“La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956” un libro di Anna Szyszko-Grzywacz
di Paolo Rausa
Da non crederci: Anna Szyszko-Grzywacz muore a Varsavia il 2 agosto 2023, all’età di 100 anni nonostante abbia vissuto l’inferno nel lager di Vorkuta, nell’Estremo Nord della Siberia, dove è stata internata per 11 lunghi anni. Un’esperienza drammatica, comune a molti oppositori politici di ieri e di oggi, da cui raramente si esce vivi e integri. Era nata il 10 marzo 1923 nella parte orientale della Polonia, nella regione di Vilna (Vilnius), ora Lituania meridionale. All’indomani della prima guerra mondiale, poco dopo la Rivoluzione d’Ottobre, un periodo di fibrillazione nel cuore dell’Europa che da lì a due decenni sarà interessata drammaticamente da uno scontro senza pari fra la Germania nazista e la Russia.
Un periodo di tensione in cui gli Stati sottoposti all’uno e all’altro contendente cercano di scrollarsi di dosso il peso del dominio straniero, crescono le forme di ribellione e si formano le organizzazioni patriottiche clandestine per rendere libere le proprie terre, fra cui l’Ucraina e la Polonia. In una di queste organizzazioni militari politiche clandestine polacche, l’AK (Armia Krajowa), partecipava come staffetta la nostra autrice, che venne arrestata a 22 anni nel 1945 e internata nel lager fino al 1956. Un periodo che lascia il segno nel corpo e nell’anima degli internati alle prese con le condizioni climatiche proibitive per il freddo polare (fino a meno 40° C) e per il trattamento riguardo alle condizioni igieniche-sanitarie, per la scarsità e inconsistenza del cibo, senza potersi coprire e lavare (“Eravamo letteralmente ricoperte di sporcizia, con indosso sempre gli stessi abiti. Ci muovevamo e dormivamo con indosso quelli che portavamo al lavoro.
Gli indumenti erano luridi, rigidi, umidi..”). La sporcizia generale attirava insetti, cimici e pidocchi. Ci si lavava semplicemente con la neve. “Si beveva e si mangiava quel che ci davano, la balanda, una minestra molto annacquata, una fetta di pane e una mestolata di kaša di avena, con la pula, nera perché la cuocevano nelle ĉuguny, marmitte di ghisa che la facevano annerire”. Il vitto era assai misero: una minestra davvero povera, annacquata di avena o di orzo, non ci trovavi nemmeno un pezzetto di patata marcia, raramente qualche puzzolente testa di pesce. Eravamo state assegnate allo scavo in miniera al settore di scavo peggiore, ricorda Anna. Gente di ogni nazionalità, russi, ucraini, lituani. A estrarre carbone da vene talmente basse che si scavava in posizione ricurva, “talvolta persino bocconi”. Scortati da una guardia militarizzata, armata di fucile con la baionetta e mitra col colpo in canna, i prigionieri camminavano circondati da cani.
Il racconto sofferto e drammatico è reso più vivo e calato nella realtà dall’uso insistito di termini russi, così doviziosi che finiscono con il costituire un vocabolario specialistico di questo mondo, segregato alle estremità di un impero costruito sulla repressione e sul disprezzo delle minime condizioni umane, senza alcuna dignità di persone. Ridotte allo stato di bestie da soma, costrette a lavorare in miniera come e peggio degli schiavi, senza il conforto di pulizia e di cibo, per di più alla mercé di gruppi o ghenghe di disperati che non vedevano una donna da tempo e che cercavano con la violenza di godere del piacere di un rapporto. Tuttavia in questa lotta per la sopravvivenza si riusciva stentatamente a costruire qualche rapporto di amicizia e qualche parvenza di affetto che desse la speranza di una possibilità di vita diversa un domani. “Tra i maschi c’erano detenuti che stavano in carcere fin dall’infanzia, rinchiusi in riformatorio, non avevano mai conosciuto una donna, non avevano mai avuto contatto con le femmine. Non appena potevano, cercavano di avere rapporti e, appena c’era l’occasione, si sfogavano come conigli alla presenza degli altri detenuti”.
Malgrado la separazione dagli uomini le donne rimanevano comunque incinte, nonostante la recinzione e le torrette di sorveglianza. Le guardie venivano corrotte ricevendo del pane e così praticavano delle aperture che consentivano il contatto. Le polacche erano un gruppo a parte, si distinguevano dal resto della compagnia. Wanda era allegra, socievole, la ragazza più bella di tutto l’insediamento, così Czesia sempre truccata e Basia di bell’aspetto. Era significativo e commovente questo attaccamento alla vita, questo desiderio di cambiamento futuro e di superamento delle condizioni presenti di abominio in cui era calata la loro umanità. Le condizioni di lavoro per le donne erano terribili sia d’estate sia d’inverno.
Oltre alla durezza del lavoro i detenuti erano infiacchiti e decimati dalle malattie. Anche Anna era finita in ospedale a causa della tubercolosi, mal curata, e poi subì un intervento chirurgico all’appendicite che la salvò, pur nelle precarie condizioni in cui avvenivano gli interventi. Fortunatamente con tempo le condizioni cominciarono a migliorare: si disponeva di acqua fredda per la doccia, venivano distribuiti abiti per il cambio e si potevano leggere i libri in russo di Marx, Lenin, Stalin ma anche dei classici: Tolstoj, Turgenev, Dostoevskij, Gogol, Čechov, ecc.
Il regime iniziò gradualmente a mitigarsi dopo la morte di Stalin, nel 1953. Ufficialmente Anna venne rilasciata il 7 ottobre del 1956 e il 24 novembre era tornata in Polonia. Finalmente era terminato un periodo così triste e penoso della sua vita e così poteva riorganizzare la sua esistenza con Marek, che aveva conosciuto nell’inferno di Vorkuta e con cui avrebbe convissuto il tempo a venire perché durante la dura prigionia “analoghi erano stati i valori e le esperienze, la comprensione e l’accettazione”. Una lezione da trarre per tutti noi, ovvero la necessità di credere nel futuro e di ridere della vita, nonostante tutto, perché, come dice Wiktoria Kraśniewska: “Il riso è la vittoria dei vinti!” Guerini e Associati, Milano, ottobre 2024, pp. 176 con appendice iconografica, € 21,50.