Intervista a Giuseppe Marius Conte, autore della silloge: Noi di Inessa -Rime barbare, Ed. Urso, Avola, 2024
di Vincenzo Fiaschitello
Giuseppe Marius Conte, allievo di Carlo Grabher e di Santi Mazzarino nell’università di Catania, professore di Letteratura Italiana e Latina e Preside del Liceo Scientifico e Classico “G.Galilei” di Legnano (MI), già autore di varia letteratura (saggi storiografici, testi teatrali, narrativa e poesia), a conclusione di suoi rinnovati interessi per il mondo classico pubblica recentemente una silloge di 21 componimenti, “Noi di Inessa”, dove ipotizza collegamenti fra passato e presente e un immaginario ritorno alla vita, ai culti, alle passioni di una terra antica, la città di Inessa: città fondata dal tiranno siracusano Gerone I nel 476 a.c. sulle falde dell’Etna, città ”sacra e nobilissima”, luogo che in quel lontano secolo aveva ospitato la stirpe greco-sicula dei Dinomenidi, che aveva ascoltato i canti di Pindaro, di Simonide e di Stesicoro, e che nei teatri del territorio aveva assistito ai cori di Eschilo.
All’Autore di Noi di Inessa, originario da quei luoghi, ho posto le seguenti domande.
D. La lettura dei 21 componimenti della silloge invita ad alcune riflessioni. Ci si chiede, in primo luogo: negli svolgimenti della storia e della cultura, quale ruolo l’autore del libro assegna ai Greci di età classica ?
R. Mi piace poter ribadire il convincimento che i Greci di età classica siano riusciti a inventare quasi tutto. Tutto quello che giova all’uomo di ogni tempo. Anche all’uomo di oggi. A qualunque latitudine. In qualunque parte del pianeta si trovi a vivere. Hanno inventato o profondamente modificato anche ciò che a loro arrivava da precedenti culture. Penso alle cose “utili”, come l’osservazione scientifica o le consuetudini alimentari o anche la moda, l’abbigliamento o la mascalcia o l’ingegneria e, persino, la più alta pratica della società civile, cioè il conforto delle leggi e della magistratura. Ma penso anche alle cose che si è tentati di ritenere assolutamente “inutili” non propriamente necessarie né rigorosamente giovevoli ai bisogni dell’uomo: come la poesia o la genialità delle arti, la musica, il canto, la matematica, il gioco, la danza o la filosofia.
Su questa base, per più motivi è ragionevole affermare che l’attuale nostro mondo, e specificamente il territorio che occupa il versante occidentale del pianeta, sia l’erede diretto di quella cultura e di quella civiltà. Ed è onesto pensare che già la complessa narrazione omerica dell’Iliade e dell’Odissea, essa sola, ne rappresenti la sintesi e contenga tutti i fermenti e i fondamenti del nostro sapere. In quelle pagine, infatti, leggiamo i miti – umani e divini – storie e leggende, le creature olimpiche e quelle terrestri, l’odio e l’amore, la luce e le tenebre, gli svolgimenti del tempo e il mistero dell’eternità, la virtù come “areté”, lo spregio e il disonore, la vita e la morte, il bene e il male. E ci accorgiamo che sono i medesimi temi che affaticano il pensiero dell’uomo moderno. Sarebbero i temi della cosiddetta cultura del mondo occidentale: gli stessi che animarono il vissuto di una civiltà, quella classica, fiorita nei territori attorno al mediterraneo, a una distanza temporale da noi di poco meno di tre millenni. Pur successivamente, dopo la grande epopea omerica, il teatro, la prestigiosa oratoria, la celebrazione dei culti e dei riti religiosi, la mitologia dei canti orfici ed eleusini, la sacralità del tempio e la danza e la lirica corale e quella alessandrina, e tutte le altre pur minori espressioni del pensiero e dell’arte giovarono alla moltiplicazione delle idee originarie. Furono tutte un grandissimo lievito e giovarono quasi a tutto.
Ma non anche a dare spazio alla cultura della pace.
D. Quali i fondamenti di quella civiltà e quali i limiti di quella cultura ?
R. La polis, con tutte le sue variabili, resta pur sempre il modello di un costrutto sociale che nell’intero universo non ha a tutt’oggi migliori alternative. I concetti di “bellezza”, di “giustizia”, di “creatività”, di “umana pietà” sono in ogni parte della terra le forze moventi per le quali la storia agisce, si diversifica nel tempo e si “infutura”. Anche l’esercizio della forza rientra nel numero delle grandi macchinazioni del pensiero. E, con l’idea della forza, anche la metafisica della guerra. Oggi, in diversi luoghi del mondo, purtroppo la violenza delle guerre genera dolore, rovine, spreco di risorse, sofferenza e paura.
Ma – ci domandiamo – come è potuto accadere che, nel bel mezzo di così giganteschi valori, la mente dell’uomo non abbia assegnato un posto onorevole all’idea della pace?
È pur vero: i filosofi, il politico, gli uomini di affari, gli intellettuali e soprattutto gli uomini più comuni cercano la pace. Cercano la pace mentre intorno a loro infuria la guerra. Ma è quasi certo che la cerchino come fosse un bene accessorio, un accordo, un rimedio adatto a risolvere le presenti agitazioni e preoccupazioni. Non come condizione dello spirito, come categoria metafisica, ineluttabile e inconfondibile, quella che nella realtà del mondo meriterebbe il suo spazio ideale. Perciò è avvenuto che uomini eccelsi, grandissimi popoli, potenti Stati, alla ricerca di possibili trionfi, abbiano vissuto la vita in condizione di perpetua bellicosità e non siano riusciti a costruire un mondo di pace. È accaduto che, al compimento storico della loro traiettoria, sono crollati. E di alcuni di essi se n’è perso persino la memoria. Gli antichi greci sono stati abili costruttori di civiltà: elevarono monumenti perenni alle grandi espressioni del talento, dell’arte e del pensiero. Ma non coltivarono i principi della pace. Scrissero trattati sulla guerra, ma non anche sui benefici della pace. Più tardi Tacito, originario della Gallia Narbonese, mentre racconta la vocazione militare e imperiale dei Romani, osserva che dove per loro la guerra aveva chiuso la sua tragica missione – e solo dopo aver lasciato nella vita dei popoli vinti distruzione e rovina – quella devastata realtà i potenti del tempo la chiamavano “pace”. Così la definivano, mentre era una superba affermazione del potere, della forza e, più semplicemente, l’impietosa dottrina della sopraffazione.
I Greci, loro vicini di casa, si travagliarono in ricorrenti guerre intestine, si lacerarono per affermare le loro individualità politiche e, in epica conclusione, la storia civile li ha disarcionati, travolti e quasi cancellati. Così come – e già prima e poi dopo dei Greci – è accaduto ad altri, magari assai più potenti di loro.
Così è quasi certo che accadrà ai potenti del nostro tempo. E non basteranno lustrini e bandiere a salvarli dal tramonto che sarà inesorabile. Felice, allora, quel luogo e quel tempo dove e quando un giovane insegnante un giorno potrà sentirsi chiedere dal proprio alunno: “Professore !!Io non lo so. Ne ho sentito parlare. Ma … nel passato, che cosa mai era la guerra ??Di che materia era fatta ??”.
Quasi certamente l’umanità ha gli strumenti per arrestare definitivamente gli orrendi meccanismi della guerra. Cioè, per abbattere i colossali interessi di pochi privilegiati. Per distruggere gli enormi capitali che sostengono l’industria delle armi e del massacro. Ma per far questo occorre una grandissima fede. Bisogna saperci credere e fortissimamente operare in quella direzione. Occorrono i divini maestri del pensiero. E, soprattutto, occorrono martiri. Come in ogni tempo è avvenuto per l’affermazione delle più autentiche religioni, delle più storiche rivoluzioni e, in tutti i casi, per i grandi movimenti e rivolgimenti dello spirito. Allora, e solo allora, anche le arti, divenute migliori, concorreranno a fare la felicità dell’uomo sulla terra.
D. Quali fermenti innovativi si agitavano all’interno del mondo greco ?
R. Nel 476, con l’intento di celebrare la fondazione di una nuova città in terra siciliana, Eschilo scriveva Aitnaiai, Le donne di Etna. L’opera ( vedi Quintino Cataudella, Antonio Garzya, Carlo Corbato, Giuseppina Basta Donzelli.), che è andata smarrita e della quale ci è pervenuto solo qualche frammento, voleva essere un inno alla vita. Venne rappresentata con differenti adattamenti nei teatri della piana di Catania, a Naxos, a Etna-Inessa, a Leontini, a Siracusa. Tema centrale dell’azione scenica la necessità di comporre le diversità e i conflitti fra etnie di varia provenienza – calcidesi, corinzie, preelleniche, spartane, sicule – popoli che la sorte aveva portato drammaticamente a convivere nel medesimo territorio.
Il prof. Giuseppe Guzzetta dell’Università di Catania scrive : “La grande ispirazione poetica conduce Eschilo a farsi alfiere di una forte aspirazione alla pacificazione e alla concordia nel segno del dinomenide”.
Carlo Corbato, a conclusione del suo saggio, sottolinea: “Bios agathos all’Etna di Ierone”.
Ora, in un tempo come il nostro, così tristemente segnato da crudelissime guerre, da scontri religiosi e civili, che spesso insanguinano i territori di confine, la nostra vocazione al sogno e alle “grazie” del passato di Aitna-Inessa vuole essere un augurio alla pace, a una più costruttiva collaborazione fra i popoli e alle possibili desiderabili gioie della vita.