Io sono greco di Paolo Vincenti
“Io sono là nelle parole greche, /dove la fine è il principio, /il silenzio l’insieme di ogni voce.
Cosa aspetti Edipo, /cosa aspetti a muoverti, /che cosa aspetti a venire?
Cosa aspetti Edipo, / cosa aspetti a muoverti, /che cosa aspetti a venire?
Tí méllomen choreîn / Tí méllomen choreîn / Tí méllomen choreîn “
(“Esodo” – Roberto Vecchioni)
Dal 2015 ad oggi, in seguito ai fatti di cronaca internazionale sempre incalzanti, a partire dagli attentati di Parigi e dalla conseguente scomposta reazione dell’Europa di fronte a questi rigurgiti di intolleranza religiosa e fanatismo omicida, abbiamo sentito sui mezzi di informazione commenti di ogni tipo, affermazioni schizofreniche e deliranti, prese di distanza, acute analisi politiche e filosofiche insieme a grossolane rivendicazioni di appartenenza. È Il villaggio globale massmediatico, che ci rulla ogni giorno nelle orecchie. In particolare, abbiamo letto quelle sdilinquite e retoriche espressioni di solidarietà globale che, trasformate in slogans, fanno presto a diventare merchandising.
E via dunque, con i vari Je suis Charlie, Je suis Ahmed, ecc. Come sovente accade, si è allestito un grande circo in cui tanti, rispolverando la teoria dello scontro di civiltà, ballavano una pericolosa danza con i fantasmi del passato. Da “Io sono Malala”, il libro di Christina Lamb e Malala Yousafzai, sulla ragazzina pakistana vincitrice del Nobel per la Pace 2014, tutte queste espressioni di identificazione si rifanno alla celebre frase, “Ich bin ein Berliner”, pronunciata da J.F. Kennedy nel 1963 a Berlino che però, sebbene fosse un capolavoro di retorica, cadeva in un contesto storico completamente diverso.
Comunque, sull’onda emotiva del dibattito ideologico apertosi, anch’io ho provato a fermare su un foglio bianco una personale presa di posizione, una mia testimonianza di impegno civile, oggi che quel muro nella città in cui il Presidente Kennedy parlava cinquant’anni fa, è crollato. Ci ho rimuginato a lungo ma non mi riusciva di scrivere alcunché. “ Io sono… Io sono …”. Ho provato più volte, ma dopo il pronome personale e il verbo mi uscivano solo i puntini di sospensione. – A proposito, pare che nel linguaggio 2.0 , quello dei social network e dei telefonini, i puntini di sospensione siano i più usati fra i segni di interpunzione, anche se ne servirebbero tre ma alcuni ne mettono due e altri dieci. Tutto ciò, al netto degli acronimi e delle sigle che sono usati soprattutto dai giovanissimi, e dei tantissimi strafalcioni o solecismi che ormai sono entrati nel linguaggio comune, come per esempio, la x al posto di “per”, o la k (e non sembri una facezia ricordare il noto detto “per un punto Martin perse la cappa”) al posto di “chi” o “che”. L’altro giorno ho scoperto mia figlia che scriveva “xké” su “Whatsapp”. “Tuoni e fulmini!”. Ho avuto una reazione incontrollata. Le ho detto: “No, questa è una pugnalata! Non me la dovevi dare! Qualsiasi cosa, ma non questo!”. La ragazza è rimasta basita e mi ha giurato sul Devoto Oli che non lo farà mai più. –
Ma tornando alla mia monca professione di fede, vano è stato esercitarmici tutto il giorno, fra una pausa e l’altra del lavoro. Dopo soggetto e copula, per completare la frase, non mi sovveniva nessun pertinente nome del predicato. Provato anche in altre lingue: Je suis, j am, oppure yo soy, stesso risultato. La sera, tornato a casa, mollo la borsa di lavoro sulla sedia accanto alla scrivania e una vocina interiore mi sorprende. Mi guardo intorno e la voce si fa sempre più forte e mi ripete: “Tolle lege, tolle lege!”, proprio come racconta Sant’Agostino con le Lettere di San Paolo. “Prendi e leggi, prendi e leggi!”, e il mio sguardo cade su un libro impilato sulla scrivania che mi ero promesso di rileggere, scosso dalla recente scomparsa del suo autore: “Paflasmos. Il battito del Mar Egeo. Viaggio nell’anima della Grecia”, di Cesare Padovani (Diabasis Editore 2010).
Ma è davvero un’illuminazione celeste, una accensione mistica, un prodigium! Il libro tratta di un viaggio nel cuore della Grecia moderna alla ricerca di quella passata, sulle tracce delle vestigia dell’antica civiltà classica, di quelle testimonianze della grandezza del pensiero filosofante nato proprio in quella terra, culla della civiltà occidentale. Ecco completata la frase, allora: “Io sono greco!”. Sì, finalmente ho trovato il modo di integrare quanto scritto sul foglio. E d’altro canto, l’ho sempre saputo. Come mai non me ne rendevo conto? Il libro di Cesare Padovani, studioso e saggista riminese, è un diario di viaggio alla ricerca della propria anima, di quello che di sé si è perduto.
Un ritorno alle origini, alla sorgente vera della propria cultura, per abbeverarsi a quelle fonti da cui sgorga acqua pura e cristallina. E anche se si sa che quell’acqua non esiste più, che la si è perduta per sempre, tuttavia ci si rivolge indietro, la si cerca con la memoria, con tutto il dolore per il non ritorno, “con quella malinconia”, dice l’autore, “che già Aristotele avvertiva come sofferenza culturale, o eccesso di consapevolezza, e che certamente aveva riconosciuto nel sorriso ironico di Socrate, anche quando Socrate stava per andarsene da questo mondo. Andarsene da qualcosa che si ama è provare nostalgia ancor prima del momento del distacco. Come la vita, un viaggio del genere non può non mantenere in sé quel residuo malinconico”. Eppure, nonostante la sorgente non esista realmente, essa ci sgorga dentro, fluisce nelle nostre vene, la avvertiamo anche se non udiamo più il suo gorgoglio, questo basta a farci dire a noi stessi che è ancora viva.
Cesare Padovani, che mi addolora tanto sapere scomparso, profondo conoscitore del mondo classico, sull’attualità dei miti ha condotto parecchi seminari e conferenze. E questo suo romanzo è proprio una riscoperta dei miti di cui è piena la letteratura greca, dei simboli di cui essa pullula. “Paflasmós” per l’autore significa quel particolare sciabordio del mare che «accompagna il lettore tra odori, rumori, visioni e anfratti di sapienza della Grecia meno conosciuta, per scorgerne il tragico vigore antico, ma anche il pigro dormiveglia delle attese. “Paflasmós” rinvia all’“andimámalo”, parola magica nella lingua greca moderna, per raffigurare l’andirivieni dolce delle onde che si spengono sulla battigia e subito tornano verso il mare». “Perché sospiri? A cosa stai pensando?” gli chiede la moglie Giovanna. “Ti sembrerà sciocco ma, lasciando questo paradiso, sto pensando al Paflasmos”. E alla moglie che gli chiede cosa significhi, risponde: «Prova a ripeterlo, scandendo le tre sillabe senza però staccarle: “Pa-flas-mós”. Quale immagine ti suscita? / “Pa-flas-smòs”? Non saprei, forse il “pa” e il “flas” riproducono il rumore dell’acqua che si riversa sulla riva… / Appunto, quell’onda leggera e sottile che spegne i suoi bisillabi sulla battigia e sulle fiancate delle barche…» .
Le varie tappe toccate dalla sua Periegesi della Grecia sono i pretesti per rispolverare altrettanti miti e scoprire quanto essi siano ancora attuali, quanto il pensiero dei primi filosofi greci abbia ancora validità nel mondo supertecnologico di oggi. Con la leggerezza di un volo di farfalla, come per il suo successivo libro “Farfalle Aforismi” (Il Vicolo Editore 2011), passando da una sentenza ad una massima tratta dall’epica di Omero o dalle tragedie di Euripide, Sofocle , Eschilo, la cultura mediterranea arcaica viene portata alla luce dell’attualità del nostro quotidiano sociale e politico.
Ed è proprio questa la mia formazione, sui classici greci e latini anch’io mi sono costruito. Ho iniziato al Liceo e non li ho più lasciati. E questa è la mia terra, il Salento, l’antica Iapigia, in questo Sud che già fu la Magna Grecia, patria di filosofi e scienziati, basti citare Crotone, Elea, Sibari, Siracusa, ecc. E allora di fronte al dibattito in corso, fra cristiani e musulmani, pacifisti e guerrafondai, xenofobi ed esterofili, posso piantare anch’io un seme di appartenenza, crociare una casella, apporre una bandierina nella sconfinata terra di nessuno del deserto intorno. “Io sono greco!”.
PAOLO VINCENTI