Antonella Presutti, Gianna Piano, I sopravvissuti, Les Flaneurs Edizioni 2024, pag. 224
di Marisa Cecchetti
Quando torniamo nelle nostre case a fine giornata, quando vi troviamo rifugio mentre fuori scroscia la pioggia o è gelido, ci sentiamo accolti, protetti. Al sicuro. Allora non è possibile evitare la commozione davanti alla tragedia di un borgo appenninico, “un paese che non era paese”, che negli anni trenta ha visto molti abitanti andarsene a causa di una frana, e nel 1960 abbandonare tutti le proprie case quando arrivò una frana più devastante: è Villa San Michele, nel Molise, “luogo non luogo” che risale al 1700, quando la gente vi arrivò dai paesi vicini alla ricerca di nuovi pascoli. Ora rimangono solo case invase dal bosco, porte che si sono chiuse per sempre sugli spazi conosciuti, sugli oggetti di vita quotidiana, sulle foto in bianco e nero che si intravedono oltre una finestra, attaccate a un chiodo arrugginito, fantasmi di storie vissute.
Percorrere quegli spazi nel silenzio ampliato dalla voce di una fontana, con un cane che spunta all’improvviso, è entrare in una dimensione surreale, onirica, con l’invisibile che si percepisce, come se alitasse intorno. Sembrano aggirarsi ancora tra quelle mura esistenze rubate dalla forza dell’acqua, gorghi fangosi e pietrosi che travolsero anche la ruota del mulino, “C’era gente qui e terra coltivata e animali e case aperte e uomini e donne e bambini e boschi che salivano e scendevano il sentiero fino alla chiesa nella valle, il mulino nella macchia, lì in fondo […] ed era bello qui e ricco e vivo e si lavorava”.
Antonella Presutti dà vita a creature semplici legate alla terra, all’orto, alla famiglia, alle tradizioni, agli animali: lontana da centri importanti, è gente che non desidera altro, perché il risultato delle loro fatiche basta per vivere. Lo sa bene don Onofrio che si è fatto prete per avere un piatto pronto in tavola, non per fede, e fa entrare in chiesa animali e persone e non rinuncerebbe mai alla canonica, anche quando la montagna si spacca e trascina tutto a valle.
Se Antonella Presutti si avvicina ad Amato, Sabetta, Anna, Addolorata, Renato, Matilde, Leda, Carmela, Giovanni… quasi in punta di piedi, con un linguaggio leggero che ha la morbidezza della poesia – come per non disturbare – le foto di Gianna Piano, che scova muri abbandonati, porte e finestre consumate dal tempo e dalle intemperie, una pentola solitaria, un balcone a cui nessuno si affaccerà, un viluppo di rami che si impossessano degli spazi, una luce crudele che svela un interno, quelle foto, dunque, creano anch’esse poesia, fanno toccare la sofferenza della perdita e dell’abbandono.
Tutto era cominciato un giorno di novembre, quando la pioggia dapprima fu salutata come una grazia del Signore, ma durò per settimane e settimane e la terra non la beveva più, il cielo rimaneva chiuso e plumbeo, e una mattina Amato vide che sul pavimento “le mattonelle a quadri bianchi e rossi si erano alzate a cupola, crepandosi come terra d’estate, lì, in mezzo alla campagna”. E a Sabetta che amava lo sciabordio dell’acqua al mulino, quella pioggia raggelava il sangue; e Addolorata sentì alle tre e mezzo un “rumore maestoso” che veniva dalla montagna, il tonfo secco e poi lo scroscio violento e prolungato delle pietre; e Renato, che era partito per andare a un matrimonio, fu sorpreso dall’onda che lo portò via quando era già vicino a casa.
La frana cammina e cancella, il fiume ingrossato divora il mulino, sorprende due amanti e lei esce gridando che Giovanni è morto “per una frana del cuore”. Suonano come un monito oggi, in un momento di grandi disastri ambientali, queste pagine che parlano a tutti noi e suscitano domande atterrite. Intano scendono nei personaggi, mettono a nudo il dolore, anche quello della bellezza femminile vissuta come un peso e una condanna; rivelano le passioni della carne, la diversità di chi parla con gli animali – ma nessuno lo sa – e si sente “una pietruzza minima e insignificante nel corpo del mondo”.
Gli animali, le piante, gli elementi della natura, acquistano una valenza umana, così indissolubili dalla vita delle persone, così indispensabili e amici, così sofferenti. Anche Ulisse, l’asino che il veterinario ha adottato e dal cui sguardo umido è stato stregato, anche lui, abituato a prendersi dei momenti di libertà nel bosco, la notte della grande frana non è tornato a casa. Tra le rovine delle case, nel silenzio, passano le ombre di esistenze troncate: “nessuno se n’è andato” davvero, perché è “una semplice legge di vita e di natura, per la quale non tutto di noi se ne va, non tutto resta, ma ci squamiamo nel tempo e al di là del tempo”. Come si squamano piano piano i ruderi del “paese che non è riuscito a diventare non è paese”.