Il provino di Orazio
di Mario Pintacuda
Lui, forse, neanche ci voleva andare. Erano stati due suoi amici, Vario Rufo e Virgilio, a spingerlo, a tentare di convincerlo. Del resto, aveva poche alternative. Aveva le “ali cadute” (“decisis… pinnis”, “Epistole” II 2, 5): a soli 27 anni, forse ancora neanche compiuti, aveva già fatto delle scelte che si erano rivelate del tutto sbagliate (ma del resto, quando si è giovani, quante sciocchezze si fanno…).
Ora eccolo lì, nell’anticamera del grande Mecenate, in attesa di parlargli. Lo aspetta un vero “provino” con quell’insigne cavaliere etrusco, uomo di antica nobiltà, scelto da Augusto come suo “promotore culturale”: una specie di ministro della cultura, con un talento straordinario nell’individuare i migliori ingegni, nel “fiutarli”, nell’inserirli nel nuovo grande progetto.
Il guaio è però che lui contro Augusto (che allora era soltanto Ottaviano, figlio adottivo di Cesare e suo erede) ci aveva pure combattuto pochi anni prima, a Filippi. Questa era stata la grande sciocchezza che aveva fatto: figurarsi se ora potevano perdonargli questo errore di gioventù…
Era teso, nervoso, ansioso. Virgilio e Vario glielo avevano detto e ripetuto: abbiamo parlato di te a Mecenate, ti ha dato un appuntamento, parlerà con te; se fai colpo, entrerai anche tu in questo circolo esclusivo, sarà la svolta della tua vita.
Veri amici: soprattutto Virgilio, che aveva conosciuto quando studiava filosofia a Posillipo alla scuola dell’epicureo Sirone; il mantovano era timido, schivo, aveva una vocina debole e sottile, una specie di Mario Giordano dell’epoca (chissà quanti Fedez lo sfottevano…); ma le sue “Bucoliche” erano apparse subito un capolavoro e gli avevano fruttato la “chiamata” nel circolo di Mecenate.
E lui poteva aspirare ad entrare a sua volta in quel circolo esclusivo?
Ripassava mentalmente il discorsetto che si era preparato. Se avessero già inventato la Bohème, avrebbe potuto dire così: «Chi son? Sono un poeta. / Che cosa faccio? Scrivo. / E come vivo? Vivo».
In quei momenti di ansiosa attesa, ripensò agli anni passati, a quella che era stata fino a quel momento la sua vita.
Succede, quando viviamo un momento decisivo: l’esame di maturità, il primo appuntamento d’amore, il primo colloquio per avere un lavoro. Ci passano davanti tutti i nostri anni, per ricordarci chi siamo e che cosa vogliamo.
Quinto Orazio Flacco era nato a Venosa, in Apulia. O forse era in Lucania? Non lo sapeva neanche lui: «Lucano o Pugliese, mezzo mezzo» (“Lucanus an Apulus anceps”, “Satire” II 1, 34).
Era di umili origini: suo padre era un liberto, che in paese possedeva un piccolo fondo agricolo (qualcuno malignò che fosse anche un “salsamentarius”, cioè un salumiere) e aveva raggiunto una certa agiatezza.
Ci sono padri che si sentono in dovere di “decidere” l’avvenire dei figli. A volte prendono anche cantonate terribili, si immaginano i figli a propria immagine e somiglianza, si sovrappongono e si sostituiscono a loro.
Ma questo padre agli occhi di Orazio fu sempre un uomo straordinario: infatti non aveva voluto che il figlioletto crescesse a Venosa, dove i pregiudizi sociali erano molto sentiti, né che frequentasse la scuola locale del maestro Flavio, ove si recavano superbi i “grandi figli nati dai grandi centurioni”.
E dunque padre e figlio (della madre non sappiamo niente) si erano trasferiti a Roma; qui il genitore aveva svolto la lucrosa e impopolare attività di esattore nelle aste pubbliche (“coactor actionum”).
Il piccolo Orazio era stato mandato anzitutto alla scuola del terribile e severissimo grammatico beneventano Orbilio; del resto “nomina sunt omina” e infatti Orbilio dava “botte da orbi” ai suoi alunni svogliati, dimostrandosi “plagosus”, manesco (“Epistole” II 1, 70).
Qualche anno dopo, per completare la sua formazione culturale, sempre grazie a quel sant’uomo di suo padre, Orazio poté fare quello che facevano i giovani di buona famiglia: era andato ad Atene a studiare filosofia, aveva ascoltato le lezioni del filosofo peripatetico Cratippo e dell’accademico Teomnesto.
Ma Atene gli aveva teso la facile trappola in cui possono cadere i giovani.
Cantarono per lui le sirene dell’incandescente lotta politica: in oriente si erano rifugiati gli uccisori di Cesare, con a capo Bruto e Cassio, che raccoglievano truppe per combattere i nuovi triumviri (Antonio, Ottaviano, Lepido). La propaganda dei cesaricidi aveva fatto facile breccia nell’animo del giovane Venosino, finora “troppo inquadrato”, troppo ubbidiente, troppo figlio di quel padre, e ne aveva stimolato lo spirito “trasgressivo”; così si era arruolato nell’esercito ribelle, ricoprendo persino la carica di “tribunus militum”.
Poi però a Filippi in Macedonia, nell’ottobre del 42 a.C., era andato tutto storto; nel momento della sconfitta se l’era pure data a gambe, abbandonando ingloriosamente lo scudo in battaglia, proprio come l’antico poeta Alceo: «Conobbi la veloce fuga di Filippi, / dopo aver abbandonato lo scudo; e non fu una bella cosa» (“Philippos et celerem fugam / sensi relicta non bene parmula”, Odi II 7, 9-10).
Insomma, era stato dalla parte sbagliata nel momento sbagliato.
Era tornato a Roma disfatto, deluso, disilluso. E suo padre, forse, non c’era più. Era la peggiore situazione possibile: all’origine sociale umile si aggiungeva la recente disastrosa adesione al partito dei perdenti. Nel frattempo il terreno di suo padre a Venosa era stato confiscato ed assegnato ai veterani, mentre ogni speranza di carriera politica – già problematica per un “homo novus” come lui – appariva stroncata.
Davvero aveva ormai “le ali spezzate”.
Per sopravvivere, si era trovato un impieguccio come segretario di un questore (“scriba quaestorius”), era diventato una specie di ragioniere scribacchino, si era occupato di banali problemi amministrativi e finanziari. E i suoi versi? Le sue prime poesie? Sogni, sogni soltanto, che cozzavano contro una realtà cupa. Lo consolava la filosofia: era diventato epicureo sentendo le lezioni di Sirone a Posillipo e di Filodemo ad Ercolano.
Ne aveva anche maturato un progressivo distacco dall’impegno politico (“vivi nascosto”, “làthe biōsas”, diceva Epicuro); tanto più che a Roma ormai Augusto stava fondando un impero senza farlo capire ai cittadini, trasformandoli in sudditi senza che se ne accorgessero (succede, sapete? succede spesso, può succedere ancora…).
Almeno fosse stato di bell’aspetto: macché! Molti secoli dopo, un professore di un liceo palermitano, per fare “visualizzare” ai suoi alunni il suo aspetto, lo avrebbe paragonato a Lino Banfi.
Del resto, era colpa sua: si era descritto “grasso, lucido, con la pelle ben curata”, un vero “porcello del gregge di Epicuro” (“Me pinguem et nitidum bene curata cute vises, / cum ridere voles, Epicuri de grege porcum”, “Epistolae” I 4, 15-16); aveva detto di essere basso ed abbronzato: “Di corpo piccolo, con i capelli precocemente grigi, abbronzato dal sole” (“corporis exigui, praecanum, solibus aptum”, “Epistolae” I 20, 24).
Per di più, era mezzo pugliese. Insomma, Lino Banfi preciso: bello no, ma simpaticissimo.
Ora, in quel giorno del 38 a.C., Quinto Orazio Flacco da Venosa, Lino Banfi preciso, emozionatissimo, angosciato, sudando freddo e ripetendo mille volte nella mente il suo discorsetto, attendeva il “provino” che avrebbe deciso la sua vita.
Chissà se attese a lungo in una sala d’aspetto, magari sentendo la vocina di Virgilio che lo incoraggiava. Chissà se invece Mecenate arrivò prima del previsto, dando inizio al cordiale colloquio.
Comunque sia, Orazio quel “provino” non se lo dimenticò mai.
Alcuni anni dopo, lo raccontò così, rivolgendosi a Mecenate: «Quel brav’uomo di Virgilio, e Vario dopo di lui, ti hanno detto che cosa io fossi (“dixere quid essem”). Quando ti venni davanti, dissi poche cose a singhiozzi (“singultim pauca locutus”); un muto pudore (“infans… pudor”) infatti mi proibiva di dire di più; non ti racconto di essere nato da un padre famoso, non ti dico di essere portato in giro da un cavallo di Taranto (uno di quelli di lusso…). No. Ti dico quello che ero (“quod eram narro”), Mi rispondi, come è tua abitudine, con poche parole (“respondes, ut tuus est mos, / pauca”); me ne vado via (“abeo”)» (“Satire” I 6, 54-61).
Insomma, era stato un disastro: Orazio era riuscito solo a balbettare confusamente “poche cose”, quasi “a singhiozzi”; ammesso che avesse preparato la presentazione di alcuni suoi versi o che si fosse organizzato un discorsetto adatto alla situazione, non era riuscito a biascicare altro che qualche parola smozzicata, inchiodato da quel “pudor” diventato “in-fans”, cioè incapace di produrre suoni articolati.
Una cosa, però, era riuscito a dirla.
Forse a singhiozzi, forse in modo contorto e frammentato, ma l’aveva detta: “dico quello che ero”, “quod eram narro”. Insomma, aveva detto la verità su di sé, non si era mimetizzato, non aveva mentito in nulla, non si era presentato in modo artificiosamente perfetto.
Lo aveva detto chiaro e tondo, a Mecenate: sono figlio di un liberto, mio padre non è un uomo famoso, non sono ricco. “Quod eram narro”.
Quante ragazze e ragazzi, oggi, quando affrontano “provini” di vario tipo (per un colloquio di lavoro, per entrare nel mondo dello spettacolo, per ottenere qualche incarico ritenuto di prestigio, per entrare in politica), tendono a dare di sé un’immagine artefatta, “costruita”, idealizzata: “sono solare”, dicono spesso (e magari sono gli individui più lunatici al mondo), “sono una bella persona” (autovalutando quello che dovrebbero valutare gli altri); e via millantando.
Orazio no: aveva detto le cose così come stavano, farfugliando e singhiozzando.
Non c’era da meravigliarsi che fosse uscito stanco e deluso. Vario e Virgilio, se erano rimasi lì in attesa, quando lo videro uscire, desolato e forse irritato, provarono a consolarlo: ma Orazio non si dava pace: ripensava a ogni singolo momento di quell’incontro così atteso e masticava amaro.
“Ma com’è andata? Che gli hai detto?”, gli avranno chiesto. E lui avrà glissato, convinto che le poche cose che era riuscito a dire avessero ulteriormente peggiorato la situazione.
Sì, al termine del colloquio Mecenate gli aveva risposto con poche cortesi parole (oggi si direbbe: “Le faremo sapere”), questo sì. Mecenate era una brava persona, discreta, educata. Ma era chiaro che non lo avrebbe mai richiamato; e forse non lo avrebbe rivisto più. Meglio andar via, tornare amaramente a casa: “abeo”, «me ne vado via».
Passano i mesi.
Nel suo ufficio di scribacchino Orazio seppellisce sempre più, ogni giorno che passa, i suoi sogni di gloria. A Mecenate non pensa ormai più. Quel maledetto “provino” è “rimosso” ormai dai suoi ricordi.
Eppure improvvisamente, “nove mesi più tardi” (un vero parto travagliato…), in uno di quei giorni magici che vengono a colorare di colpo il grigiore della nostra vita quotidiana, arriva un messaggio di Mecenate: «mi richiami nove mesi più tardi e comandi che io sia nel numero dei tuoi amici (“iubesque / esse in amicorum numero”)» (“Satire” I 6, 61-62).
Orazio finalmente capisce: «Io ritengo che sia una grande cosa questa: / sono piaciuto a te (“quod placui tibi”), a te che sai distinguere l’uomo onesto dall’uomo turpe / non per la nobiltà di suo padre, ma per la purezza della vita e dell’animo (“non patre praeclaro, sed vita et pectore puro”)» (“Satire” I 62-64).
È fatta. Nel circolo di Mecenate Orazio si inserirà ottimamente; con Mecenate, in particolare, nascerà un’amicizia duratura e profonda; e da quei trent’anni di attività nasceranno grazie al poeta venosino capolavori assoluti di poesia.
Nel 33 a.C. Mecenate gli donerà anche una villetta con un piccolo fondo agricolo in Sabina, nella valle della Digentia (affluente dell’Aniene), a 45 km ad est di Roma: il più bel regalo che si possa fare a un amico è quello che davvero lo può rendere felice (Orazio adorò quell’angolo – “angulus” – di paradiso e non ci volle rinunciare mai).
Mecenate morì nell’8 a.C, raccomandando Orazio ad Augusto: «Ricòrdati di Orazio Flacco come di me» (Horati Flacci ut mei esto memor”dalla “Vita” scritta da Svetonio).
Due mesi dopo la morte di Mecenate, il 27 novembre, anche Orazio morì. Si realizzava così una sua antica profezia: a Mecenate, che si doleva di una sua malattia, Orazio aveva scritto che né lui né gli dèi volevano che l’uno morisse prima dell’altro, per cui la stessa giornata sarebbe stata l’ultima per entrambi (“ille dies utramque / ducet ruinam”, Ode II 17, vv. 8-9).
Così vivono insieme, così muoiono insieme i grandi amici.
P.S.: Orazio morì solo; come Virgilio, non si era sposato mai: alla faccia della propaganda augustea in favore del matrimonio…
Mario Pintacuda
Nato a Genova il 2 marzo 1954. Ha frequentato il Liceo classico “Andrea D’Oria” e si è laureato in Lettere classiche con 110/110 e lode all’Università di Genova. Ha insegnato nei Licei dal 1979 al 2019. Ha pubblicato numerosi testi scolastici, adottati in tutto il territorio nazionale; svolge attività critica e saggistica. E’ sposato con Silvana Ponte e ha un figlio, Andrea, nato a Palermo nel 2005.