Il lustrascarpe: la poesia silenziosa di un mestiere dimenticato
di Pompeo Maritati
Il mestiere del lustrascarpe, che fioriva nelle strade polverose e affollate delle grandi città a cavallo tra il XIX e il XX secolo, è un’immagine che si fa difficile da dimenticare. In un’epoca in cui la vita scorreva rapida tra il rumore dei tram e delle carrozze, tra le chiacchiere dei passanti e i sogni di chi cercava un futuro migliore. Il lustrascarpe era una figura che si confondeva con le ombre delle strade. Un mestiere che parlava di fatica, di speranza e di umiltà, ma anche di un’esistenza segnata dalla lotta per la sopravvivenza. Non erano né giovani né vecchi, ma uomini e ragazzi che, con la polvere e il lucido, cercavano di dare nuova luce a un mondo che sembrava sempre più lontano dalle loro mani callose.
Eppure, in ogni gesto di quei lustrascarpe si nascondeva una dolcezza nascosta, un’infinita pazienza, una delicatezza che si rifletteva nel movimento delle spazzole, nel lucido che si distendeva sulla pelle lucida delle scarpe. Così, nel frastuono della città, nel caos del traffico e delle chiacchiere, il lustrascarpe era come un piccolo angolo di silenzio e di speranza. Ma dietro quella speranza c’era una vita che non sempre sorrideva. Il lustrascarpe viveva nella povertà più nuda, spesso non guadagnando abbastanza per sfamarsi, eppure, nonostante tutto, sapeva che la dignità non stava nel denaro, ma nel suo lavoro.
Il mestiere del lustrascarpe non era solo un mestiere. Era una poesia silenziosa, scritta con l’odore del lucido e il rumore della spazzola che sfiorava la pelle. Ogni volta che il suo gesto si ripeteva, quasi come un rito, veniva a contatto con le storie degli altri. Le scarpe, quel piccolo angolo di vita che ciascuno portava con sé, diventavano specchio di un’esistenza, di una persona, di un desiderio. Il lustrascarpe non si limitava a lucidare; donava anche una carezza alla fatica di chi camminava su quelle strade, a chi non aveva mai tempo per fermarsi, per riflettere, per ammirare la bellezza della vita che scivolava via veloce.
Ma dietro quella cura meticolosa, dietro l’atto semplice e ripetuto di lucidare, si celava una realtà ben più amara. Molti lustrascarpe vivevano in miseria. Non riuscivano nemmeno a guadagnare abbastanza da permettersi un pasto decente. Le strade che percorrevano erano affollate da altri, come loro, che lottavano per sopravvivere, per conquistare uno spazio in una società che non aveva nulla da offrire se non il suo volto più crudo. Eppure, i lustrascarpe non si arrendevano. Forse per loro l’illusione di una vita migliore era nascosta nell’atto di lucidare una scarpa, nell’arte di dare una nuova vita a qualcosa che sembrava ormai destinato all’oblio. C’era qualcosa di romantico, sebbene doloroso, in quel gesto ripetuto all’infinito. In una città che correva sempre più veloce, che non si fermava mai, il lustrascarpe rimaneva un frammento di bellezza sospeso tra il passato e il futuro, tra la polvere e la lucentezza.
E in quella vita dura, fatta di strade affollate e di sguardi fugaci, c’era un dolore silenzioso che parlava di una società divisa, in cui i poveri lustrascarpe venivano ignorati eppure, ogni giorno, si mettevano al lavoro con la speranza di un piccolo guadagno. Un piccolo guadagno che non bastava a riempire lo stomaco, ma che dava loro la dignità di chi non si arrende mai, di chi, pur nella miseria, sapeva che il proprio lavoro era importante. Forse non era la vita che avevano sognato, ma era la vita che riuscivano a costruire con le proprie mani.
Il lustrascarpe non chiedeva di essere visto, non chiedeva di essere amato. Chiedeva solo di poter esistere, di poter continuare a lavorare con la stessa dedizione e passione, anche se il suo stipendio non bastava a coprire i bisogni quotidiani. E così, nei quartieri delle grandi città, in quegli angoli affollati dove i passanti non facevano caso a nulla, il lustrascarpe continuava a svolgere il suo mestiere, in silenzio, con un sorriso che a volte era appena accennato, ma che non smetteva mai di apparire.
Il lustrascarpe non aveva bisogno di molte parole. Il suo linguaggio era semplice, fatto di gesti piccoli ma potenti. Ogni scarpa che lucidava raccontava una storia, e ogni persona che si fermava a farsi lucidare le scarpe raccontava la sua. Un mestiere povero, ma che racchiudeva un mondo di storie non dette, di vite silenziose che parlavano più di quanto le parole potessero mai fare. Così, anche se la società di allora ignorava il lustrascarpe, lui rimaneva lì, in attesa di un incontro, di uno sguardo, di un segno che gli dicesse che anche lui, nella sua povertà, nel suo mestiere umile, era parte di quel mondo che correva troppo veloce per fermarsi a guardarlo.
E mentre le scarpe venivano lucidate, una piccola parte del mondo veniva fermata, come se il tempo, per un attimo, avesse deciso di fermarsi per osservare il lavoro di chi, con le mani callose e il cuore grande, cercava di fare luce sulla vita, anche quando tutto sembrava spento.