Il clochard, un racconto di Vincenzo Fiaschitello
-“Amico, più di una volta ti ho visto portare a noi clochards coperte e bevande calde”-
Così interruppe per un momento il mio giro con gli amici della associazione.
-“Ti ho osservato, non sei come gli altri, la tua generosità non pesa, i tuoi gesti, il tuo sguardo, il tuo sorriso, sono proprio naturali, sinceri”.
-“Veramente anche a me hai dato l’impressione che tu sia diverso dagli altri clochards”-
Iniziò così uno scambio di battute tra me e quel clochard, che nonostante l’intenso freddo si era tirato fuori dai suoi cartoni, non solo per ricevere quanto offrivamo, ma anche per scambiare qualche parola.
-“Io so -aggiunse il clochard- che alcuni di voi sono curiosi di conoscere le nostre storie, come siamo diventati a essere quel che siamo. Credo che anche a te piacerebbe conoscere qualcosa della mia esistenza. Con te parlo volentieri. Domani pomeriggio, quando ancora c’è un po’ di luce, vieni se puoi e ti farò le mie confessioni”-
Non potevo mancare. Effettivamente io ero tra coloro che volevano sapere come un uomo possa giungere a degradarsi, quali circostanze difficili lo trasformino da una persona cosiddetta “normale” a un essere che istintivamente ci fa paura e anche ribrezzo e indignazione.
Rimasi subito sorpreso quando accennando alla prima metà della sua vita, mi disse che non c’era nulla di particolare. Proveniva da una buona e onesta famiglia: aveva completato gli studi superiori e era riuscito a ottenere un ottimo lavoro e a formarsi una famiglia. Quella vita normale finì con una disgrazia familiare e con la perdita del lavoro per il fallimento della azienda presso la quale lavorava. A quel punto tutto diventò difficile, catastrofico.
-“Dopo che fui costretto ad andare via da casa, ho provato sensazioni così dolorose che hanno alterato la mia percezione del mondo. Ho sentito di essere vento, nuvole, di essere polvere, di essere come la terra che abbraccia il filo d’erba, lo stelo di un fiore delicato e profumato. E tutto questo, in fondo, non mi rattristava. Quel che invece, mi sprofondava in una inquietudine indicibile era la sensazione di non aver mai avuto una moglie e i miei figli come esseri in carne e ossa, ma solo come idee, come qualcosa di astratto, come idee di un tempo lontano, perduto.
Andai via -continuò il clochard- perché lei non voleva più restare con me”.
-“Ora che Massimiliano non c’è più, non c’è ragione di stare insieme, ognuno per la sua strada!” disse, e mi voltò le spalle.
Andò a piangere il lutto nella sua famiglia, portando con sé l’altra figlia più grande. L’avvocato curò i suoi interessi, il giudice mi concesse di vendere quel poco che si poteva vendere e per il resto dovetti impegnarmi per le spese di mantenimento della figlia. Quella cifra, pur se modesta, divenne in breve tempo impossibile da sostenere dopo la perdita del lavoro.
Giorno dopo giorno, cominciai a vivere da sbandato. Quando vedevo gli amici da lontano, tentavo di cambiare strada per non incontrarli. Ma a volte non ci riuscivo. Mi dicevano sempre le stesse cose.
-“Come stai? Quando abbiamo saputo della disgrazia di Massimiliano, siamo rimasti veramente addolorati. Ma come è potuto accadere? Come ti trovi, ora? Hai un altro lavoro?”-
-“Tutte quelle domande mi trafiggevano il cuore. Non avevo affatto un altro lavoro e il mio bambino Massimiliano non c’era più per mia colpa. Quella mattina di luglio, ruminando pensieri dell’ufficio, avevo parcheggiato la macchina come tutti i giorni nella stradina assolata vicino all’ingresso dell’ufficio. Solo che mi ero dimenticato del bambino, non l’avevo affidato alle maestre dell’asilo. Quando mi sono ricordato, al termine del turno di lavoro, era troppo tardi: il bimbo era riverso senza vita sul seggiolino del sedile posteriore.
Per qualche tempo riuscii a vivere nientemeno che all’interno dell’aeroporto. Per caso un giorno, mentre vagabondavo senza meta, mi sentii chiamare. Era un tizio che lavorava alle dipendenze di una ditta di pulizie. Diceva di conoscermi dal tempo in cui ero un impiegato e che aveva saputo delle mie disgrazie:-Ti vedo molto malmesso, si vede che non hai neanche un posto per dormire, mi dispiace proprio. Io lavoro per la ditta di pulizie dell’aeroporto, vieni a trovarmi domani mattina, forse potrò darti un piccolo aiuto-
Rimasi nei locali dell’aeroporto per più di un anno. Di giorno giravo tra i passeggeri con una specie di tuta che mi aveva dato il mio amico, così da assomigliare al personale di servizio. A quel tempo, i controlli non erano ancora tanto rigorosi e io potevo muovermi senza pericolo di essere scoperto. La sera, il mio amico mi dava la chiave di un piccolo locale adibito a spogliatoio, dove andavo a dormire. Con i pochi spiccioli che riuscivo a racimolare, una volta al mese andavo a fare la doccia in un vicino B&B e dormivo in un letto pulito.
Quando cominciarono a intensificare i controlli di polizia in aeroporto, non fui più tranquillo. Avevo notato che da qualche giorno si era messo ad osservarmi un giovane poliziotto. Una mattina mi fermò e, insospettito, mi condusse dal suo capo. In breve fui scoperto e diffidato a non mettere piede nell’aeroporto.
Da quel giorno, perciò, il mio destino fu quello della strada. Divenni il clochard che ora tu conosci.
Qui siamo tutti uguali, tutti padri che un giudice povero di cuore e ricco di sentenze, di codici e codicilli, ci ha resi ladri di amore per i figli, rapiti da mogli, a torto o a ragione. Ci hanno spinti sulla strada e io dico sempre a questi miei amici che se siamo stati delle bestie, a questo punto della nostra vita, non ci resta che continuare ad esserlo. E tutto sopportiamo senza lamentele. Facciamo come le bestie, se va avanti la testa non possiamo non far seguire anche la coda. Che sarà dei figli, quando l’amore segreto del padre li coglie, sprofondandoli nella tristezza? “
Quella sera finì il racconto della sua vita di clochard e, commosso, lo salutai e gli promisi di ritornare. Ma lui mi licenziò con un sorriso triste.
“Hanno spento le ultime luci -scrive il clochard con una matita su un foglio di quaderno- forse anche la mia vita si spegnerà questa notte. C’è un freddo bastardo! E’ questo il drago che noi clochards temiamo di più. Ne ho combattuti tanti di draghi. Eh sì, caro amico, (non conosco nemmeno il tuo nome!) perché io mi chiamo Giorgio. Quando da ragazzo entravo nella chiesa del mio quartiere, andavo subito ad ammirare sul lato sinistro dell’abside una grande tela di San Giorgio a cavallo che colpisce con la lancia un terribile drago. Mi piaceva tanto e io dicevo a me stesso di volerlo imitare nella vita. I draghi vanno combattuti, eliminati. Ma come si fa? Il drago della disonestà, il drago dell’avarizia, dell’odio, li ho sempre scacciati. Ma non è stato facile. A volte il drago stava seduto accanto a me in ufficio, intrufolato nei rapporti con persone conosciute. Credimi, mi sono tanto impegnato, ma come vedi sono stato più volte sconfitto.
Ora mi sento morire, prego il tempo di non indugiare più. Nel giorno dei giorni, come tutti, avrai da fare una di queste scelte, dicendo con un filo di voce a chi ti chiuderà gli occhi:
Ci rivedremo lassù, ne sono certo. Oppure:
Chiusa per sempre la notte della vita nel nulla. Oppure:
Ritorneremo, siamo stelle che dileguano e tornano a splendere.
Grazie, amico sconosciuto, per il tuo sorriso e per la tua comprensione, a prescindere da quale sarà la tua scelta.
La mia? Non posso dirtela!”
Quel biglietto mi fu consegnato, la mattina di un freddissimo giorno d’inverno, da un mio amico della associazione che conosceva quella simpatia nata fra me e il clochard.
Glielo avevano trovato stretto nella mano.