Cesare Padovani con Paflasmós. Quando senti la Grecia nel cuore con il battito del Mar Egeo
Maurizio Nocera
Fu il poeta Luciano Provenzano di Parabita che, quel giovedì di dodici anni fa (25 giugno 2009), mi invitò all’Auditorium “Sigismondo Castromediano” di Lecce a partecipare alla presentazione del libro Paflasmós. Il battito del mare Egeo. Viaggio nell’anima della Grecia (Reggio Emilia, Edizioni Diabasis 2008) dello scrittore Cesare Padovani.
Aggiunse che il libro era una rapsodia di luoghi della grecità, scritto da un autore la cui condizione fisica era di notevole difficoltà. Cesare stava seduto su una sedia a rotelle. Secondo il parere di Provenzano, era proprio questa condizione dello scrittore paraplegico l’elemento fondante il suo pensiero sull’ordine precostituito e associato all’equilibrio. In tutto questo girovagare sulla condizione fisica di una persona quel che a me però interessava e interessa ancora oggi è la persona in quanto tale, comunque e sempre, indipendentemente da qualsivoglia condizionamento fisico o psichico.
Tanto bastò per convincermi di andare alla presentazione. E però non andai solo per questo perché, a sorreggere l’invito, c’era il mio grande amore per la Grecia, la culla della radice del pensiero di ciò che noi oggi chiamiamo Occidente, il cui punto focale è appunto quell’angolo del pianeta. E della Grecia, dei suoi miti, dei suoi dèi e dei suoi umani (di ieri e di oggi), di ciò che era e di ciò che è, e di tanto altro ancora scrive Cesare Padovani in questo suo incantevole Paflasmós, che per lui significa quel particolare sciabordio del mare che
«accompagna il lettore tra odori, rumori, visioni e anfratti di sapienza della Grecia meno conosciuta, per scorgerne il tragico vigore antico, ma anche il pigro dormiveglia delle attese. Paflasmós rinvia all’andimámalo, parola magica nella lingua greca moderna, per raffigurare l’andirivieni dolce delle onde che si spengono sulla battigia e subito tornano verso il mare».
Paflasmós può anche essere un’altra cosa, un altro significato? La sua risposta:
«Prova a ripeterlo, scandendo le tre sillabe senza però staccarle: pa-flas-smòs. Quale immagine ti suscita? ».
Pa-flas-smòs? Non saprei, forse il “paf” e il “flas” riproducono il rumore dell’acqua che si riversa sulla riva.
«Appunto, quell’onda leggera e sottile che spegne i suoi bisillabi sulla battigia e sulle fiancate delle barche». Lo trovi scritto a p. 74 del mio libro».
Con questa breve spiegazione del significato della parola Paflasmós, cominciai così a scoprire lo spessore di questo straordinario scrittore, che allo stesso tempo era filosofo, poeta, narratore, glottologo, artista della parola, che riusciva a scolpire il suo pensiero sulla pagina attraverso un linguaggio nuovo ma allo stesso tempo antico quanto antiche sono le parole degli umani. Tornato a casa dopo la presentazione del libro, scrissi queste noterelle sul libro che andavo rileggendo.
Paflasmós. Il battito del mar Egeo. Viaggio nell’anima della Grecia è un libro che si legge tutto d’un fiato e che ti giunge inatteso sul corpo come zefiro crepuscolare la cui origine sta nelle sorgenti di un sapere generoso e coinvolgente, proprio così com’è l’afflato poetico di Cesare Padovani, che dal suo volto di cerbiatto curioso, ti accorgi della tensione con cui va alla ricerca dei perché socratici ma anche degli assiomi imperturbabili parmenidei.
Paflasmós è una storia che sembra avere un non inizio e neanche una prevedibile fine. È un libro che a qualsiasi pagina tu lo apri, ti offre subito un grande respiro di un sapere umano ampio e affascinante, incuneato nelle viscere profonde di quell’ancestro dove risiedono le radici della nostra cultura millenaria, la cultura della grecità, che per noi salentini è anche magnogrecità.
Essenzialmente sono questi i motivi che mi hanno spinto verso Paflasmós, a rileggerlo con avidità. Qualche problema però mi è sorto nel momento in cui ho cominciato a leggere le sue pagine con la finalità di recensirle, perché esse sono tutte dense di significati filosofici e poetici. C’è tanta rapsodia in Paflasmós, e c’è tanta bellezza letteraria, incanto superlativo. La voglia allora non è quella di scrivere una recensione, ma di fare tutt’intera la riscrittura del testo. Ma questo non lo si può fare, perché uno deve essere e deve rimanere l’autore, appunto Cesare Padovani, il quale dice di avere scritto i XII capitoli del libro quasi fossero le dodici fatiche di Ercole, due delle quali gli si sono presentate come quasi impossibili. Scrive:
«Così [come Ercole] io pure mi sono trovato a lottare con il mio Leone: contro tutte quelle forze che ostacolano il cammino della mia scrittura, e che tentano di rovinare il raccolto: la stanchezza, la mia stessa età, le discontinuità dello stile, le mie paure. […] Ho ripulito le Stalle della mia scrittura che, abbandonata da mesi, e a volte per anni, stava imputridendo nella retorica: sono stato aiutato, nello scovare gli anfratti più nascosti e ammuffiti, da fiumane di sguardi scrupolosi di chi ancora mi ama. Pulisci qui, e qui, togli là, riprendi, taglia, riapri, rivedi…» (pp. 167-168).
E poco oltre, raccontando la sua scrittura come un viaggio, ricorda:
«Da solo o insieme a Giovanna [la moglie], ho ripercorso in lungo e in largo il continente greco e le isole, ho ascoltato i linguaggi della Magna Grecia, accompagnando la mandria dei miei Buoi fino ai pascoli più remoti perché tutto quello che andavo arando si contaminasse e prendesse l’humus di altri miti, di altre leggende, di nuovi dialetti incontrati».
Un viaggio, dunque, quello di Cesare Padovani, un viaggio fatto a volte con un’automobile normale, altre volte fatto su di un incredibile triciclo, che Padovani si è fatto costruire e col quale scopriamo che ha attraversato praticamente tutta la Grecia, a volte con infinita gioia, altre con dolce nostalgia, infine con dolorosa malinconia per quel doloroso “non-ritorno” che c’è sempre in ogni taxìdi (viaggio)».
Interessante questo suo Sulky (il suo triciclo per un paraplegico), che lo descrive come un mezzo mobile
«a tre ruote, senza portiere e la capotta di tela dipinta a gabbiani, una grossa borsa piegata dietro, una tanica, una macchina da scrivere portatile, un libro, un bastone» (p. 41).
E con questo incredibile mezzo che Padovani diviene anche lui mitico viaggiatore alla
«ricerca curiosa e stupita [delle sue] radici, tranquilli [lui e la moglie] come se il [loro] vivere si fosse fermato lì» (p. 41).
Dove? Li. Per lui e per noi, mitica Grecia.
A un certo punto del libro Cesare si chiede quanti sono gli altri mitici viaggiatori greci che, sin da bambino, lo hanno affascinato. Sa che spesso non si è trattato solo di un kalò taxìdi (buon viaggio), ma di viaggi accompagnati dal dolore malinconico del non-ritorno, come accadde a
«Giasone partendo dal Pìlon con gli Argonauti alla volta della Kòlkide […] e ad Agamennone staccando gli ormeggi dall’Eubea alla volta di Troia [… e a] Odysséo [alla ricerca di Itaca]» (p. 9).
E ora, quali le sue mete? Egli conosce la Grecia, la sua millenaria storia. Per più di trent’anni l’ha percorsa in lungo e in largo, nell’entroterra e sulle isole. Eppure non è mai riuscito ad essere convinto di averla conosciuta per davvero fino in fondo. Ecco allora che il suo viaggio diviene una sorta di nuova Odissea alla ricerca del Mito,
«che si costruisce durante il viaggio stesso, che è il racconto mitico di un viaggiatore senza itinerario sicuro, ma che coincide con il proprio modo di esistere. È dunque questo – egli si dice – il mio mito o il mio viaggio o anche la metafora del percorso dei miei anni vissuti?» (p. 22).
Andare dunque verso quale meta? Quale incontro? Sicuramente verso il ricordo del non-ritorno, che l’autore sente come spessore dell’anima, come incrocio di sentimenti di bellezza e di nostalgica Melanconia (Aristotele) per quello che ha nella mente e per quello che poi i suoi occhi verificano nella realtà concreta. Ecco allora che il suo viaggio si dirige verso luoghi che il Mito ha fatto divenire archetipi ancestrali. Attraversando con la nave la baia di Vathì, davanti al porto di Itaca, Padovani non può non sfuggire al Mito che maggiormente lo avvince: quello di Ulisse. Scrive di osservare
«grossi uccelli annoiati [che] protestavano al [suo] lentissimo passare [della nave], come fossero interrotti nel loro rito di raduno che si ripete da più di trenta secoli, dal regno di Laerte. Da qui Ulisse partì, e qui ritornò dopo vent’anni. Qui Ulisse era atteso» (p. 43).
Ma lui, Cesare Padovani, è forse atteso da qualcuno? Oppure è lui stesso che attende qualcun altro?
Un fatto è certo alla sua mente: anche lui si sente come i mitici viaggiatori greci e, come
«erede [delle mitiche] nostalgìe, pone orecchio a tutte le sensazioni, abbandonando le epiche imprese, per accingersi a un viaggio come un cammino tra i sentieri dell’animo greco» (p. 10).
Ed ora accade anche per lui di andare alla ricerca del Mito Greco, ed allora è come scrivere una, no, anzi due lettere che raccontano il suo viaggio: una lettera alla moglie Giovanna e l’altra ad un caro amico – Antonio – che di casa sta a Nàfplio, nel Peloponneso.
Tante sono le vicende che l’autore incontra sul suo percorso come anima che sente vivo il Mito del non-ritorno che, attraversando ancora l’Italia, il Gargano, alla volta di Bari, il suo porto, la nave che lo trasporterà a Patrasso, constata che
«la Grecia è già qui: ci sta schiudendo le porte, traboccante di aromi e di miti» (p. 27).
Le porte del Mito si sono spalancate, ed è in quel momento che egli “sente” nella carne e vede in trasparenza la dimora degli dèi sul Parnaso, e vede Dodòna arcaica col suo santuario delle Grandi Madri mediterranee che
«hanno dato le loro forti impronte a queste civiltà”» (p. 50).
E vede nuovamente Itaca,
«isola stracolma di simboli» (p. 62),
e Delphi, il Mantèion, le Meteore, Capo Sounion.
Il suo primo e vero approdo è a Leros, l’isola dei poeti e delle olive dell’ex tassista Petràs. Padovani scrive il perché proprio questa isola, e lo fa con una risposta della moglie a una sua domanda:
«Perché Leros è la pantofola che cerchiamo da tempo […] La infili e ti adagi in quell’incredibile issichìa [… quella] specie di tranquillità che riesce a sprofondarti in quella sua natura, fatta di sole, di mare, di passeggiate, e fatta di silenzi, di aromi e di chiacchiericci da villaggio sul far della sera» (p. 34).
Poi ci sono tappe intermedie, dovute a guasti al suo Sulky (da non dimenticare che si tratta sempre di quel trabiccolo-triciclo per lui paraplegico), oppure a deviazioni del cammino della vita. La sua seconda tappa è certamente Mytilene, un’isola tutta al femminile, una sorta di
«foglia di platano che galleggia sull’Egeo» (verso del poeta Odysseo Elitys), dove
«un tempo rotolò la testa di Orfeo»
che tuttavia continuò
«a cantare risvegliando passioni amorose».