore della vetusta autovettura va in ebollizione, perciò sosta forzata all’altezza di un’abitazione privata e richiesta di soccorso, sotto forma di una provvidenziale scorta liquida.
Tranquillo, per fortuna, grazie a una distesa sostanzialmente calma, l’attraversamento dello Stretto e rapido anche l’arrivo, intorno a metà pomeriggio, sotto la nuova abitazione di Messina, in via Torrente Trapani, seguito, a breve distanza di tempo, dal grosso furgone della ditta Piersanti.
Gli autisti/operai, nell’arco fino al crepuscolo e durante la mattinata successiva, completano il trasloco in casa e il rimontaggio delle masserizie e dei mobili.
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Così come, grazie a Cesare, era successo all’atto del mio iniziale arrivo, anche in occasione del trasferimento vero e proprio nella città di Messina, fui fortunato, mi andò bene, giacché l’appartamento in cui andai a sistemarmi con i miei cari era di proprietà di un costruttore edile, Rosario Parisi, il quale, a sua volta, risiedeva nell’ unità abitativa attigua, insieme alla moglie Melina e ai giovani figli Graziella, Nino e Gianni. Su un versante del medesimo pianerottolo, due porte d’ingresso, poste l’una accanto all’altra. Ci accolsero con grande cordialità e calore, i Parisi, in breve giunsero a considerarci di famiglia, ci aiutarono a inserirci nella nuova residenza cittadina, in particolare, da subito, si affezionarono al piccolissimo Pier Paolo, il quale, crescendo e iniziando a camminare, diventò, poi, proprio di casa in casa loro. Legami intensi, stretti e sinceri, tanto che, a suo tempo, abbiamo partecipato ai matrimoni dei giovani e, ancora adesso, a distanza di mezzo secolo, siamo in contatto con Graziella, memori, anche, della circostanza che, al compimento della maggiore età, nell’estate 1968, lei ebbe, dal padre Rosario, il permesso di trascorrere, insieme con noi, un periodo di vacanza in montagna, nel Cadore, esattamente a Sappada.
Io e mia moglie, l’abbiamo rivista quattro o cinque anni addietro, a Cosenza, in occasione del matrimonio del suo primogenito Fulvio e sappiamo che, nel frattempo, è diventata, anche lei, nonna. La domenica mattina, ero solito caricare Pier Paolo sulla Fiat 600, condurlo sui Colli Peloritani in località San Rizzo e trascorrere insieme una parentesi fuori dal traffico, immersi nell’ara buona delle pinete, fino all’ora di pranzo. Nel rientrare a casa, ogni tanto, cambiavo itinerario e costeggiavo i laghi di Ganzirri.
Quanto al mio lavoro, nell’aprile 1966, poco prima che mi raggiungessero a Messina Annunziata e Pier Paolo, ero stato gratificato con la promozione da impiegato a vicecapo ufficio, con il salto del primo gradino di carriera, ossia a dire capo reparto, perciò un avanzamento non comune. Ero felice di notare come i colleghi, nonostante la mia giovanissima età, mi guardassero generalmente con ammirazione, salvo sparute figure con segni di malcelata invidia.
Il 3 luglio 1966, purtroppo, cessò di vivere la mia povera mamma.
Alcuni giorni prima ci eravamo precipitati a Marittima, ma non so se lei sia riuscita a riconoscere il nipotino che aveva tenuto a battesimo e, in occasione del Natale precedente, preso amorevolmente tra le braccia.
Per me è stata, e per sempre rimarrà, la persona più cara, una donna dolcissima, unica.
Rientrammo a Messina con un vuoto immenso.
Appena un’iniziativa di svago in quell’estate, un breve viaggio in motonave a Vulcano, era una domenica bellissima ma calda. Mentre ci trattenevamo in un angolo di spiaggia all’ombra, subito dopo pranzo ci accorgemmo che il piccolo Pier Paolo, di tredici o quattordici mesi, era diventato tutto rosso e sembrava avesse la febbre alta: al che, fu una corsa per cercare di ritornare a Messina col primo mezzo che partiva, per contattare telefonicamente il pediatra e poi fargli visitare il piccolo.
Dallo specialista, volò qualche rimbrotto all’indirizzo dei giovani genitori imprudenti, ma fortunatamente, le condizioni di Pier Paolo si normalizzarono nel volgere di poche ore.
Arrivarono le prime festività natalizie messinesi, compresa la Befana della Banca (6 gennaio 1967), con Pier Paolo tra i più piccoli dei figli dei dipendenti e, perciò, festeggiato e coccolato.
Di lì a poco, stanco delle avarie della Fiat 600, a cominciare dall’ acqua del radiatore che andava in ebollizione, decisi di compiere un importante passo, sostituendo, cioè, quell’ autovettura con una Fiat 500 fiammante, acquistata dalla ditta Giuseppe Foti di Milazzo, rivenditore autorizzato Fiat e officina meccanica, immatricolata, e a tutt’oggi targata, LE 74310.
Quanti viaggi lunghi in “500”, si succedettero da Messina a Taranto e Marittima, con a bordo due coniugi, un figlioletto (a un certo punto, due), la zia Anna più i bagagli, sette ore per i 491 km tra Reggio Calabria e Taranto!
Oltre agli spostamenti in città e a brevi percorrenze fuori.
Divenne un classico, una volta che il bambino incominciò a parlare, l’ordinazione di Pier Paolo al gestore della stazione di servizio: “500 e 500 (lire)”, volendo dire metà benzina normale e metà benzina super.
Notare che quel rifornimento bastava per una settimana.
In aggiunta alla mia prestazione lavorativa abituale e prevalente nell’Ufficio Segreteria, d’estate, ero coinvolto in temporanei distacchi per sostituire qualche elemento delle Agenzie di città o il collega, Santino Carippo, addetto alle visite settimanali alla clientela affidata che aveva sede in provincia, una cinquantina di operatori, fra Villafranca Tirrena, Milazzo, Barcellona P.G., Patti e Sant’Agata di Militello.
Mi piaceva compiere quel giro, vedere di persona e intrattenermi con gli utenti, si trattava di un vero e proprio servizio bancario a domicilio.
Fra i clienti in questione, ricordo specialmente la ditta Giuseppe Foti (quella della 500 nuova) e la ditta Buccafusca Francesco di Vincenzo Buccafusca (legnami) di Milazzo, Nicotina Vittorio di Santa Lucia del Mela (fabbrica dolciumi), Gemelli, concessionaria Fiat di Barcellona Pozzo di Gotto e varie fabbriche di laterizi (o fornaci), nella zona di Villafranca Tirrena e Spadafora.
I nominativi visitati, oltre a consegnarmi assegni, effetti cambiari e documenti rappresentativi di esportazioni, saltuariamente mi donavano piccoli quantitativi di limoni o di ortaggi e verdure.
Per la breve pausa pranzo, facevo abitualmente capo a un ristorante di Milazzo sul lungomare, dove ordinavo linguine al nero di seppia e un pescetto per secondo.
Nell’effettuare il giro in discorso, il mattino, con l’intento di incontrare meno traffico, transitavo dal Colle San Rizzo e Gesso (sui Peloritani), la sera invece, anche perché avevo con me valori, dalla strada nazionale litoranea.
Nel settembre 1968, la Direzione Centrale della banca, che doveva evidentemente conservare e tenere evidenza le carte (mia dichiarata disponibilità a eventuali spostamenti, anche all’estero), mi propose di trasferirmi in Libano, presso la filiale di Beirut, con l’avanzamento gerarchico a Capo ufficio, il livello più alto della categoria impiegatizia; stabilì pure che, avanti di partire per quella destinazione, avrei dovuto trascorrere un periodo di sei mesi in missione di completamento addestrativo nella sede di Napoli.
A quella notizia, rimasi con un po’ di amaro in bocca, giacché, con un cambiamento così straordinario, mi sarei aspettato il passaggio a Funzionario di procura.
Di primo acchito, non dissi né sì, né no, ma, ad ogni modo, chiesi di recarmi a Roma per parlare con il Direttore Centrale Capo del personale.
Fui ricevuto e, però, l’alto esponente mi rispose, senza giri di parole, che, intanto, sarei dovuto partire nei termini e alle condizioni proposte; successivamente, sulla base dei giudizi espressi dal direttore della filiale di Beirut, la Direzione Centrale avrebbe potuto valutare l’eventuale nomina a funzionario.
Pur non del tutto convinto, e nonostante nel Libano ci fosse una situazione politica e sociale non proprio stabile e tranquilla, dichiarai di accettare e me ne tornai a casa.
Giusto in quel periodo, mia moglie rimase nuovamente incinta.
Nel successivo ottobre, dunque, io partii per Napoli e, contemporaneamente, Annunziata e Pier Paolo si spostarono, per la seconda volta, nella casa dei miei suoceri, a Taranto.
Nel capoluogo campano, potendo contare, come a Firenze, su una diaria risicata, presi alloggio in un albergo centrale e però mal ridotto, ottenendo quindi una tariffa non proibitiva.
Per il pranzo, in virtù dei buoni uffici interposti dal collega Ettore d. S., figlio di un generale dell’esercito in pensione, potetti fortunatamente appoggiarmi alla mensa del Circolo ufficiali in Piazza del Plebiscito (nelle vicinanze della banca), la sera, invece, mi arrangiavo con qualche alimento freddo.
Il venerdì pomeriggio prendevo il rapido Napoli – Taranto, via Potenza, cenando, a bordo, sistematicamente con una confezione di “Pavesini”, per poi compiere, la domenica sera, la medesima tratta a ritroso.
Il 31 dicembre 1968, giorno infrasettimanale, restai a Napoli e, attraverso le vetrate dell’albergo, fui testimone, quasi dal vivo, dei mitici botti di Capodanno, autentiche eruzioni e cascate di petardi e fuochi di tutti i generi.
L’ultima fase della missione semestrale, anziché nel capoluogo partenopeo, fui chiamato a svolgerla presso la filiale di Salerno.
In quel periodo, preoccupato per il peggioramento della situazione in Libano e avviandosi a compimento la gravidanza di Annunziata, volli recarmi nuovamente a Roma e feci presente che non mi sentivo più di trasferirmi a Beirut con mia moglie, il mio primo figlio e l’altro in arrivo; restavo, semmai, disponibile a raggiungere la nuova destinazione da solo.
Fu accolta male e, a ogni modo, non fu accettata, la mia presa di posizione, e, conseguentemente, dovetti insistere molto per ottenere di essere rimandato presso la filiale di provenienza e stare vicino a mia moglie che era sul punto di partorire.
Alla fine, il Capo servizio del personale mi disse “va bene, il direttore di Messina la sta aspettando”.
Io, così rassicurato, riconquistai il mio pregresso posto di lavoro, seguito, però, da una dura lettera della Direzione Centrale; nell’accennarmene, il bravo, da poco arrivato, direttore di Messina, Giuliano Fattori, soggiunse di suo, sorridendo: “Caro Boccadamo, bisogna lasciar decantare le cose”. Il 23 giugno 1969, nel pomeriggio, in una clinica di Messina, nacque Imma e, però, io non sentii subito i suoi primi vagiti, trovandomi, al solito, in banca, a lavorare.