Pierfranco Bruni racconta dante attraverso Fabrizio De Andrè
Di Pierfranco Bruni
In Fabrizio De André la letteratura si fa mistero. Da Dante a Pavese, da Lee Masters ad Alvaro Mutis. E da questo viaggiare a Pound. Ma l’incastro linguistico resta Dante con un De André che usa l’attrazione delle ballate alla Villon. Ma con Dante De André recupera tutta la ballata provenzale, Cecco Angiolieri sino al tardo Medioevo. Letteratura e musica sono un linguaggio non dell’oltre (ovvero che va al di là del quotidiano) ma del profondo. Ci sono in questo linguaggio, per restare alla letteratura e alla musica, delle memorie sommerse che catturano metafore e realtà, luoghi e un sentire attraverso scenari che creano ombre e maschere, appartenenze e dimensioni oniriche.
C’è uno speciale incontro tra due personaggi che hanno realizzato dei riferimenti unici ma nello stesso momento universali.
Ho cercato di inserirmi all’interno di questo mondo. Fatto di nuvole, come quello di Aristofane e di Dante e Poliziano. Ho cercato di entrare, con la mia esperienza di scrittore, tra le pieghe di un percorso che è fatto di nomi (scrittori, cantautori, poeti, luoghi, geografie di sentieri e di anime) per cercare di capire il senso delle parole. Le parole come sentimento nella sensibilità dell’essere. Se nelle parole c’è un’ansia ci deve anche essere il coraggio di penetrarla questa ansia.
Mi riferisco ora a Cesare Pavese (per ciò che riguarda l’ambito strettamente letterario e poetico in particolare) e a Fabrizio De André (per ciò che interessa, invece, il connubio tra musica e parola). Ma non saranno solo questi a farci o farmi compagnia. Due proposte che non sono avulse dalla nostra attuale temperie. Anzi, passate e nuove generazioni si riflettono in quel loro messaggio che richiama fedeltà alle radici, maggiore consapevolezza identitaria, più intenso coinvolgimento ai temi della vita e della morte.
Il linguaggio non è fatto solo di segni ma di comunicazione o di partecipazione ad una griglia simbolica che vive costantemente nella realtà. Parola e musica sono i termini di un linguaggio dell’anima perché sono i codici di un pensare che appartiene non alla storia ma alla memoria.
Ci sono temi e problematiche che accomunano questi autori – personaggi. Ho accennato al tema del viaggio. Il viaggio è un luogo del vissuto (quindi della memoria) ma è soprattutto un luogo dell’attesa. Ci sono poeti e scrittori che fanno parte della loro esperienza. Cito: Omero e Lee Masters, Dante e Pound dentro De André.. L’unione tra due mondi: la cultura Occidentale/Meditteranea e quella prettamente Occidentale/Americana. Ma il viaggio è una costante come è una costante i paragrafi che caratterizzano il viaggio stesso. Il mito, la memoria e la morte.
Scriveva Cesare Pavese: “Come i morti di Dante, che sono più vivi che in vita, i morti di Spoon River prolungano in una forma sepolcrale tutti i loro malcontenti, le loro passioni”. Ricordi e atmosfere sono un intreccio di malinconie dove tutto ha una sua proiezione. Ancora Pavese: “Le figure crepuscolari nell’ora crepuscolare, i ricordi, le ombre, le reticenze del racconto, tutto si fonde a creare una scena che ha intorno quasi un alone soprannaturale”.
“Il mio aquilone è sul vento,/benché a tratti sussulti/come un uomo che scrolla le spalle”. Lee Masters è un navigatore che naviga nelle coscienze. I suoi personaggi non sono solo figure fisiche. Sono soprattutto delle coscienze. Sono delle meteore che come quell’aquilone dei suoi versi ondeggia trasportato “sul vento”. Un navigatore che in ogni temperie si lascia leggere senza perdere il suo fascino e il suo mistero.
Commentando i versi di Spoon River Fabrizio De André, per il suoNon al denaro, non all’amore, dichiarava: “Poi lo rilessi nel ’68, e non lo trovai invecchiato per niente. Riscontrai in quei personaggi qualche cosa di noi, mi parve che, in quella collina popolata di morti, si parlasse il linguaggio di una verità che i vivi non possono esprimere. E che Lee Masters, con una lucidità insieme cronachistica e profetica, avesse dato vece ai mille scheletri che la società d’allora, ma anche quella di oggi nasconde nei propri armadi. Armadi che erano, naturalmente, anche i miei”. Ma qui c’è Dante!
Personaggi che diventano destini e si aggrappano alle pareti di una continua avventura che lacera ogni desiderio. In Pavese e in De André ci sono personaggi che si fanno destini e destini che non smettono di occupare la tensione della nostra esistenza. Luoghi e destini sono approcci e riferimenti come in Dante.
Nel vocabolario del poeta, infatti, ci sono quei vocabolari che intrecciano le lingue del mondo nelle civiltà che ritornano con le immagini delle memorie. In questo nostro tempo di confusioni e lacerazioni la parola ha bisogno di ciò che si usa chiamare ritmo, musicalità, battuto lirico.
Fabrizio De André ha saputo bene raccogliersi in quel linguaggio che racconta ma racconta grazie sia alla parola, sia all’immagine, sia al ritmo. E’ questa una letteratura che ritrova il suo vocabolario nella parola e nel recitativo musicale. Cesare Pavese sosteneva che: “Fonte della poesia è sempre un mistero, un’ispirazione, una commossa perplessità davanti a un irrazionale – terra incognita”. E in Fabrizio De André questo mistero è avvertibile.
Dante comunque è inevitabile. Ecco: “Dante alla porta di Paolo e Francesca/spia chi fa meglio di lui:/lì dietro si racconta un amore normale/ma lui saprà poi renderlo tanto geniale” in “Al ballo mascherato”. O si pensi a “La cattiva strada” nella quale la “teologia” del peccato va dai Vangeli apocrifi a Dante.
In De André c’è Omero e tutta la tradizione classica, ma c’è soprattutto la comparazione tra le letterature occidentali e quelle orientali, c’è la cultura americana e quella araba e islamica. Un esempio ad una educazione alla tolleranza.
De André sa ben giocare con le rime e le ballate. Prende anche in prestito, tra l’altro, un verso della Divina Commedia del Canto XXXIII dell’Inferno, il Canto di Ugolino per capirci, nel quale si dice: “Ma più dell’onor, poté il digiuno” trasformandolo, con capacità ironica, in “Poscia più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”. Il volgare diventa in De André una lingua vera.
Ha ragion, dunque, Mogol (Giulio Rapetti) quando sostiene che: “La grande cultura è quella popolare, vera e sanguigna rispetto all’anemica cultura d’elite. Non a caso Dante scrisse la Commedia in volgare e non in latino” (“Corriere della Sera”, 20 marzo 1998). De André è una forte testimonianza di grande spessore semantico.
Insomma è con Fabrizio De André che si porta il “popolare” ironico e decadente, della letteratura nella musica “alta” a cominciare proprio di Dante. E non con altri come più volte ho dimostrato nei miei libri su De André, Califano, Tenco e il saggio su De André e Pavese per la Rizzoli, oltre alle mie numerose conferenze. Se non si parte da De André è pressapochismo.