“La luce segreta del Salento” il romanzo degli amori possibili di Maurizio Mazzotta. Sesta puntata (6/9)
L’odore nella testa
Federica e Valentina, confinate in un angolo della Corte dei Cicala gestita dal bar e dalla vicina libreria, sono intente all’ascolto del sassofonista. Hanno scoperto di avere interessi e gusti in comune, questa sera di jazz è stata decisione rapida e unanime.
Valentina con l’enorme coppa di gelato davanti ripercorre gli anni delle Medie, e nemmeno il cioccolato all’arancia, il pistacchio la crema e la panna hanno la meglio sulla memoria che le riporta l’immagine di Federica compagna di scuola.
Anche Federica ha la testa altrove. La presenza di Valentina le suggerisce di ritornare alle ore della mattina e a realizzare una fusione di sensazioni, emozioni, presenze, microeventi. Ricorda se stessa in un vigneto fino a poche ore prima. Ha con sé la macchina fotografica, ma non sa che uso farne. L’emozione di sentirsi sovrastata circondata avvinta avvinghiata! In certi momenti era come attraversare una foresta.
Dall’intrico, groviglio di rami sottili e tenaci, meglio un ordito, una trama, qualcosa di preordinato, stabilito, affioraDiego D’Urso: un vestito di lino chiaro, cravatta straordinaria per azzardo di colori, collo della camicia aperto, panama e bastone. Lungo allampanato più alto della vigna.
“Ascoltare, saper ascoltare, significa essere capaci di far parlare gli altri.”
Proprio mentre lo sente pronunciare questa frase che lui le ha detto realmente non ha importanza quando, Valentina si volta di scatto verso di lei e Federica richiamata alla realtà le sorride. Le viene voglia di parlare perché Valentina è una che ascolta.
«Mi è stato offerto un lavoro. C’è una cosa che mi è sempre piaciuta. Fotografare gli ulivi. Gli ulivi di queste parti, anche la terra, rossa. Ricordo che mi colpirono entrambi, gli ulivi e la terra, quando arrivai qui la prima volta. Con mia madre. Avevo, credo otto anni, forse nemmeno, quando andammo via da Perugia. Ma io ero sempre vissuta in campagna, dalla primavera all’autunno, con i nonni che vivevano in una cascina. Libera, pure molto piccola, sempre in giro per valli e colline insieme a gruppi di ragazzini, cugini e amici. Eravamo un branco, ci perdevamo, passavamo da un uliveto all’altro attraversando boschi. C’era sempre qualcuno dei più grandi che conosceva quei luoghi, figurati! Io la più piccola ero affascinata.»
Valentina è rapita dall’entusiasmo dell’amica; è la prima volta che la sente parlare in questo modo, eppure non le sembra diversa perchéa non le sembra diversa è cos’vignahe accolgono centinaia di migliaia di visitator è così che se l’è sempre immaginata: «Sei nata libera», le sussurra.
Federica è veramente nata libera, perciò non ci fa caso e continua.
«Era diverso. Qui è tutta una pianura, lì colline e valli dolcissime, verdi verdi, e gli alberi erano morbidi, capisci cosa provai? Questa diversità di colori, di forme! Ora ho l’occasione di esprimere tutto quello che ho provato allora, devo fare un album, devo raccontare un’intera piana, un territorio a poca distanza da qui, dove c’è di tutto, ulivi e vigneti, boschi e giardini con frutteti, c’è di tutto, immagina una piana estesa, pensa cosa deve essere in primavera, quando fioriscono mandorli e ciliegi, o d’inverno gli aranceti. Colori in tutte le stagioni.»
«Tua madre insegnava Educazione artistica, vero? Per questo assorbi i colori.»
«E mio padre era scultore. Da lui ho imparato a gustare le forme, per quel poco che sono stata con lui.»
Valentina dopo qualche silenzio: «Perché sei tornata?»
Federica ha voglia di parlare. «Mio padre aveva ormai un’altra famiglia, i nonni non c’erano più, mi sentivo ospite. Per quasi dieci anni mi sono sentita ospite. Per fortuna sono stata a Urbino per studiare Fotografia, poi ho cominciato a lavorare subito proprio qui a Lecce. Mio zio mi ha trovato un lavoro, sapeva che avevo voglia di tornare qui. Mia madre ed io eravamo molto unite, non avevo amiche, lo sai, frequentavo poco le compagne fuori della scuola. Insomma qui avevo una casa, quella di mia madre dove stavamo così bene insieme noi due sole. Lo zio, un fratello di mia madre, mi ha spianato la strada e continua per la verità. L’anno scorso grazie a lui sono stata inclusa in una collettiva, e il lavoro di cui ti sto parlando, lo devo proprio a quella mostra.»
Si sono trasferite a casa di Federica. Valentina l’ha accompagnata, ma non vogliono separarsi, e così è salita su.
«Per vedere la casa», ha giustificato Valentina.
Fa caldo e hanno spalancato le finestre di tutte le stanze per creare un passaggio d’aria, che però stenta ad arrivare. Anzi, tranne un alito spirato dall’ultima finestra, che ha svegliato qualche speranza, la casa è immobile come prima. Questo scorcio di giugno ha le medie stagionali decisamente fuori misura.
«Se mettiamo fogli di carta leggera su questa consolle proprio qui nel corridoio, dove dovrebbe passare la corrente d’aria, vedrai che rimarranno inerti.»
«Stupenda questa consolle. Dovresti valorizzarla, metterla all’ingresso.»
«Non ci sta. Mia madre ha verificato tutte le soluzioni per sistemare al meglio questi mobili ereditati. Li ha sistemati lei, io non ci provo nemmeno.»
«Scusa, pensavo…»
«Non ti preoccupare. Ti mostro la casa. Non sei salita per vedere la casa?»
«Anche.»
«Veramente è rimasto solo il salotto e la stanza segreta. E perché altro ancora sei salita?»
Federica le mostra il salotto. Valentina lo guarda senza vederlo; si scuote e si chiede: perché mai questa distrazione? Intanto l’amica continua a mostrarle i suoi ambienti: «Questo lo studio, laboratorio, tutto fare, dove sto sempre. Nel salotto non entriamo mai, né io né la mia Chicca», dice invitando la gatta che con un salto le si accoccola sul petto. «Nello studio entriamo solo noi due.»
Valentina si ferma sulla soglia.
«Non entri?»
«Hai detto che entrate solo voi due.»
«Fino adesso.»
Valentina porta lentamente lo sguardo su tutti gli oggetti: computer, libri, scaffali, si sofferma sui cappelli e di colpo immagina Federica imbacuccata vestita d’inverno.
«Perché altro sei salita?»
Continuando ad osservare tutto con molta attenzione: «Per conoscerti, per avere conferme. Per concludere la serata che certo non invita al sonno. Perché domani è domenica.»
«Non c’è nessun altro perché?»
«Mi va di sentirti parlare.»
«Già meglio.»
Federica decide per la camera da letto, la meno calda, perché lei previdente serra finestra e avvolgibile per non fare entrare il caldo del giorno.
«Se vuoi fai come me», dice Federica liberandosi della gatta, dei jeans e della camicetta. Non ha reggiseno. Indossa un baby-doll di un verde assai tenue.
«Vuoi qualcosa da bere?»
«Abbiamo fatto il pieno di musica e gelati. Voglio sentirti parlare.»
«No, adesso parli tu.»
«Tu stai nuda e hai voglia di parlare. Io ti guardo e voglio sapere tutto di te. Ti dico solo questo. Che desideravo essere amica tua alle Medie ed ero invidiosa della tua compagna di banco, la sola con cui credo ti vedessi forse per studiare.»
«Anche io voglio sapere tutto di te», dice Federica misurando le parole intanto che come il primo giorno sofferma lo sguardo sulla pelle chiara e sul biondo cenere dei capelli, sugli occhi tristi di lei, verdi, celesti? Cambiano continuamente.
Valentina fa cenno di sì e Federica si rassicura.
«Parlami del nuovo lavoro. Ne hai accennato al bar. Eri contenta, elettrizzata.»
Federica sulla poltrona raccoglie le gambe e Valentina trova sul letto una posizione più comoda.
«Ho conosciuto delle persone straordinarie. Mi piacerebbe portarti da loro. Il servizio fotografico di cui ti ho parlato. Vivono in campagna a pochi chilometri. Non soltanto loro, tutto è particolare. Ogni cosa ha un senso, un nido di significati, che ti riempiono e ti fanno stare bene. Sono scrittori entrambi, lui avrà sessanta anni credo, lei è più giovane. Stanno così bene insieme, lo senti proprio, tocchi con mano che tra loro c’è un sentimento forte, deve essere stupendo il loro rapporto, quello che ogni donna e ogni uomo sognano.»
Fa una pausa. Sembra proprio essersene andata a Villa D’Urso con Irene e Diego. Valentina la osserva attentamente.
«Non me ne hanno parlato. Hanno o hanno avuto una figlia, cosa sia successo non lo so. Qualche giorno fa mi ero sporcata i jeans. Hanno due magnifici pastori tedeschi, mi avevano imbrattato i jeans, la camicetta, e allora Irene, lui si chiama Diego, Irene mi ha fatto indossare un vestitino molto grazioso. Siamo entrati in una stanza sempre chiusa…»
Federica racconta e Valentina è una spugna. Non la sta soltanto ascoltando. L’ascolta perché veramente vuol sapere di questa esperienza che sembra accenderla. La ascolta e ne è attratta. Non sa come e perché. Né se lo chiede. Ricorda quanto le piaceva da ragazzina. Ha una forza che trascina, a partire dall’espressione vivace dello sguardo, da come scuote la testa e tutti i riccioli che la circondano. Una sorgente, una fonte di energia, con un pizzico di candore che la sua tragedia non ha spento, evidentemente. E c’è dell’altro, nel corpo qualcosa di delicatamente aspro, fine e selvatico, se è possibile. A pocoa poco Valentina si lascia rapire. Di una purezza istintiva. Sente la voce che squilla, cosa stia dicendo è meno importante. Si impone di essere attenta a quello che dice.
«L’altra sera tornavo dalle mie esplorazioni nella piana. Tra parentesi ti dico che sono così emozionata da questa esperienza che non so cosa fare della macchina fotografica che pure è sempre con me. Insomma stavano ballando una rumba. Hanno una pista da ballo, no ma devi venire, è tutto così straordinariamente semplice. Stavano ballando e io mi fermo ad osservarli.»
In questa pausa Valentina scorge, se ne convince osservandola meglio, che Federica si sta commuovendo. Allora scivola attraverso il letto e le tende la mano. La poltrona è a fianco al letto e Federica prende quella mano. Sta facendo uno sforzo per reprimere le lacrime. E come accade per solidarietà anche gli occhi di Valentina si velano e le scuote la mano come a dire che ti succede, dimmi.
«Mi sembra veramente un altro mondo. Il mondo che una persona, chiunque, sogna. Mi sfiorano mentre ballano. Ero lì incantata con lo zaino sulle spalle, accaldata, sudata, con la voglia di doccia che mi era passata. Irene mi dice quasi in un soffio: “Ti piacciono le favole?” Devo averla guardata con la faccia da cretina. Lei ripete: “Le favole”. “Le piacciono sì, te l’assicuro io”, dice lui mentre la fa ruotare. Si avvicinano di nuovo e Irene: “Quando le favole si fanno strada nel cuore allora sono vere.” Io sto sempre lì come una stupida a guardarli, inchiodata, non riesco a muovermi. Qualche volta ho pensato che fossero strani, invece per certi aspetti sono normalissimi. Si sono creati un’altra realtà. “Saresti capace di andare di notte nel vigneto?” Mi dice quando si avvicinano la terza volta. “Senza luna. Buio pesto.” Quella proposta mi fa venire i brividi pensando al vigneto di notte e dico: “Con Fox e Liebe.” Sono i cani. “E con la luna piena”. “Va bene” fa lei: “Con Fox e Liebe, e”…»
La ragazza, sopraffatta da un nodo alla gola, vorrebbe, vorrebbe tanto terminare la frase, quasi un’ossessione, ce l’ha in testa “e con la luna piena”, non ci riesce, non riesce più a parlare, invece si ostina ed è peggio. Le lacrime sgorgano copiose e Valentina si precipita a soccorrerla, lei le va incontro sul letto e si abbracciano. Valentina la stringe ed ecco per magia tutto si stempera quasi che quest’abbraccio sia proprio ciò che occorre a Federica che per primo avverte un odore di buono così intenso che quasi la stordisce; la stringe con forza. Irene e Diego sono risucchiati nelle profondità della memoria. Esiste solo l’odore di Valentina e l’ultimo pensiero è proprio questo: l’odore che voleva. Così rimane.
Valentina si è precipitata a soccorrerla, anche lei avverte qualcosa che a stento riesce a spiegarsi: il corpo mezzo nudo di Federica esprime una “morbida energia” e il suo cuore ha un balzo d’emozione. L’ultima parola che formula nella sua testa è semplice: tenerezza.
Rimangono a lungo così. Poi in Valentina emerge un assurdo, inutile, conflitto: restare o andare via. Restare le fa paura, andare via, lo sa bene, è una fuga.
«Federica, è tardi devo andare» mormora Valentina cercando di liberarsi dalla stretta tenace dell’amica, E Federica non parla, vorrebbe dire semplicemente: perché te ne vai?
Scoperte
La tavola è apparecchiata; Diego è seduto e digita il telecomando del televisore.
«Abbiamo tutto? Per non doverci più alzare», chiede Irene prima di sedersi, poggiando una zuppiera al centro.
«Credo di sì», assicura Federica osservando attentamente la tavola imbandita intanto che posa la coppa pesante della frutta su un tavolino di servizio. Si siede anche lei.
«Il telegiornale è al termine», avvisa Diego. «Ascolteremo il successivo. Se volete spengo. C’è la pubblicità.»
«No, lascia», prega Irene. «A volte ci sono spot intelligenti, sono fatti molto bene. Ti colpiscono e divertono e non ci ricordiamo cosa hanno pubblicizzato.»
«È vero», rafforza Federica. «Sembra che la pubblicità non raggiunga l’obiettivo. Così se lo spot è brutto, non compriamo il prodotto per dispetto; se ci piace ci divertiamo e non ricordiamo cosa hanno presentato.»
Diego scuote la testa: «Sembrerebbe.»
Federica assaggia il primo di cui è responsabile.
«Poteva venire meglio. La prossima volta…»
«Buonissima!» Irene è convinta e invita Diego a individuare gli ingredienti del piatto freddo.
Diego li individua e Federica resta delusa.
«No», dice «non doveva essere così facile.»
Qualche secondo dopo lei si ferma attratta dal monitor, mentre Diego e Irene invece sembrano proprio gustare il riso basmati agli ortaggi: patate zucchine melanzane carote cipolle tutto a pezzetti minuscoli e trifolati.
«Era proprio un agnellino come questo.»
Federica indica la storiella che si sta svolgendo alla TV.
«Mi ero affezionata alle immagini delle storie che leggevo da bambina. Era un bel libro, storie di animali, poi ovviamente seppi che l’agnello e tutti gli animali vengono allevati con uno scopo preciso. Così sono diventata vegetariana. I nonni si dannavano… È sano, è coerente, considerando i bambini, umanizzare gli animali e nello stesso tempo allevarli per i nostri bisogni alimentari? Quindi convincere i bambini a mangiarli?»
Così a pranzo si riuniscono tutti e tre, quasi regolarmente, ed è naturale, proprio come si era preannunciato la prima volta, al primo incontro, quando si sono conosciuti. Tanto naturale che è un piacere spiarli.
Approfittare che la calura li costringa a chiudere porte e finestre, perché la casa che ha muri spessi resti fresca, e vagare per le stanze, cercare di scoprire come in fondo mi sia stato così facile metterli insieme. Poi tornare nella stanza accanto, sostare, per ascoltare, solo ascoltare, senza vedere. Si capisce di più.
Io che racconto questa storia è così che sto facendo. Spio.
Così farà Federica quando loro due riposeranno sul divano. Scoprirà qualcosa e avrà delle conferme.
Intanto afferro frasi, discorsi a metà.
La voce di Federica. Più spesso è lei a parlare, buon segno, parla liberamente. Tutto ciò che le salta in mente. Chiede, interroga, sicura di avere risposte che la soddisfino. Adesso sta chiedendo, e chissà da cosa scaturiscono le frasi, forse dalla televisione accesa? No. Più probabile che sia l’intreccio interiore che si sta creando tra tutti e tre, e ciò che si espande dalla testa della ragazza è frutto di nuove-antiche interferenze. Come accadeva con sua madre.
Ha posto un quesito; ha chiesto: «Quale criterio si assume per valutare se un popolo è civile? Il progresso tecnologico esaspera ciò che abbiamo di brutto. La cultura: scoperte, invenzioni, espressioni della creatività artistica di un popolo, la sua storia insomma, lascia dei vuoti spaventosi. Se pensiamo quanto ovunque regni la violenza, il sopruso, l’incapacità di accettare l’altro…»
«Ti stai dando una risposta.»Questa è lavoce profonda di lui.
Ecco io, dal mio posto di ascolto nella stanza attigua noto soprattutto questi aspetti. Per esempio che la voce di Diego trasporta ciò che dice fin dentro l’anima e sprofonda nel cuore di chi ascolta. Sta dicendo: «Puoi concludere che non esiste un popolo civile. Non esiste la civiltà. Il guaio è che sappiamo però cosa può rendere un popolo civile. Esistono delle leggi che si ispirano a un concetto di civiltà, che hanno definito i criteri, poi altre leggi e soprattutto i nostri comportamenti le contraddicono. Tu parli di vuoti. Forse basterebbe colmarne uno: sentirsi veramente e totalmente senza alcun ma, senza alcuna riserva, veramente uguali, tutti uguali. Che significa riconoscere che l’altro ha gli stessi bisogni, esigenze, necessità. Oppure differenti bisogni col diritto di soddisfarli. Bisognerebbe chiedersi perché questo vuoto non si colma. Né dobbiamo rassegnarci e concludere che è proprio della natura umana. Piuttosto dovremmo analizzare i fattori che rendono la nostra natura incapace di accettare l’altro.»
Di colpo cade il silenzio sottolineato proprio da altri suoni: le stoviglie, i piatti, i bicchieri.
Qualcosa accade in questo silenzio. Nell’intimo di Federica si fa strada un’emozione ormai inequivocabile. Torna bambina con una voglia impressionante di capire. Ricorda che il desiderio di sapere era soddisfatto, lei adolescente, dalle risposte che le dava la madre. Tuttavia mancava qualcosa. Non c’era emozione in quel bisogno di conoscenza. Eppure era così legata alla mamma! Si convince che avrebbe provato l’emozione che prova ora se domande e risposte fossero accadute molto prima, quando viveva con entrambi i genitori ed era più piccola. E perché ora si sente come forse si sarebbe sentita a sette anni quando viveva serenamente in famiglia? Forse se cerca di capire cosa sta provando riesce a darsi una risposta.
Diego riprende a parlare e la sua voce torna a colmare i silenzi della casa. A penetrare i muri, a fondersi con tutto ciò che è fermo e rassicurante.
«L’uomo ha un bisogno prepotente, così forte che si manifesta in tanti modi: il bisogno di credere che la morte fisica non è la fine, che egli continuerà a vivere. Perché in tanti modi? C’è chi è convinto dell’esistenza di un mondo ultraterreno. C’è chi, come lo scienziato o l’artista, vuole lasciare un’orma del suo passaggio. Di questo bisogno approfittano le religioni. Tutti coloro che non si rendono conto che l’esistenza di un bisogno non ci dice nulla sull’esistenza di ciò che può soddisfarlo, cadono nella trappola. È una trappola, perché le religioni in realtà sono espressioni di un altro bisogno dell’uomo: quello di dominare i propri simili. Questa la radice dell’intolleranza.»
Non sono nuovi i concetti, per Federica è nuovo quello che prova. Per questo è attenta, emozionata. Ha la sensazione che siano nuove anche le cose che ascolta. La voce, la calma, la sicurezza di Diego e il volto di Irene, che io non vedo ma che certamente annuisce, sono le guide che le sono mancate. La madre aveva soddisfatto il bisogno di capire. Ciò che prova adesso è una voglia di guida. Punto. Di essere presa per mano. Per comprendere fino in fondo.
A Federica viene voglia di piangere e anche se non piange, io nella stanza accanto ascolto i suoi singhiozzi inespressi. So pure che lei sta interrogando Irene che intende tutto quello che accade a Federica ma preferisce che sia Diego a parlare e Federica, se ne ha voglia, di chiedere.
«In ogni religione il fondamentalismo è in agguato. Si scambia il relativo per assoluto. Il relativo stimola l’intelligenza e apre il cuore alla comprensione e genera autonomia, mentre tutto ciò che viene presentato come assoluto è imposto, non si discute e serra le menti e gli animi e crea dipendenza. Dominare le coscienze: ecco il bisogno di potere. L’uomo dominato, inibito, non esplora, non cerca. Anzi, ha paura. Teme ogni cambiamento, teme chi non conosce.»
Avverto che Federica si è acquietata. Vorrebbe spalmarsi sulla tavola, sul pavimento, sulle pareti. Vorrebbe che in quel bicchiere d’acqua fresca che sta portando alle labbra ci fossero sciolti Diego e Irene.
Dalla stanza provengono a me, che compio deduzioni, i gesti consueti di chi è in famiglia, seduto a tavola – come qualcuno che solleva la bottiglia, un altro la cesta del pane, la padella che passa da una mano all’altra, qualcuno che poggia al centro la coppa con la frutta –, e mi convinco che questo stare insieme significa una cosa sola, significa che anche Diego e Irene hanno lo stesso desiderio di Federica, quello di bersela nel bicchiere d’acqua.
Federica nel bagno si lava i denti. Hanno sparecchiato, rimesso ogni cosa a posto. Tutti e tre. Poi Diego e Irene si sono sdraiati sul divano della sala col camino, gli avvolgibili quasi totalmente abbassati.
Federica si muove in gran silenzio per la casa. Altre volte se ne è andata nel giardino degli aranci o nella pineta per dondolarsi sull’amaca. Oggi fa troppo caldo. Le emozioni si sono stemperate e mentre in punta di piedi osserva gli oggetti che ormai le sono familiari un’altra inquietudine si risveglia. Che altro potrà ormai accadere in questa casa così magica?
Si accosta alla libreria alla ricerca di un libro che svegli il suo interesse e scopre sulla scrivania un album che non aveva mai visto. Album che si apre d’incanto tra le sue mani. La copertina rigida e la rilegatura danno questa sensazione. Le pagine si aprono da sole e appaiono e scompaiono poesie e foto di ragazze. Di una ragazza. La prima foto che guarda con attenzione è assai simile a quella nella stanza dove era entrata con Irene. Torna alla prima pagina e legge.
“Ascolta Daniela, devo raccontarti una storia essenziale. Tu sei stata concepita nel folto del vigneto. Era l’ora degli uomini delle vigne. Custodi dei silenzi dei grappoli, delle iperboli dei pampini, delle necessità delle radici. Il popolo delle vigne, che emerge silenzioso dall’umido fervido della terra, suggerisce sensazioni emozioni pensieri delicati, bisogni autentici di contatti. Per questo tu sei stata concepita nel folto del vigneto.”
Federica chiude l’album e si siede sulla poltrona dello studio, la poltrona di Diego. L’enorme vetro infrangibile della finestra, senza apertura, si spalanca su grappoli gialli che assorbono il suo sguardo: la palma coi suoi rami verdi carichi di grani di un giallo intenso.
Cosa faccio qui? Si chiede Federica. Distoglie la mente da questa domanda che tenta di imbrigliarla con grande sforzo e riprende a sfogliare l’album.
Più tardi, poco più di mezz’ora, Federica in cucina attende che esca il caffè. Prepara il vassoio con tre tazze e la zuccheriera. Nella sua testa c’è posto per una sola domanda che ha deciso di porre. E le azioni sono guidate da questa unica, fondamentale domanda, la cui risposta teme.
Sul divano Diego è seduto con gli occhi chiusi, Irene è distesa, i suoi piedi sono sulle cosce di Diego, che li tiene ben stretti.
Appena entra, Diego apre gli occhi e le sorride. Federica no, pur guardandolo. Accosta con la mano libera una poltrona e si siede. Il rumore delle tazzine e il profumo svegliano Irene, che cambia posizione e si siede per prendere la tazzina che la ragazza le porge.
«Ho fatto una cosa che forse non dovevo fare. Sulla scrivania del tuo studio c’era un album. L’ho aperto. Non dovevo farlo. L’averlo fatto mi dà la forza di chiedere.»
Diego dopo il primo sorso: «L’album non era lì per caso. Se fosse stato lì sempre l’avresti già notato. Abbiamo deciso che tu dovessi sfogliarlo. Non c’era altro modo. Non volevamo essere noi a raccontarti la nostra storia, abbiamo scelto che fossi tu a chiedere, a domandare.»
Irene sospira: «Quello è uno dei tanti… mai troppi ricordi di nostra figlia Daniela. Un cancro ce l’ha tolta quando aveva diciotto anni. Ed è accaduto tutto così in fretta… Per questo, e ciò nonostante, abbiamo imparato che la vita è troppo importante per non essere vissuta.» Diego, come se volesse spiegare. «Qualunque cosa possa accadere. Si tratta di sciogliere il dolore, quello che subiamo, anche quello che procuriamo, lasciarlo che circoli nelle vene. Che non svanisca, che rimanga, che faccia sempre parte di noi, per renderci migliori, per farci vivere più intensamente.»
Federica beve il caffè che si è raffreddato. Questa volta li guarda, prima uno, poi l’altro, non sa su chi soffermarsi, infine decide e porge ad entrambi le mani.
«Si era parlato di album di campagna, di foto per la piana dei vigneti, mi rendo conto che sto entrando nella vostra storia. E nella tristezza, nel dolore che ci unisce, tutto è più semplice.»
La settima punta sarà online il prossimo 14 novembre