7 Ottobre 1571: la battaglia di Lepanto
450 anni fa lo scontro che mutò gli equilibri nel Mare Mediterraneo
di Eliano Bellanova
Il patema maggiore per le potenze continentali del 1500 è costituito dalla preponderanza delle forze navali turche nel Mediterraneo. Le più grandi potenze dell’epoca, la Spagna e l’Impero, affrontano più volte il problema turco, per terra e per mare. Sia Carlo V, sia il successore e figlio Filippo II, sia il neo-Imperatore del Sacro Romano Impero, Ferdinando (fratello di Carlo V), si trovano al cospetto di un avversario ostico e indecifrabile, subdolo e, contemporaneamente, agguerrito e potente: l’Impero Ottomano, che nel 1453 aveva sostituito il millenario Impero Romano d’Oriente, dopo la conquista di Costantinopoli, che da quell’epoca assume il nome di Istanbul.
Filippo II di Spagna intende tenere sotto controllo il Mediterraneo, comprese le coste tunisina e algerina. Nel 1560 la flotta spagnola subisce però una sconfitta, che mette in pericolo il dominio mediterraneo da parte di Filippo II. Gli viene in soccorso la Santa Sede, poiché Papa Pio V non è soltanto il padre spirituale del mondo cattolico, ma un vero e proprio uomo politico. Egli costituisce infatti la Lega Santa, alla quale aderiscono la Spagna stessa, la Repubblica Marinara di Genova, la Repubblica Marinara di Venezia, il Ducato di Savoia, il Regno di Napoli e di Sicilia, lo Stato della Chiesa, il Granducato di Toscana, la Repubblica di Lucca, il Ducato di Mantova, il Ducato di Urbino, il Ducato di Ferrara e i Cavalieri di Malta.
Il Comandante della flotta turca è l’Ammiraglio Alì Mehemet Pascià, il quale gode di ottima reputazione più come uomo politico che come uomo d’armi. Ha compiuto da poco 50 anni ed è ritenuto invincibile e audace. Reca sempre con sé in un’ampolla di cristallo il dente destro di Maometto, che funge da cimelio e “protezione divina”.
La sua figura di “manager” ante-litteram si distingue nella scelta dei reali capitani in mare: Uluch Alì, Khara Kodja e Mehemet Shoraq. Secondo alcuni storiografi Uluch Alì sarebbe stato un contadino calabrese, che aveva subito il fascino di Maometto, fino alla conversione all’Islam. Diviene in seguito anche Governatore (Bey) di Algeri. Shoraq assumerà la direzione della signoria di Alessandria d’Egitto, mentre Khara Kodja si distingue sempre negli arrembaggi e nella guerra di pirateria navale e gode fama di capitano deciso, impavido e coraggioso.
Il Comandante delle forze navali cristiane è il giovanissimo Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V di Spagna e Barbara di Baviera. Dopo l’esordio nella carriera ecclesiastica, passa a quella militare, sua vera inclinazione e passione. A 25 anni è già Ammiraglio. Ha bruciato le tappe e a Lepanto è responsabile della Squadra Navale “alleata”: ha soltanto 26 anni. A lui si affianca uno sperimentato uomo di mare, dal grande ascendente e dall’indiscutibile carisma. Non è un giovanissimo, ha compiuto il settantacinquesimo genetliaco ed è Duca di Candia e “General de Mar” della Serenissima: Sebastiano Venier.
Il terzo Comandante è invece proveniente dai quadri pontifici e appartiene alla nobiltà romana di prima scelta: Marcantonio Colonna. Marcantonio Colonna, uomo di grande equilibrio, deve mediare per evitare che i contrasti latenti fra l’irruento Don Giovanni d’Austria e l’autoritario e ruvido Venier sfocino in aperti litigi. Don Giovanni d’Austria diverrà poi Governatore delle Fiandre e scomparirà in giovane età. Gli arsenali navali più famosi sono all’epoca quello spagnolo di Barcellona e quello di Venezia. Essi giacciono nella cosiddetta “Darsena”, luogo in cui le navi si costruiscono e vanno in armamento.
Il termine “darsena” trae dall’arabo “dar as-sina”, che significa “casa o luogo della costruzione”. Il cantiere navale veneziano detiene il primato in Europa e, come si conviene a gente dalla vocazione mercantilistica, lavora anche a conto terzi, potendo usufruire di importanti distaccamenti (porti di Candia e Canea). Per le costruzioni navali dell’epoca il legname ricopre un ruolo di primaria importanza e i cantieri veneziani ne utilizzano allo scopo oltre 60 mila tonnellate annue.
I “legni” utilizzati sono provenienti dagli alberi di abete, quercia, noce, pioppo, olmo e faggio. I lavoratori degli arsenali sono classificati nella maniera seguente: calafati, maestri d’ascia, fonditori e calatori. Il calafato riveste un’importanza essenziale nella costruzione della nave: incatrama, rende impenetrabili alle acque le giunzioni, in sostanza rende “stagna” la nave.
I maestri d’ascia provvedono ai lavori gravosi annessi alla vera e propria costruzione della nave. I fonditori provvedono a fondere i materiali solidi in liquidi per unire le parti. I calatori, infine, procedono alla “calata”, ovvero alla discesa in mare della nave dopo la fine dei lavori (varo). Successivamente la nave affronta il collaudo, ossia le “prove in mare” e, quindi, va in armamento ed è inquadrata nella “squadra navale”.
L’arte navale sarà tramandata da padre in figlio, sicché si origineranno vere e proprie famiglie esperte di mare. Maestri e ingegneri navali saranno ambìti da altre nazioni, al punto che molti di loro andranno a lavorare in Turchia, con la promessa di più lauti guadagni. Tecnologicamente, però, le navi occidentali rimarranno sempre un gradino più su delle “colleghe” orientali (il Giappone soltanto saprà colmare il divario, in epoche successive) e ciò è evidente anche oggi.
La minaccia ottomana nel Mediterraneo diviene sempre più preoccupante. I turchi costituiscono una minaccia e una spina nel fianco della cristianità e delle potenze europee da non sottovalutare. L’Impero Ottomano si è infatti spinto fino ai Balcani mettendo in pericolo gli Stati dell’Europa centro-orientale. I popoli della cristianità hanno subito una serie di sconfitte militari, che hanno rivelato la superiorità dei giannizzeri e della cavalleria turca.
Lepanto rappresenta perciò una linea di “demarcazione” che passerà alla storia. Cipro rappresenta, a sua volta, una spina nel fianco per i turchi, che la sottopongono ad assedio. A Famagosta soltanto settemila veneziani, al comando di Marcantonio Bragadin, si oppongono a ben 20 mila turchi, diretti da Mustafà Pascià.
La lotta è senza esclusione di colpi. Ben 170 mila colpi di cannone e un numero imprecisato di mine sottopongono la fortezza ad un vero e proprio supplizio “martirizzante”. Il Capitano Roberto Malvezzi si sacrifica facendosi saltare in aria in un deposito sotterraneo con gli stessi turchi presenti sull’isola. La guarnigione veneziana subisce un vero e proprio massacro e resta con meno di settecento uomini. Mustafà Pascià offre la resa “onorevole”: incolumità, salvaguardia delle proprietà e onori civili e militari. Bragadin accetta le condizioni e si arrende elevando la bandiera bianca. Tuttavia i patti non sono rispettati: l’Intendente Tiepolo e il Generale Baglioni sono impiccati, mentre Bragadin subisce lo scuoiamento per una fine terribile.
I rimanenti, in parte sono tradotti in schiavitù, in parte uccisi. Dopo la stasi successiva alla Pace di Cateau-Cambresis del 1559, la lotta in Mediterraneo riprende cruenta, fino alla Battaglia di Lepanto, che ne costituisce il culmine. La Flotta cristiana si concentra a Messina e muove verso le coste elleniche al comando di Don Giovanni d’Austria, fratellastro di Filippo II di Spagna.
Le forze in mare sono costituite da 210 navi della Lega Santa che imbarcano 28.000 soldati, 12.920 marinai e 43.500 rematori. Gli avversari dispongono di 265 navi: 221 galee e 38 galeotte, il cui comando è nelle mani di Mehemet Alì Pascià. Le galee sono navi poliremi, misurano 40-45 metri di lunghezza e 7-8 di larghezza per una stazza di 400 tonnellate.
La tecnica di combattimento si basa essenzialmente su speronamento, arrembaggio e combattimento con archibugi e armi da fuoco. I galeoni (che appaiono per la prima volta nella battaglia) fungono da navi di rifornimento e trasporto. La battaglia di Lepanto, che gli abitanti del luogo denominano Efpaktos e i turchi Inebahti, è denominata anche delle Echinadi o Curzolari e fa parte dell’ampio quadro della Guerra di Cipro. La flotta della Lega è divisa in quattro “divisioni navali”: il “Corno Destro”, il “Corno Sinistro”, il “centro” (Battaglia) e l’armata di riserva (Soccorso).Il centro dispone di 28 galee e 2 galeazze veneziane, 15 galee spagnole e napoletane, 8 galee genovesi, 7 galee toscane e papali, 3 maltesi, 1 del Ducato di Savoia: complessivamente, 62 galee e 2 galeazze. Le comanda Don Juan de Austria (Don Giovanni d’Austria in persona).Venier (Venezia), Colonna (Santa Sede), Ettore Spinola (Genova) lo affiancano nel ruolo di comando.
Il “Corno Sinistro” dispone di 40 galee e 2 galeazze veneziane, 10 galee spagnole e napoletane, 2 galee toscane e pontificie, 1 genovese: complessivamente, 53 galee e 2 galeazze sotto la responsabilità del Provveditore Generale Agostino Barbarigo, omonimo del Doge di Venezia.
Il “Corno Destro” è costituito da 25 galee e 2 galeazze veneziane, 16 galee genovesi, 8 galee spagnole e siciliane, 2 del Ducato di Savoia, 2 toscane e papali: complessivamente, 53 galee e 2 galeazze, al comando dell’Ammiraglio genovese Gianandrea Doria.
Le “riserve” sono costituite da 30 galee (13 spagnole e napoletane, 12 veneziane, 3 toscane e pontificie e 2 genovesi) sotto la direzione dell’Ammiraglio Alvaro de Bazan de Santa Cruz. La perlustrazione avanzata è sotto il comando di Giovanni de Cardona: otto galee, equamente divise fra veneziane e siciliane. A bordo sono imbarcati 400 archibugieri, mentre le navi dispongono come armamento maggiore di 350 cannoni fra 14 e 120 libbre e di 2.750 piccoli pezzi, non superiori a 12 libbre.
La flotta ottomana è costituita da 265 navi fra galee, galeotte, fuste e brigantini. I giannizzeri e gli spahi sono 34.000, i marinai 13.000, i rematori 41.000. I pezzi di medio e grosso calibro sono oltre 180, mentre i pezzi di piccolo calibro sono intorno ai 1.250. L’ala destra è condotta dall’Ammiraglio Mehemet Shoraq (soprannominato Scirocco per quasi-omonimia con il vento). Il centro è sotto il comando superiore di Müezzinzade Alì Pascià, imbarcato sull’Ammiraglia “Sultana”, che reca per 28.900 volte i caratteri dorati del dio Allah. Uluč Alì è, come abbiamo visto, l’altro comandante, ex-cattolico convertito alla fede di Allah, ed è responsabile dell’ala sinistra, mentre Murad Dragut, figlio del Vicerè di Algeri, comanda la retroguardia. Questi due schieramenti, che costituiscono il più imponente complesso da battaglia di tutti i tempi, si daranno battaglia nelle acque di Lepanto, consegnandosi, da vincitori e vinti, alla storia…L’Ammiraglio Giovanni D’Austria schiera all’avanguardia le 6 pesanti galeazze veneziane, che fanno fuoco sul nemico, che tenta di incunearsi nello schieramento avversario.
Il fuoco di sbarramento si rivela intenso ed efficace: 70 navi turche sono seriamente danneggiate e molte affondano. Intanto dal centro avanza a tutta forza l’Ammiraglio Alì Pascià che tenta l’abbordaggio della nave che ospita il comando spagnolo, facendo leva sulla superiorità numerica. Il vento è favorevole all’avanzata turca che, in un primo momento, sembra essere coronata da successo. Verso mezzogiorno, però, il vento diviene sfavorevole, le vele si sgonfiano e, contemporaneamente, si gonfiano quelle della Lega. Gli assalitori divengono “assaliti”. A questo punto si assiste a un’azione controversa. L’Ammiraglio genovese Doria guadagna il largo, “abbandonando” la zona cruciale della battaglia, mentre Alì Pascià indirizza il fuoco sul “fuggitivo”, che non risponde alla sfida. Risponde invece Don Giovanni d’Austria, che punta decisamente sulla nave ammiraglia nemica. Le galeazze aprono anch’esse il fuoco e con i proiettili di nuova concezione, che si aprono in due emisferi, colpiscono sovrastrutture e alberi nemici.
Il primo arrembaggio ha luogo dopo il concitato duello di artiglierie ed è opera del reggimento di Sardegna: la nave turca diviene un campo di battaglia con i turchi a poppa e i “leghisti” a prua. Barbarigo, intanto, corre verso il centro della battaglia per tamponare il tentativo di cuneo operato da Shoraq. Barbarigo in persona è colpito ad un occhio (la stessa sorte che a distanza di circa due secoli spetterà ad Orazio Nelson) da una freccia. È il Marchese di Santa Cruz, comandante della retroguardia, a correre in soccorso per evitare il peggio. Shoraq è catturato e decapitato sul posto (per evitare eccessivo spargimento di sangue, come nella legge della Santa Inquisizione).Imperscrutabile è la manovra di Gianandrea Doria, Ammiraglio genovese appartenente ad una grande famiglia di navigatori e uomini di mare, che costituivano il nerbo dell’aristocrazia ligure. Chi lo taccia di viltà per essersi ignominiosamente defilato… Chi lo ritiene in combutta con Uluč Alì per limitare le offese ai legni di una flotta affittata, come parte di quella nemica… Chi lo ritiene un neo-Annibale per avere adottato a Lepanto la stessa tattica cartaginese nella celebre Battaglia di Canne… certo è che la sua strategia apre un varco in cui tenta di penetrare Uluč Alì, fermato eroicamente dalle galee dalmate, dirette da Girolamo Bisanti, che evita miracolosamente l’accerchiamento e l’aggiramento.
Ad Alì riesce tuttavia l’assalto alla Capitana, ammiraglia dei Cavalieri di Malta, al cui comando è posto Pietro Giustiniani, Priore dell’Ordine Gerosolimitano. Alì fa prigioniero il Giustiniani e cattura il vessillo dei celebri Cavalieri. Stessa sorte è riservata alla “Fiorenza”, la “San Giovanni” e la “Piemontesa”. Doria sarà accusato di imperizia…Il centro è il luogo più acceso della battaglia. Alì Pascià è ferito e poco dopo soccombe. Il suo cadavere caduto nelle mani cristiane dopo la cattura da parte delle galee toscane Grifona e Capitana, è decapitato per ordine di Don Giovanni D’Austria. La notizia si diffonde anche fra i turchi, che subiscono il contraccolpo psicologico, demoralizzandosi.
Il seguito è infatti una carneficina, in cui ha la peggio la flotta turca: 80 galee sono affondate, 117 catturate, 27 galeotte affondate, 13 catturate. Trentamila sono i morti e i feriti (non pochi soccomberanno successivamente per la deficienza di cure), ottomila i prigionieri. Infine 15 mila cristiani sono liberati dal ruolo di schiavi rematori. La Lega Santa perde 7.500 uomini e 15 navi. La Battaglia di Lepanto è assimilabile a quelle di Poitiers e Vienna, che impedirono che l’Europa avesse una “storia araba e musulmana”.
La Turchia si riprenderà ben presto dallo smacco, ma non affronterà più grandi battaglie con i nemici. La sua sarà una guerra corsara. Nel XVII secolo la Guerra di Candia confermerà che la Turchia è ancora una grande potenza, ma, a poco a poco, si relegherà ad un ruolo secondario, seguendo, in una nemesi che ha dell’incredibile, la parabola dell’Impero Bizantino, che le aveva passato “idealmente” il testimone: la Persia, la Russia e le scorribande cosacche saranno i patemi di Sultani, Pascià e Gran Visir.
I germi del declino furono generati dalla Battaglia di Lepanto, che i cristiani non sfruttarono pienamente a causa di quelle divisioni politiche che hanno sempre caratterizzato il Continente europeo. Lepanto scandisce, in ogni caso, l’inconciliabilità fra la cultura musulmana e quella cattolica, che, pur avendo radici in parte comuni, non sono mai giunte ad una pace vera e ad una convivenza pacifica in rispetto delle reciproche opinioni, idee e fedi. Paradossalmente, anche Venezia e Genova, le gloriose Repubbliche Marinare, seguiranno un irreversibile declino, che, nel caso, della Repubblica dei Dogi, subirà il colpo mortale di Campoformio nell’epoca napoleonica.
Dal punto di vista artistico, quadri e affreschi ricorderanno Lepanto: alcuni di autore, altri anonimi. Celebre il dipinto di Giorgio Vasari (1572-1573), presente nella Sala Reale del Vaticano a Roma. Nell’affresco si rileva la lotta fra il Bene e il Male: Cristo in cielo ha nel pugno la folgore, mentre gli Apostoli usano le loro spade contro le forze infernali. Nella parte bassa, invece, la Fede in Dio reca la corona di alloro in onore alla vittoria riportata sugli “infedeli” (i turchi).Conclusione: cinque ore di accanita battaglia hanno condizionato secoli di storia… Spesso la storia vive di “densità”, quasi mai di eternità…
N. B.
Giovanni D’Austria della Casata Asburgo (1545 – 1578) dopo essere stato protagonista nella repressione della rivolta dei Mori di Granada, è nominato Comandante in capo della Flotta riunita, inviata contro l’Impero Ottomano, la potenza che si era sostituita all’Impero Romano d’Oriente nel 1453, in seguito alla conquista di Costantinopoli. Lo spirito di conquista non era cessato con la distruzione dell’Impero di Bisanzio, poiché i Turchi Ottomani si rendono protagonisti di continue scorribande contro le potenze continentali in cui dominano la Spagna e il Sacro Romano Impero. Il 7 ottobre 1571 Giovanni D’Asburgo a Lepanto infligge una severa sconfitta alla flotta turca e successivamente (1573) conquista Tunisi, roccaforte avversaria. Dal lato sentimentale è protagonista di una “richiesta” sensazionale: chiede la mano di Maria Stuart (Maria Stuarda), caduta prigioniera della Regina d’Inghilterra Elisabetta I, figlia del Re delle sei mogli Enrico VIII e di Anna Boleyn (Anna Bolena). L’aspirazione è giudicata eccessiva da parte di Elisabetta I ed è ostacolata come “ambiziosa” dallo stesso Re di Spagna Filippo II, che relega Don Giovanni d’Austria al ruolo di Governatore Generale dei Paesi Bassi (all’epoca dominio della Corona spagnola).Egli si distingue ancora in battaglia: a Gembloux (31 gennaio 1578) infligge una grave sconfitta agli Stati Generali per passare a miglior vita poco dopo. D’altra parte, i Turchi, che denominano la Battaglia di Lepanto con il nome di Punta Scropha, la ricordano come “Battaglia del Capo Insanguinato”. In realtà, la denominazione trae dal fatto che essa si era combattuta all’ingresso del Golfo di Patrasso, mentre ancor prima era denominata “Battaglia delle Curzolari”.Il dissidio religioso fra Occidente e Oriente si rivelava anche nella denominazione della celebre battaglia navale, che fermò le mire espansionistiche ottomane.
Da: GRANDIBATTAGLIE
ELIANO BELLANOVA