IL PENSIERO MEDITERRANEO

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“Gli stivali a fisarmonica, e altre storie”, conversazione con Renato Romano

Gli stivali a fisarmonica, e altre storie

di Enrico Conte

D. “Ho sempre considerato il guardare dal finestrino del treno uno spettacolo meritevole in sè del costo di un biglietto. Ma vedere la costa che corre oltre il vetro è un brivido, una carezza. Unonda di piacere”. Così il racconto di un piccolo tratto di un viaggio di Renato Romano, ora Dirigente generale del Ministero della giustizia, in direzione sud-nord lungo l’Adriatico, partendo da Sora, tra il Lazio e l’Abruzzo.

In che modo i suoi racconti, contenuti nel suo lavoro “Gli stivali a fisarmonica e altre storie”, parlano al nostro presente?

Renato Romano. Io avverto il bisogno di dare corpo a vicende risalenti. Giulio Biino – Presidente del Salone del Libro di Torino- mi ha attribuito una “urgenza di scrivere”. E un po’ è vero. C’è una urgenza di parlare degli anni giovani, degli amici, delle frequentazioni, dei luoghi dell’anima. E poi, sempre affiorante, la mia giovanile, appassionata militanza politica. Ho scritto per dare una forma, una confezione stabile ai ricordi. Per lasciare traccia delle cose accadute, secondo l’insegnamento di Roberto Roversi, poeta bolognese a me particoalarmente caro. Ma il mio punto di osservazione è saldamente ancorato al presente. Un „oggi“ però, che credo debba alimentarsi della memoria. Questi racconti, insomma, cercano di favorire una sorta di passaggio del testimone, tra le generazioni.

D. Scrivere di sè è un pò fare una sorta di autoanalisi, è come se, quelle che sono state voci interiori in un discorso tenuto insieme dal silenzio, e che la scienza chiama endofasia, ad un certo punto sentissero l’urgenza di venire allo scoperto.

Ed è come  fossero dei piccoli animaletti che escono da una tana e ai quali occorre dare un nome, attraverso le parole…..

RR Sì, e io penso ci sia in particolare un momento, nella vita, in cui esplode il bisogno di guardare in faccia le proprie radici. L’infanzia, la famiglia di origine, gli anni giovani.

Per me questo momento si è determinato nel 2020, l’anno della pandemia da Covid19. Ma non è detto che la spinta sia nata soltanto da lì.

Sono stato, per tutta la vita, severo guardiano del presente. Adesso avverto la spinta a calare la carrucola della memoria in anni per me fondamentali. E vedere „quegli animaletti uscire dalla tana“, tra l’altro, mi procura un piacere quasi fisico.

L’infazia segnata dalla sofferenza per la malattia di mio fratello. Gli stupefacenti vestiti di mia madre. L’ardore degli ideali. Mille libri letti, tanti film visti. Le risate incontrollabili. Gli amori appena sbocciati e presto appassiti. Amicizie radicate al punto da aver sfidato vittoriosamente il mezzo secolo trascorso. La scrittura risuscita tutto ciò, e conduce ad una nuova condivisione. Ad una riscoperta, una ridefinizione,  di sè e degli altri.

D. Nel clima degli anni ’70 che pervade il libro, ad un certo punto,quando si praticavano gli espropri proletari, i collettivi, la musica ribelle di Eugenio Finardi, compare un cantautore…ne sentiamo la pronuncia emiliana…..”Ragazzi – disse Lucio Dalla – io vengo qui e prendo un milione e ottocentomila lire. E siamo in nove, tra musicisti e tecnici. Non mi sembra immorale. Non accetto riduzioni del Cachet. Ma sono disposto a suonare gratis se il proprietario del Cinema accetta di farvi entrare gratis”. E il concerto, quel giorno a Sora, fu gratis per tutti.

Qual’è la più grande differenza tra quegli anni e oggi?

RR. Se volessi banalizzare potrei dire che la mia generazione si faceva vanto di vivere frugalmente, di aborrire i consumi costosi, mentre larga parte di quella attuale assume a propria bussola l’esatto contrario. C’era, sicuramente, del conformismo in entrambe le versioni. Ma io sono portato a pensare che la nostra generazione fosse più profonda. Certo, abbiamo fatto errori tremendi. Ma abbiamo osato.

Quel ricordo del concerto di Lucio Dalla, nel 1978, mi è poi particolarmente caro. Si realizzò una specie di miracolo. Decine e decine di ragazzi posero con forza, ma anche con responsabilità, il tema del diritto di accedere alla cultura anche senza disporre di grandi mezzi.

Quella sera, senza esercitare alcuna violenza, vincemmo noi. Quindi…vincemmo tutti.

D. Mi creda – scriveva Aldo Moro in una lettera personale a mio padre – sono impegnato con ogni sforzo possibile, ma la situazione è complicata”….(Sembra di vederla la figura compassata dell’uomo incontrato sulla spiaggia di Terracina, luogo di villeggiatura familiare….) pochi giorni prima che le Brigate Rosse lo rapissero facendo strage della sua scorta…..

RR. Aldo Moro è stato una figura fondamentale per tutta la mia famiglia. A partire da mio padre che pur aborrendo -da socialista di sinistra- i governanti democristiani, ne risultò affascinato. Moro, quando lo conoscemmo, aveva meno di cinquanta anni. Ma già esprimeva quell’aria di stanchezza dolce, che l’ha avvolto fino alla tragica fine.

Una persona che sembrava fosse circondata da un cerchio di impalpabile cortesia. Il contrario esatto dell’immagine del politico arrogante e piacione, di allora e di oggi.

Il suo rapimento ebbe un impatto emotivo enorme sulla mia famiglia. Anche se – aggiugo qui una cosa che non scrivo nel libro- segnò anche una, temporanea, contrapposizione tra me e mio padre. Io, allora diciannovenne, ero per la linea della fermezza verso le Brigate Rosse. Mio padre riteneva che lo Stato dovesse trattare con i brigatisti, per salvargli la vita. Non ci parlammo per un pò.

D. Ennio Flaiano scriveva che quando in una famiglia c’è un bambino problematico, quella famiglia è un pò speciale, e si riconosce da un tratto più sensibile dei suoi membri”.

RR. Un mio caro amico, anni fa, replicando ad un mio momento di grande sconforto per una delle tante situazioni ingestibili determinate da mio fratello, mi disse: “certo, tuo fratello ha segnato la tua vita, ti ha procurato dolore e insicurezza; ma se non ci fosse stato, se tu non fossi passato per questa sofferenza, non saresti il tipo di persona che sei; e non è affatto detto che saresti migliore”.

Non a caso il racconto su mio fratello è quello che chiude il libro.

D. C’è un momento nella vita che dà slancio e forza e che ci fa diventare quello che siamo: se dovesse raccontarlo a quei tanti ragazzi/e che affollano i social e sono sul punto di uscirne, forsi consapevoli della dipendenza, cosa si sentirebbe di dire?

RR. Direi che la mia, tutto sommato, è stata una generazione fortunata. Ma che anche questo turbolento, ossessivo, presente, anche questa prospettazione incerta e, a tratti, agghiacciante, del futuro, non inibisce la possibilità di una vita piena. Godibile e consapevole. La giovinezza è infinita. E infinite sono le possibilità di dispiegarla.

D. La nostalgia, forse, è un ultimo rifugio, un modo per sottrarsi al vuoto di idee e di senso, alla stasi creativa registrata dal mondo dell’arte, di questi difficili giorni di caos mondiale e di violenza e di dominio della tecnica?

RR. Per me il gusto dello scrivere, quello che mi procura un brivido carezzevole dietro la nuca, è proprio insediato nel lasciar scorrere le parole tra i ricordi, come una mano tra gli steli dell’erba alta. Levigando i pensieri. Saturandoli di sentimento ma senza mai indulgere nel sentimentalismo. Anzi, tentando quello che definirei un languore, un permanente senso di mancanza. Ma il tutto sul filo dell’ironia. Del disincanto.

Quindi, per me, la nostalgia non potrà mai essere un rifugio, un sottrarmi. Al contrario penso che riesca ad alimentare una nuova spinta. Un nuovo protagonismo.

Non a caso ho proposto, all’inizio dei racconti, un bel verso di Dylan Thomas: „ La palla che lanciai / giocando nel parco / non è ancora scesa al suolo“.

La partita è ancora aperta. Io non mi rassegnerò mai.

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