IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

LO SCHIAFFO La memoria di una donna araba tra colonialismo e resistenza. di Rita El Khayat, Mediter Italia Edizioni, Palermo, 2024

Libro Lo Schiaffo

di Giuseppe Spedicato

Queste mie riflessioni non vogliono essere una recensione dell’ultimo lavoro della El Khayat – Lo schiaffo – ma il mettere in evidenza alcuni concetti espressi nel libro, che aiutano a comprendere pagine di storia passata che continuano a creare il presente, ma soprattutto farla conoscere meglio al pubblico italiano. Far conoscere una grande intellettuale, versatile e molto coraggiosa, che pensa e scrive da un’altra cultura, da un altro punto di vista. Rita El Khayat non è una donna che vive e lavora negli Stati Uniti o in Europa e da lì pensa e scrive. Lei pensa, vive e lavora in un paese del Nord Africa, il Marocco.

La El Khayat con questo nuovo lavoro cerca far comprendere il colonialismo in Marocco, e lo fa partendo da una sua esperienza personale, quando era una piccola scolara, era l’unica araba della classe. Un giorno viene tirata fuori da una fila di bambini e viene presa a schiaffi dall’insegnante. Non aveva fatto nulla, “ero un’araba o, meglio, ero solo un’araba che poteva essere ingiustamente punita, senza che nessuno battesse ciglio o senza il rischio di provocare una ribellione, per quello che, peraltro non avevo commesso. Potevo solo piangere”. Era stata punita lei al posto di chi era agitato e urlante. L’insegnante voleva calmare la classe. Scrive ancora: “I bambini francesi erano, in generale, odiosi con me, sprezzanti e/o meschini. A parte Jocelyne D. e Maryse, le centinaia di atre persone provavano solo disprezzo nei miei confronti e, nel migliore dei casi, indifferenza”.

La nostra autrice non ricorda tanto il dolore fisico subito dallo schiaffo, ma la vergogna subita. Vergogna che le fa capire, quando era ancora bambina, di essere una subalterna e che esserlo era una vergogna, come era una vergogna essere povera. Capisce che questa è la conseguenza dell’essere dominata. Da quel momento diviene una ribelle. L’essere ribelle è determinante per lei, come l’assumersi le proprie responsabilità e cercare la verità, che a suo parere non ha prezzo e non consente alcun compromesso. Giunge alla conclusione che nessuno è innocente in assoluto, da non doversi mettere in discussione, nemmeno le vittime, se non si ribellano.    

Ha anche il coraggio di scrivere come sarebbe stata la sua vita senza la colonizzazione francese: “… avrei conosciuto mio marito solo la prima notte di nozze senza mai averlo vista prima, perché da piccola sarei stata reclusa e rinchiusa. Lui mi avrebbe violentata la prima notte di nozze perché dovevo dimostrare subito la mia verginità, avrei vissuto da reclusa nella numerosa famiglia di mio marito e non avrei subito altri turbamenti se non quelli banali della vita, dell’amore e della morte… Inoltre, non avrei pensato e scritto questo testo poiché sarei stata analfabeta e sarei rimasta analfabeta come tutti gli altri… Alle ragazze era severamente vietata l’alfabetizzazione”.

            La El Khayat nelle sue opere scrive soprattutto delle ingiustizie, delle violenze, che hanno subito e subiscono le donne e lo fa partendo dal suo vissuto, mettendo a nudo le sue emozioni, il suo spirito. La sua denuncia è una sorta di liberazione di ciò la opprime e la indigna. Indagando impietosamente sul suo vissuto, indaga l’animo umano.  

Lei cerca il gusto profondo della vita, la pace, l’armonia, ciò che è bello e l’interazione sociale, ossia tutto ciò che è essenziale all’umano. I suoi scritti sono anche un j’accuse rivolto alle società, soprattutto a quelle più oppressive, senza fare distinzioni tra società occidentali e le altre, cosa non molto consueta né in Occidente né in Oriente.

È sicuramente una femminista, ma una femminista atipica, non ha adottato il modello femminista occidentale, adottato anche da molte donne non occidentali, soprattutto quando queste vivono in Occidente.

È un’intellettuale che viene etichettata come maghrebina, sicuramente è maghrebina ma questa è un’etichetta riduttiva. I suoi messaggi sono validi per l’intera umanità.

La sua scrittura è sovversiva, nel significato più nobile della parola, e soprattutto non è ostaggio di culture e religioni oppressive e inumane, la sua scrittura può essere definita terapeutica, sicuramente contribuisce a farci vedere ciò che siamo e non è un bel vedere, specie in questi ultimi tempi.


 

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