Il Fallimento delle Istituzioni Globali: Un Sistema al Limite del Collasso
di Pompeo Maritati
Il sistema internazionale di governance, costruito sulle macerie dei conflitti mondiali e animato dall’ambizione di garantire un equilibrio stabile e pacifico tra le nazioni, si presenta oggi come un complesso intreccio di istituzioni che, nel migliore dei casi, arrancano nell’inseguire i cambiamenti geopolitici, e nel peggiore, alimentano divisioni e instabilità.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), la Corte Internazionale di Giustizia (CIG), la NATO e persino l’Unione Europea sono esempi di strutture pensate per regolare i rapporti globali ma che sempre più spesso risultano inefficaci o addirittura controproducenti. A distanza di decenni dalla loro creazione, queste istituzioni sembrano incapaci di mantenere le promesse originarie, intrappolate tra una governance obsoleta, interessi particolari delle potenze dominanti e una crescente sfiducia da parte delle popolazioni. Questo stato di crisi, unito all’incapacità di prevenire o gestire conflitti sempre più complessi, ci porta a domandarci se il sistema globale sia arrivato a un punto di rottura.
L’ONU, fondata nel 1945 con il proposito ambizioso di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”, è oggi un emblema di impotenza istituzionale. Il suo organo principale, il Consiglio di Sicurezza, riflette un ordine mondiale congelato nella logica della Guerra Fredda: i cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito), con il loro diritto di veto, paralizzano di fatto ogni decisione significativa, soprattutto nelle situazioni in cui gli interessi delle grandi potenze si scontrano. La crisi siriana è un esempio lampante: mentre milioni di persone soffrivano una guerra devastante, l’ONU è rimasta inerte, ostaggio dei veti incrociati di Russia e Stati Uniti. Lo stesso si può dire per la situazione in Yemen, una tragedia umanitaria di proporzioni epiche che vede l’organizzazione relegata al ruolo di spettatore. Inoltre, l’Assemblea Generale, pur rappresentando tutti i membri dell’ONU, non ha alcun potere vincolante. Le sue risoluzioni sono spesso simboliche, prive di meccanismi per trasformarsi in azioni concrete. Questo rende l’ONU sempre più marginale, percepita non come un arbitro globale, ma come una tribuna di retorica.
La Corte Internazionale di Giustizia (CIG), istituita per risolvere le controversie tra Stati, soffre di una debolezza intrinseca: la sua autorità è subordinata al consenso delle parti coinvolte. Se uno Stato decide di ignorare una sentenza, non esiste un meccanismo effettivo per farla rispettare. Questa dipendenza dal consenso volontario mina il principio stesso di giustizia universale. Ad aggravare la situazione, la CIG è spesso accusata di essere influenzata da interessi politici, con una giustizia che sembra applicarsi in modo selettivo. Ad esempio, i casi in cui la corte è intervenuta contro Stati non occidentali sono significativamente più numerosi rispetto a quelli che coinvolgono le potenze occidentali, creando un sentimento di ingiustizia percepita e un’ulteriore perdita di fiducia.
La NATO, originariamente concepita come un’alleanza difensiva per proteggere i Paesi occidentali dalla minaccia sovietica, ha subito una trasformazione radicale dopo la fine della Guerra Fredda. L’espansione dell’organizzazione verso i confini della Russia, con l’inclusione di molti Paesi dell’Europa orientale, ha generato tensioni crescenti con Mosca, culminate nel conflitto in Ucraina. Questa politica espansionistica, percepita da alcuni come una provocazione deliberata, ha alimentato il risorgere di blocchi geopolitici contrapposti. In risposta, il BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) si è consolidato come alternativa al dominio occidentale, promuovendo una narrazione di resistenza alle ingerenze della NATO e più in generale all’egemonia degli Stati Uniti. Ma la critica alla NATO non si limita alla geopolitica. A livello globale, l’alleanza è spesso vista come promotrice di interventi militari che, invece di portare stabilità, hanno esacerbato le crisi. Dall’Afghanistan alla Libia, le operazioni condotte sotto l’egida della NATO hanno lasciato dietro di sé Paesi frammentati e instabilità cronica, alimentando il sospetto che l’alleanza non sia più uno strumento di difesa collettiva, ma piuttosto un veicolo per perseguire interessi strategici di alcune potenze.
L’Unione Europea, spesso celebrata come il più grande progetto di integrazione regionale nella storia, sta mostrando crepe sempre più profonde. Gli interessi divergenti dei 27 Stati membri impediscono all’UE di agire come un attore unitario sulla scena internazionale. Dalle politiche migratorie alla gestione della crisi energetica, l’UE appare bloccata da conflitti interni che ne paralizzano l’azione. Le recenti elezioni dei vicepresidenti del Parlamento Europeo hanno messo in evidenza quanto le rivalità nazionali e le dinamiche di potere interno siano diventate prioritarie rispetto agli obiettivi comuni. Questo clima di divisione contribuisce a rafforzare l’immagine di un’Unione dominata da burocrazia e compromessi, incapace di rispondere alle sfide dei suoi cittadini.
A livello globale, cresce la percezione che queste istituzioni siano diventate “carrozzoni” costosi e inefficaci. Il loro mantenimento, finanziato dai contributi degli Stati membri, pesa sui bilanci nazionali senza produrre risultati proporzionati. La sfiducia verso queste organizzazioni è palpabile, non solo tra i cittadini, ma anche tra i governi, sempre più inclini a bypassare le istituzioni multilaterali per perseguire interessi nazionali attraverso accordi bilaterali o coalizioni ad hoc. Questa disillusione si riflette anche nella retorica pubblica, con un crescente scetticismo sulla capacità delle istituzioni internazionali di affrontare le sfide più urgenti, come il cambiamento climatico, la proliferazione nucleare e la regolamentazione delle nuove tecnologie.
Il mondo sembra trovarsi sull’orlo di un collasso sistemico. La minaccia nucleare, un tempo relegata ai manuali di storia della Guerra Fredda, è tornata a essere una possibilità concreta. La mancanza di una leadership globale efficace e la frammentazione del sistema internazionale ci hanno portato a un punto in cui i conflitti si moltiplicano e la cooperazione diventa un miraggio. La crisi delle istituzioni internazionali non è solo un problema di governance, ma una questione esistenziale. Se il sistema globale non è in grado di prevenire l’uso di armi nucleari o di garantire una distribuzione equa delle risorse, allora il suo fallimento sarà totale.
La domanda che dobbiamo porci è se queste istituzioni possano essere riformate o se siano destinate all’obsolescenza. Una riforma profonda richiederebbe non solo la revisione delle strutture di governance, ma anche un ripensamento radicale del loro ruolo e dei loro obiettivi. Serve un sistema più inclusivo, che non sia dominato dalle grandi potenze, e che sia capace di rispondere alle sfide globali con rapidità e determinazione. In assenza di un cambiamento significativo, il rischio è che queste istituzioni diventino sempre più irrilevanti, trascinando con sé l’intero sistema internazionale. Di fronte a questa prospettiva, non possiamo permetterci l’immobilismo: il futuro dell’umanità dipende dalla nostra capacità di costruire un sistema globale che sia all’altezza delle sfide del XXI secolo.